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Dossier: La strage di Marzabotto

di Renato Giorgi

II più terribile massacro compiuto dai nazisti nel nostro Paese, uno dei più feroci della loro storia criminale, ebbe luogo dal 29 settembre al primo ottobre 1944. Lo compirono le SS del maggiore Reder, monco di un braccio, già assassino delle povere vittime innocenti di S. Anna di Stazzema, in Versilia. Ora Reder sconta l'ergastolo a Gaeta con il col. Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine

Il 29-30 settembre ed il 1° ottobre furono i giorni più terribili della carneficina, ma continuò anche poi; alcuni per ventura
scampati, stanno ancora oggi a testimoniare la verità su quanto allora accadde. Dalle strade prossime e dalla ferrovia, molti
sono corsi su verso Casaglia, e con la popolazione del luogo si sono rifugiati in chiesa a prendere conforto dalle parole del
Parroco, Don Ubaldo Marchioni, che recita il Rosario sull'altare; nella chiesa in penombra, la massa inginocchiata bisbiglia le
parole della fede e della speranza. Irrompono i nazisti, una raffica si alza sopra le grida della gente: Don Ubaldo Marchioni
cade sulla predella dell'altare, colpito a morte. Tutti gli altri vengono buttati fuori della chiesa e ammassati nel cimitero.
Solo una povera donna non può uscire perché paralizzata alle gambe: Vittoria Nanni. Farà compagnia a Don Marchioni,
massacrata nel mezzo della chiesa, mentre disperata urla ed annaspa invano con le braccia per l'aria, inchiodata alla seggiola.
Enrica Ansaloni e Giovanni Bettini sono riusciti non visti a rifugiarsi nel campanile, e forse ancora sperano: sono scovati e
massacrati sul posto.
Gli altri, nell'angusto cimitero di montagna che sembra abbandonato perché di rado accade che si debba spalancare il cancello
di ferro battuto roso dalla ruggine, stipati ed accavallati contro le lapidi, le croci di legno e le tombe, vengono falciati dalle
mitraglie e fatti bersaglio delle bombe a mano. Sono così sterminati 28 nuclei familiari comprendenti 147 persone di cui 60
bambini. Filippo Pirini perde 7 figli, cosi Agostino Daini. Ernesto Gherardi, Luigi Piretti, Giulio Ruggeri, Giuseppe Soldati e
Romano Tedeschi soffrono il massacro di tutti i familiari. Sisto Mazzanti e Primo Vannini scompaiono con tutta la famiglia.
Quando, dopo lungo tempo, le bombe naziste hanno finito di dilaniare corpi e sconvolgere tombe, in un punto il rigido ammasso
scomposto si muove e s'alza in piedi, illeso, un bimbo di sei anni, della famiglia Tonelli: guarda in giro non vede nazisti e grida a
voce alta, verso i morti, incitando a fuggire, a mettersi in salvo. Da sotto il cumulo dei morti esce una fanciulla ferita. Lucia
Sabbioni, che prima di allontanarsi invita il Tonelli a seguirla.
"lo resto" risponde il bimbo "voglio morire con la mia mamma!" e si accosta alla madre riversa tra i cadaveri di altri 5 figli. II
piccolo Tonelli poco dopo cadrà colpito da una granata.
Dal massacro si salvò anche un'altra giovinetta, Lidia Pirini di 15 anni, che così riferisce la propria tragica avventura. "Era il 29
settembre, alle ore 9 del mattino. Alla notizia dell'arrivo dei nazisti, avevo preferito fuggire a Casaglia, sembrandomi Cerpiano
luogo meno sicuro. Abbandonai così i miei familiari, e non ero con loro quando li massacrarono. Infatti mia madre ed una
sorella di 12 anni, otto cugini e quattro zie furono massacrati il 29-30 settembre in Cerpiano. Il 29 li ferirono soltanto, il 30 i
nazisti tornarono a finirli. Quando a Casaglia fummo convinti che i nazisti stavano per arrivare perché si sentivano gli spari e si
vedeva il fumo degli incendi, nessuno sapeva dove andare e cosa fare. Alla fine ci rifugiammo in chiesa, una chiesa abbastanza
grande, era piena per metà, e Don Marchioni cominciò a recitare il Rosario. Ho saputo in seguito che lo trovarono ucciso ai
piedi dell'altare: allora non me ne accorsi, e adesso riferisco solo quanto ricordo. Quando arrivarono i nazisti io non li vidi,
avevo paura a guardarli in faccia. Chiusero la porta della chiesa e dentro tutti urlavano di terrore, specialmente i bambini. Dopo
un poco tornarono ad aprire e si misero di qua e di là dalla porta con i mitra puntati.
Ci fecero uscire tutti in mezzo a loro e ci condussero al cimitero: dovettero scardinare il cancello con i fucili perché non
riuscivano ad aprirlo. Ci fecero ammucchiare contro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno; loro s'erano messi negli angoli e
si erano inginocchiati per prendere bene la mira. Avevano mitra e fucili e cominciarono a sparare. Fui colpita da una pallottola
di mitra alla coscia destra e caddi svenuta. Quando tornai ad aprire gli occhi, la prima cosa che vidi furono i nazisti che giravano
ancora per il cimitero, poi mi accorsi che addosso a me c'erano degli altri, erano morti e non mi potevo muovere; avevo
proprio sopra un ragazzo che conoscevo, era rigido e freddo, per fortuna potevo respirare perché la testa restava fuori. Mi
accorsi anche del dolore alla coscia, che aumentava sempre più. Mi avevano scheggiato l'osso e non sono mai più riuscita a
guarire bene. Anche dopo mesi e anni di cura.
Venne la sera, venne la notte, io stavo sempre là sotto senza rischiare a gridare o lamentarmi, perché avevo paura, anche se il
dolore alla coscia si era fatto insopportabile e non riuscivo più a respirare per quelli che mi stavano sopra.
Intorno a me sentivo i lamenti di alcuni feriti, così passò la notte e quasi tutto il giorno del 30. Sul tardo pomeriggio arrivò
finalmente un uomo a cercare i familiari: li trovò tutti massacrati e anche una parente ferita che trasportò fuori dal mucchio dei
cadaveri. Lo chiamai e mi venne vicino tutti morti mi disse, moglie e 5 figli tutti morti . Mi dimenticai di chiedergli che mi tirasse
fuori dalla mia posizione, né a lui venne in mente di farlo. Lo pregai però di tornare ad aiutarmi, dopo aver soccorso la sua
parente; promise di farlo, purché non avesse avvertito la presenza dei nazisti. Cosi se ne andò ed io stetti ad aspettare. Verso
sera, ci si vedeva ancora, trovai finalmente la forza di decidermi, riuscii a scostarmi i cadaveri di dosso e piano piano mi
allontanai dal cimitero .
Ancora sui fatti di Casaglia, parla Elena Ruggeri che vi perdette la madre, una sorella di 16 anni, due zii e due cugini, Augusto di
14 e Lina di 6 anni. "Allora avevo 18 anni- dice- il 29 Settembre alle ore 9 circa arrivarono le S.S. Scappammo in chiesa, dove
pensavamo di essere rispettate, tanto più che eravamo tutte donne e bambini perché gli uomini validi erano per le macchie. Il
parroco diceva il rosario. Di noi, chi pregava e chi piangeva. Avevamo chiuso la porta della chiesa. I nazisti arrivarono e
cominciarono ad urlare e battere con furia contro la porta, credo anzi che la buttarono giù. Quando sentimmo i colpi contro la
porta, io, una zia e Giorgio Munarini, un cuginetto di 13 anni che si era aggrappato alle nostre mani, scappammo in sacrestia, di
dove, dietro una colonnina di fronte alla porta che dava sulla chiesa, assistemmo a quello che vi accadeva. S'erano messi ai lati
della porta della chiesa, facevano uscire tutti e li picchiavano ridendo, mentre passavano in mezzo. Il Parroco che sapeva il
tedesco, parlò con 2 di loro, ma dall'espressione della sua faccia noi capivamo che non c'era nulla da fare; continuavano a
ridere mostrando il mitra, e, poiché il Parroco insisteva, lo uccisero con una raffica sopra l'altare. Avevo messo una mano sulla
bocca di mio cugino Giorgio per paura che gridasse. Ammazzarono anche una vecchia paralitica che non si poteva muovere.
Fuggimmo alla disperata dalla sacrestia nel bosco, lontano un centinaio di metri: ci videro mentre si correva, ci spararono e
gettarono anche delle bombe a mano, per fortuna senza colpirci. Nel bosco ci sentimmo più sicuri perché si sapeva che non
sarebbero venuti; avevano sempre avuto un terrore folle del bosco; c'era anche un sentiero poco lontano neppure 30 metri, ma
non si azzardarono a venire. Dal bosco vedemmo che fecero andar tutti verso il cimitero vicino alla chiesa dopo aver scardinato
il cancello a spallate aiutandosi con i fucili. Dal nostro posto vedevamo dentro al cimitero. Dopo un quarto d'ora che li avevano
messi contro la cappella, aprirono il fuoco con le mitraglie e gettarono anche delle bombe a mano.
Sparavano molto basso, per colpire i bambini. Appena finito il massacro, se ne andarono. Alle 4 del pomeriggio entrai nel
cimitero a cercare i miei, ma non li trovai perché erano sotto il mucchio dei morti. Da un angolo della cappella mi chiamò mia
cugina Elide Ruggeri ferita ad un fianco: era con una zia che aveva le gambe fracassate e morì dopo 3 giorni. Giunse intanto mio
padre che al mattino s'era rifugiato nella macchia e salvò mia cugina.
Alle ore 11 erano arrivati alcuni partigiani che riuscirono a portare al sicuro dei feriti. 'Noi stemmo nel bosco per 3 giorni e per
3 notti. Mio padre e mio zio furono uccisi tre giorni dopo, anch'essi a Casaglia".
Sempre a Casaglia, in località Casa Beguzzi, le famiglie Armaroli, Benassi, Cerè, Nanni, Paselli e Padriali, ammassate di fronte
alla mitraglia cadono in numero di 38 tra cui 6 bambini.
A Caprara di Marzabotto, per timore che taluno potesse fuggire, non volendo d'altra parte perdere tempo in assassinii isolati, i
nazisti pensarono di legare le persone man mano rastrellate, e quando il numero era sufficiente, tutto il gruppo era stretto dalla
corda, come un covone di grano, e del gruppo mitraglie e bombe a mano facevano strage. Legati assieme da una grossa fune,
16 donne vennero trovate trucidate. Una di esse stringeva ancora al corpo una creaturina di pochi mesi.
Presso la famiglia Moschetti, i nazifascisti arrivarono quando una giovane donna aveva appena dato alla luce la sua creatura,
l'aveva baciata sugli occhi e la bocca, stava per adagiarla vicino a sé tra le lenzuola, e dormire, quando si sentirono i nazifascisti
sparare e buttare bombe sotto casa. Aiutata dalla madre, la giovane saltò dal letto e cercò scampo, con il neonato stretto tra le
braccia. La madre cadde subito, abbattuta sulle scale di casa. La giovane correva, per il campo, insensibile al dolore che
ancora le straziava le viscere, correva disperata cercando con gli occhi fra la terra e le cose amiche il rifugio per la vita del figlio,
che tra le sue braccia sommesso faceva udire i primi vagiti come un pigolio: la raggiunsero e l'uccisero sotto la vigna, mentre il
neonato, buttato in aria, era bersaglio ai loro fucili. Molta della gente di Caprara di Marzabotto viene rastrellata e rinchiusa nella
locale osteria dove i nazisti la massacrarono con le bombe a mano e poi la distruggono con i lanciafiamme.
I caduti sono 107 di cui 24 bambini. Cercano di salvarsi Vittorina Venturi e la madre, saltando da una finestra. Invano,
entrambe sono subito falciate. Tonelli Antonio perde tutti i 15 componenti la propria famiglia, di cui 10 bambini.
Anche Quirico Lanzarini, Celso Lanzarini e Giulio Ventura vedono massacrata tutta la famiglia, così molti altri di cui mai si poté
avere notizie.
La moglie e 4 figli di Gaetano Venturi cadono nel massacro con la nuora e le nipotine: dopo la liberazione il Ventura ritroverà
anche i cadaveri di altri due figli che aveva creduti salvi.
Leandro Lorenzini racconta di avere allora perduto il padre ed il figlio di 15 anni "Il padre lo uccisero subito, il primo giorno del
rastrellamento, il figlio il 10 ottobre, con quelli di S. Giovanni. Particolari della strage e cosa facevano i nazisti, non sono in
grado di dire, se con loro c'erano anche quelli della Repubblica Sociale, non lo so: so soltanto che quando mi accorsi che
ammazzavano tutti, mi buttai in fondo a un fosso e riuscii a tirarmi dietro anche mia moglie. Nascosti dentro all'acqua, li
vedemmo passare vicino a noi, quasi ci toccavano Non ci videro, per fortuna nostra. Fosse stato cosi anche per mio padre e
mio figlio. Dopo la liberazione tornai a Caprara per lavorare la mia vigna. Capitai sopra una mina, ce n'erano tante. Cosi adesso
mi tiro dietro la gamba di legno".
Ancora sui delitti di Caprara, depone Roberto Carboni. Egli, fatto raro per un abitatore dell'acrocoro, non lamenta alcun
famigliare caduto. "Verso le 10 del mattino si cominciarono a sentire gli spari in molte direzioni e per i monti si vedevano case in
6amme e grandi fumate nere. Nei precedenti rastrellamenti, i nazifascisti avevano sempre catturato solo gli uomini per deportarli
o fucilarli, avevano anche bruciato case, ma rispettato le donne e i bambini. Perciò quella mattina, quando ci rendemmo conto
della presenza dei nazifascisti, noi uomini validi decidemmo di nasconderci, ma per la sorte delle donne e dei bambini,
pensammo di non doverci preoccupare. Quindi noi uomini corremmo nella macchia, perché tutti si sapeva che là i nazifascisti
non sarebbero venuti, avevano una gran paura ad inoltrarsi tra le piante. Fin che ci furono nazifascisti nelle vicinanze, cioè per
ben 5 giorni, rimasi nascosto. Quando finalmente tornai, mi si presentò la casa bruciata ed in parte crollata. Davanti a casa non
c'era nessuno, ma come entrai in cucina, dopo essermi fatto strada tra le macerie, la trovai piena di cadaveri accatastati, erano
44, tutte donne e bambini, parte li conoscevo perché erano miei vicini, altri erano gente di Villa Ignano, Sperticano ed altri
luoghi. Li avevano tutti ammucchiati in cucina, poi dalla porta che dava sulla strada, li avevano massacrati con la mitraglia e le
bombe a mano. Impossibile scappare, perché di fuori stavano in agguato e chi provò fu ributtato dentro a colpi di fucile, come
si capiva da alcuni cadaveri che facevano mucchio proprio sotto la finestra. A vedere quella quantità di morti, si capiva che
doveva essere stata una cosa tremenda, per lo più erano uno sopra all'altro contro la parete di fronte all'uscita, segno che
spingevano da quel lato nell'ultima disperata illusione di trovare scampo, di fuggire davanti alla canna della mitraglia che sparava
dal vano della porta. Poi i nazifascisti avevano minato la casa che in parte era crollata sui cadaveri. C'erano bimbi e donne
consumati dal fuoco, quando li raccogliemmo per seppellirli, le carni bruciate si sfacevano. Riuscimmo a seppellirli tutti in una
grande buca". Sempre in quel giorno, Maria Collina perdette 4 figli, di cui il minore una bimba di soli 4 mesi.
"Io- ricorda piangendo la donna- cercai di far capire ad un nazista, che lì c'erano solo vecchi donne e bambini, ma lui mi cacciò
indietro dicendo: 'non importa niente!'".
Fabbri Medardo fu rastrellato e rinchiuso in una casa di Rovecchia. Dalla finestra assistette ad uno spettacolo agghiacciante. Tutti i componenti della famiglia che abitava nella casa, vennero messi in riga contro il muro della stalla. Un nazista, con una grossa pistola, li uccise
uno per uno, bimbi compresi. A pochi metri, una cinquantina di commilitoni assistevano impassibili. Piangendo un bimbo si attacco alle gambe dei boia, questi se lo scrollo con un calcio e lo fini con un colpo al cranio.
A Casone di S. Martino in 18 perdono la vita: Mirka Parisini, incinta di 6 mesi, viene denudata e pugnalata nel ventre; poi le sparano due fucilate al petto; in un rifugio di S. Giovanni, 47 persone tra cui 12 bimbi e 2 suore cercano scampo. Trovarono tutti la morte
più orrenda. Cadono la moglie e i 5 figli di Gherardo Fiori, i familiari di Mario Fiori, di Edoardo Castagnari, di Giuseppe Massa, di Pietro Paselli ed altri ancora Al bivio tra la chiesa e il cimitero di S Martino, i nazifascisti adoperano la benzina per distruggere i corpi di
52 persone massacrate dalla mitraglia.
Luccarini Gaetano è abbattuto e bruciato con la moglie e 6 figli, Angelo Lorenzini ha 13 morti, Augusto Casagrande 6; cadde anche la famiglia del Parroco Don Ubaldo Marchioni, tutti meno il vecchio padre.
"A me hanno massacrato 14 familiari", racconta Giuseppe Lorenzini. "La moglie e 2 figli, uno di 5 l'altro di 4 anni, li fucilarono il giorno 29 settembre a S. Giovanni, il giorno dopo a S. Martino furono assassinati dai nazifascisti mia madre, 3 sorelle, 3 cognate e 4 nipoti. Io, buttandomi dalla finestra, ero riuscito a rifugiarmi nel bosco. Dal bosco sentivo le grida della
gente di S. Giovanni. Sentivo anche le grida degli assassini, e ce n'erano che parlavano in dialetto emiliano, ma tutti avevano i
vestiti delle SS. Il giorno dopo a S. Martino vidi di lontano un gruppo di gente, tutte donne e bambini, con un solo uomo in
mezzo che girava con una gamba offesa, sparpagliarsi di corsa per i campi a branco, ma senza direzione precisa. Sentii dei
colpi, poi i nazisti li circondarono e li riunirono. Fecero presto, ve lo dico io: picchiavano sulle dita e le unghie delle mani e dei
piedi con i calci dei fucili. Li portarono proprio davanti alla porta della nostra casa, dove li fecero ammucchiare e li
massacrarono tutti a raffiche di mitraglia. Poi, uno per uno, gli diedero un colpo di fucile alla nuca per sicurezza. Tornarono ad
ammucchiarli perché nel morire s'erano un poco dispersi, spinsero sul posto un carro di fascine che rovesciarono sopra i morti,
aggiustarono per bene le fascine, in modo da coprire tutti i cadaveri, fuori non spuntava neppure un piede, poi diedero fuoco.
Inutile dire che anche le case furono tutte bruciate. Della figlia di mio fratello, di 4 anni, non siamo mai più riusciti a ritrovare la
testa. Non mi volli allontanare dalla zona senza prima aver dato sepoltura ai miei morti; sepoltura provvisoria, s'intende, così
come si poteva. Mi unii con altri scampati, alcuni facevano la guardia nei punti più opportuni, perché i nazifascisti passavano e
ripassavano sempre. Gli altri provvedevano alla sepoltura. Impiegammo 2 giorni a seppellirli tutti, e non dico quante volte anche
noi corremmo il rischio di essere presi e massacrati. Spari e raffiche se ne sentivano ogni momento e il fumo degli incendi c'era
sempre, vicino e lontano".
Paselli Duilio vive ora in una casa bianca, sopra un colle a fianco del ponte della ferrovia, nascosta da una macchia di grandi
piante. E' la casa di un tempo, ricostruita nei muri, non ancora ammobiliata, salvo qualche tavolo e poche seggiole. Nelle stanze
vuote, un po' buie per l'ombra delle piante, egli vaga solo, ricordando i suoi 10 familiari. "Il 25 settembre sfollammo da casa
Beguzzi, troppo bassa e vicina al fiume e alla ferrovia, e riparammo a S. Martino, che pareva più sicuro. Il 29 mattino gli uomini
scapparono tutti per timore di essere deportati. Infatti tutte le altre volte che i nazifascisti erano venuti in rastrellamento, sempre
se l'erano presa con gli uomini giovani e validi e li avevano catturati e anche fucilati; mai avevano toccato le donne e i bambini.
Passò una prima squadra di nazisti, il giorno 29, e non fecero nulla; pensammo che anche questa volta ce la saremmo cavata
solo con la paura. Invece il 30 arrivò una seconda squadra: presero tutti quelli che poterono, li misero contro la casa dei
contadini del Parroco e li falciarono con le mitraglie. Poi li bruciarono con le fascine e con l'altra roba che avevano loro. Uno
della famiglia Lorenzini di S.Martino, che aveva assistito al massacro, mi raccontò in seguito che, mentre erano chiusi nella
Parrocchia, prima di essere massacrati, una mia figlia sposata, col suo bimbo al collo, nel vedere uccidere il marito sotto i suoi
occhi, si scaglio contro i nazifascisti chiamandoli vigliacchi e assassini. Uno delle SS le rispose nel nostro dialetto; essendosi
subito accorto che così si era tradito, fece segno agli altri e portarono tutti fuori al massacro, anche mia figlia col bambino in collo".
Aldo Gamberini racconta: "Noi venivamo dalla Cerreta di Montorio del Comune di Monzuno, sfollati a Cadotto. Il 29
Settembre mi alzai che ancora era buio e pioveva; mi allacciavo una scarpa nei pressi della stalla conversando con tre partigiani.
Improvvisamente sentimmo delle urla dalla parte opposto della casa. I tre partigiani corsero ma si trovarono di fronte a una
grande ondata di SS, li comandava uno basso e grosso che mi parve un capitano. Immediatamente i tre partigiani cominciarono
a sparate, ma c'era troppa differenza di numero e dovettero retrocedere: sempre difendendosi presero la strada per il loro
comando, io corsi a nascondermi in località Cà di Dorino, circa un km da Cadotto. Correndo per il campo mi spararono molte
raffiche e colpi. Mentre fuggivo, a Cadotto cominciò un forte combattimento. Dalla posizione dove mi trovavo, non udivo nulla
neppure gli spari della battaglia tra partigiani e SS, solo vedevo il fumo e il fuoco degli incendi. Dopo circa un'ora e mezza che
ero nel fosso, sul sentiero per Cadotto, più in alto di fianco, vidi passare una colonna di civili, quasi tutti donne e bambini,
andavano in fila, avevano con sé fagotti e valigie; sei SS, a mitra puntati incalzavano la fila e la tenevano unita. Guardai bene se
c'erano i miei, ma non li vidi e mi sentii con più speranza. Pensai che li portavano in campo di concentramento. Dopo un'ora
invece, tutto d'un colpo, mi arrivò un grande urlo, sembrava una voce sola, ma non sentii spari. Li avevano massacrati tutti sotto
Pornarino. Proprio mentre passava la fila dei civili e delle SS mi sentii toccare ad una gamba: era Mascherino, il mio cane. Presi
paura che abbaiando mi facesse scoprire e cercai in tasca il coltello che sempre avevo con me, per ucciderlo, ma non lo trovai.
Del resto non ce n'era bisogno perché Mascherino si accucciò ai miei piedi e più non si mosse. In seguito compresi che era
corso a cercarmi dopo che avevano massacrato i miei.
Pioveva sempre, del combattimento verso Cadotto non si sentiva nulla, solo vedevo intorno per i monti e le valli bruciare le
case le stalle e i fienili, sentivo anche i crolli delle case tra le fiamme, e le urla delle bestie legate alle mangiatoie. Ero combattuto
tra il desiderio di correre dai miei e la paura di trovare una disgrazia. Passai cosi tutta la giornata. Verso le 10 di sera, con un
buio che dovevo camminare a tasto coi piedi, arrivai a Rivabella di Cadotto dove trovai una donna che tirava acqua dal pozzo
e che mi diede un pezzo di pane. A Cadotto non tornai più, in principio perché temevo la sorte dei miei, poi perché rimase tra
le due linee, quella nazista e quella degli anglo-americani. Ci tornai solo dopo la Liberazione. Tornai a Cadotto nel maggio del
1945 a cercare i resti dei miei che ritrovai nel posto stesso dov'erano caduti, ricoperti da un po' di terra. Riconobbi mia moglie
dalle scarpe e da una rebecca di lana che non s'era bruciata non so per quale caso; mia figlia maggiore la riconobbi per i denti
d'oro, mio fratello per la pipa vicina alle ossa, i figli, perché di bambini c'erano solo i miei".  Tra Cadotto, Prunaro e Steccola, 145 sono gli assassinati e nel conto 40 bambini.
E il 29-30 settembre e 1 ottobre la serie di massacri non ha fine. Alla Canovetta di Villa Ignano cadono in 20. All'oratorio di
Cerpiano ammucchiano 49 persone, di cui 19 bimbi e 25 donne. I bimbi son messi in fila contro il muro esterno e con
promesse di cibo e danaro a lungo invitati e poi minacciati a dire quanto sapevano dei partigiani. I bimbi non parlano e vengono
di nuovo scaraventati nell'interno dell'oratorio. Segue subito un primo lancio di bombe a mano che assassina 30 persone. Poi le
SS decidono di riposare e a lungo gozzovigliano attorno all'oratorio. I lamenti di una ferita agonizzante li disturba: è la signora
Nina Frabboni Fabbris di Bologna che un nazista s'affretta a finire. Emilia Tossani e il vecchio Pietro Orlandi con la nipote tentano la fuga; vanno poco oltre la soglia. I nazisti possono gozzovigliare tranquilli.

(tratto da "Marzabotto parla", Ed. Avanti!, 1955)


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