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Saggi sul fascismo

La fotografia strumento dell’imperialismo fascista

di Stefano Mannucci

La guerra d’Etiopia rappresentò per l’Istituto Luce un momento senz’altro cruciale nel suo rapporto con il regime fascista, raggiungendo il coronamento ufficiale della sua posizione all’interno della macchina della propaganda. Nonostante la presenza di diverse altre agenzie fotografiche, l’Istituto Luce, infatti, detenne il monopolio della diffusione delle immagini coloniali che furono portate a conoscenza degli italiani. La famosa fotografia di Alfred Eisenstaedt, che ritraeva i piedi scalzi di un soldato abissino morto, fece il giro del mondo, ma non fu mai fatta circolare in Italia. Se all’esercito ed all’aviazione furono accordati armamenti ed uomini di quantità imponenti, all’Istituto Luce, sicuramente, furono concessi altrettanti mezzi ed agevolazioni.

Ad un mese dall’inizio delle operazioni belliche, precisamente il 7 settembre[1], era stato lo stesso Mussolini a comunicare ai ministeri della Guerra[2], della Marina, dell’Aeronautica ed al Capo dello Stato maggiore della milizia, di aver disposto, da parte del Luce, la costituzione di un reparto foto-cinematografico per l’Africa Orientale. Egli chiedeva, pertanto, a tali ministeri la massima collaborazione con il reparto del Luce, al fine di poter effettuare una propaganda coordinata ai massimi livelli. Il Museo Coloniale di Roma mise a disposizione del nuovo Reparto tutto il suo materiale di pellicole e foto, il Ministero della Guerra e quello della Marina[3] elargirono, a titolo di contributo, anche quattrocentomila lire ciascuno.

Mussolini nominò De Feo[4] come direttore, e decise che la sede fosse adibita ad Asmara, dove sarebbe stato situato anche il Quartiere generale delle forze militari italiane. A Roma, invece, fu creato un comitato interministeriale, composto dai tre ministeri militari, da quelli degli Interni, delle Colonie, della Stampa e Propaganda.

Il 12 settembre, il consiglio d’amministrazione del Luce diede vita formalmente al Reparto AO, iniziando a mettere in piedi un’organizzazione di grandi proporzioni, destinandovi uomini e mezzi. Ad Adigrat era sistemata la sezione avanzata del Reparto, alla quale affluiva tutto il negativo impressionato, per poi essere inviato, tramite motociclette od autocarri postali o autocolonne, alla Direzione Generale di De Feo all’Asmara. Una volta diviso per argomenti, elencato in appositi moduli esplicativi, esso veniva spedito in Italia, per via aerea o marittima a seconda del suo carattere di attualità, in modo tale che gli avvenimenti riportativi non arrivassero in ritardo.

Le diverse unità fotografiche erano dislocate sui vari punti del fronte, dotate ciascuna di carri-laboratorio che consentivano di sviluppare e stampare le foto sul posto, e quindi di distribuirle agli inviati della stampa circa tre ore dopo la conclusione d’ogni evento. Per le azioni sul fronte eritreo, ogni operatore era a capo di un nucleo someggiato, e disponeva di un assistente, di cinque ascari e un muntaz, di cinque muletti per il trasporto del materiale fotocinematografico e logistico[5]. I fotografi erano Chiari, Giovinazzi, Miniati, Ottolenghi, Bovini, Moccia, cui si aggiungeva Craveri, che si destreggiava con abilità fra la fotografia e le riprese cinematografiche.[6]

Paulucci di Calboli, a guerra finita, scrisse una lettera[7] di relazione a Mussolini, per tracciare un primo bilancio consuntivo dell’operazione, dichiarando di aver realizzato circa 70.000 metri di negativo cinematografico ed oltre 7.000 negativi fotografici, da cui, una volta sviluppati, vennero distribuite circa 350.000 immagini del conflitto, sia in Italia sia all’estero. Una copia delle fotografie era anche inviata ad enti come la Società africana d’Italia di Napoli, l’Istituto coloniale italiano ed il Museo Coloniale di Roma.

Il Luce effettuava la propaganda anche nei confronti delle truppe, attraverso la produzione di un considerevole numero di serie fotografiche, stampate in piccolo formato (di solito il 60x90 o il 65x93) e destinate appunto ai soldati, in un ampio disegno di pedagogia imperiale, volto a celebrare la superiorità militare, razziale, materiale dell’Italia. Inoltre, una coppia di unità mobili, dotate di autocarri cinesonoro, si spostava continuamente per proiettare cinegiornali e documentari ai soldati ed alle popolazioni locali, con lo scopo di tener alto l’animo dei soldati, e contemporaneamente impressionare gli indigeni, mostrando loro appunto la potente attrezzatura civile e militare italiana, nonché l’adesione del popolo al duce[8].

         Il 3 ottobre 1935, L’Italia iniziò ad invadere l’Etiopia, per poi conquistarla appena dopo sette mesi. Il Reparto Luce AO testimoniò la guerra seguendo l’ottica del regime. Le sue fotografie dovevano dipingere la terra etiopica, agli occhi dei proletari disoccupati o dei contadini affamati, come un immenso e ricco paradiso da colonizzare. Agli occhi dei borghesi bisognava illustrare la prospettiva di redditizie carriere e prosperosi affari nello sfruttamento della colonia. Ai giovani, infine, la fotografia doveva alimentare l’immaginario della guerra come viaggio avventuroso, come un’evasione dalla noia della vita normale, che avrebbe condotto alla gloria ed al successo.

Il Reparto Luce AO non riprese mai scene che potessero danneggiare l’immagine di potenza dell’esercito italiano, riprendendo le varie postazioni d’artiglieria incolumi da ogni pericolo. Gli operatori del reparto seguirono le truppe, mentre avanzavano tranquille verso le prime linee non incontrando ostacoli, o si apprestavano a posizionare il filo spinato nelle postazioni difensive lungo l’Uebi Scebeli, od ancora si prodigavano a liberare gli schiavi ed a gettare le basi per la modernizzazione del paese. Le difficoltà territoriali erano utilizzate, semmai, per esaltare la figura di un soldato che, scalando le ambe etiopiche, domava la natura ribelle, spinto dalla forza della propria volontà e dell’ideologia fascista che lo guidava.

Le fotografie propagandavano con insistenza un’immagine alquanto umanitaria della guerra e dell’occupazione italiana. Esse amplificavano il messaggio politico del soldato buono, stando attenti alle direttive, che però imponevano di evitare di dimostrare intimità fra i soldati italiani e gli abissini.

Le fotografie dovevano dare l’impressione di benevolenza da parte dei soldati verso gli indigeni, ma non di cordialità, di protezione ma non di affetto.

Per costruire tale immaginario, il Luce AO non documentò nessuna delle atrocità italiane, né durante il conflitto, né durante gli anni successivi alla proclamazione dell’impero. Non fu fotografato l’utilizzo e gli effetti delle armi chimiche, tuttavia, ampiamente usate in Etiopia, fino a circa il 1939. Il Luce ha lasciato soltanto indizi di tale utilizzo, come le fotografie dell’ottobre 1935, riguardanti la preparazione dell’autotreno chimico nei pressi del Colosseo, od ancor prima, le fotografie scattate nel maggio dello stesso anno, che riprendevano la dimostrazione bellica, da parte dell’esercito, degli aggressivi chimici e delle cortine di nebbia artificiali, alla presenza del duce.

Furono altri fotografi a riprendere l’allucinante sequenza delle fotografie che ritrassero la testa mozzata del dejach Hailù Chebbedé[9], esposta al ludibrio sulle piazze dei mercati di Socotà e Quoram, o le stragi di migliaia di etiopici compiute ad Addis Abeba dopo l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il viceré Graziani, durante la distribuzione dei talleri d’argento ai poveri della città, al Piccolo Ghebì, in occasione della nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia.

Fu proprio un operatore dell’Istituto Luce, il viareggino Danilo Birindelli, incaricato di seguire la cerimonia, a caricare Graziani, svenuto e sanguinante, sopra di un automobile per trasportarlo all’ospedale della Consolata. Birindelli raccontò successivamente in un’intervista[10], che aveva con sé tre fotografie, scattate da un suo collega, che riprendevano i momenti dell’esplosione delle bombe. La censura ne aveva però vietato sia la pubblicazione sia la distribuzione alla stampa.

Il controllo e la censura sulla fotografia coloniale, da parte del regime fascista, erano d’altronde precedenti al conflitto etiopico. Nel giugno del 1930, lo stesso Graziani, l’allora vice-governatore della Cirenaica, aveva diramato una circolare[11], in cui s’affermava che era assolutamente proibito prendere fotografie di esecuzioni capitali, ed esigeva da tutte le autorità preposte il massimo rispetto di tale ordine. Graziani era stato indotto a tale circolare, dalla pubblicazione su “Afrique Française” di una fotografia di impiccagioni di residenti libici, eseguite a Barce il 21 giugno 1930.

L’intenzionalità politica, soggiacente a tale censura, era di impedire che eventuali notizie, ed ancor di più fotografie, potessero minare l’immagine della “pacificazione” delle colonie, che il regime fascista propagandava all’interno della società italiana. I giornali non dovevano ammettere l’esistenza di una resistenza etiopica contro l’impero, ma descriverli come sporadici episodi di brigantaggio. Alcuni fotografi, tuttavia, ripresero non soltanto il momento dell’attentato e del trasporto di Graziani ferito, ma anche la violenta repressione e le innumerevoli rappresaglie dell’esercito italiano, comprese le drammatiche immagini di centinaia di tuculs divampanti in roghi, sotto l’azione dei lanciafiamme italiani, o dell’incendio del quartiere indigeno di Addis Abeba nella notte del 19 febbraio[12]. Molte di queste immagini erano state effettuate dai soldati che parteciparono agli stessi massacri.

Oltre alle squadre ufficiali dell’esercito, infatti, lo sviluppo delle macchine fotografiche portatili, semplici ed a basso costo, aveva spinto molti soldati a munirsene per fotografare i propri ricordi di guerra, riprendendo anche un’innumerevole quantità di scene crude e cruenti, che iniziarono a circolare fra le varie truppe. “La Domenica del Corriere” aveva destinato, fin dai primi mesi del 1935, le sue due pagine di fotografie del pubblico alle immagini inviate dai soldati in A.O.

La rubrica, intitolata per l’occasione “Africa Orientale Italiana”, proponeva molto spesso un’immagine najona e rassicurante della guerra, attraverso fotografie che ritraevano i divertimenti caserecci delle truppe, o raffiguranti le donne indigene nude, seguendo così il filone esotico e lo stereotipo iconografico della “Venere Nera[13], un mito, o meglio un luogo comune, largamente diffuso non soltanto fra i soldati che parteciparono alla campagna etiopica, ma anche nel resto della popolazione italiana. Soltanto con l’approssimarsi della fine del conflitto, iniziarono ad essere pubblicate, su tali pagine, fotografie di feriti italiani o di cadaveri di ascari.

Se le atrocità commesse nei confronti degli italiani o della popolazione etiopica non vennero dunque sempre mostrate in Italia, per non turbare l’opinione pubblica, il regime, però, si appropriò ben presto di queste immagini clandestine. Tale produzione amatoriale, infatti, fu utilizzata dal regime per dar forza e credito alla facciata dell’intervento umanitario, ed entrò a far parte di una serie fotografica che fu ufficialmente utilizzata per documentare le crudeltà e le barbarie etiopiche davanti alla Società delle Nazioni, a giustificazione dell’intervento italiano in nome della civiltà e del progresso.

Le fotografie riprendevano gli effetti delle pallottole dum dum,  alcuni etiopici vittime della “maschera di fuoco”, nonché le immagini del massacro del cantiere n.1 della Gondrand, avvenuto ad opera di guerriglieri etiopici all’alba del 13 febbraio 1936, durante il quale vennero uccisi e mutilati tutti gli operai. Ma i soldati avevano documentato anche le atrocità degli italiani sulla popolazione civile, dalle innumerevoli rappresaglie agli effetti devastanti dell’uso dei gas chimici[14].

La circolazione in Italia di queste immagini iniziò nel luglio del 1936, con il rientro dei primi soldati dell’AOI, mettendo a scompiglio, e di conseguenza mobilitando, l’intero apparato poliziesco del regime. Un rapporto riservato di polizia[15] rivelava, inoltre, come molti reduci dell’AO avessero con se delle fotografie, che ritraevano orribili scene di italiani torturati e barbaramente mutilati, di immensi cumuli di soldati italiani morti gettati alla rinfusa sopra autocarri, ed altre immagini ancora inadatte e dannose per il pubblico. Tali fotografie andavano ad avvalorare il malcontento ed i racconti di molti volontari reduci dall’AO, che in gran parte ancora disoccupati, smontavano lentamente il quadro roseo della gloriosa e vittoriosa guerra fascista, descrivendo la dura realtà etiopica, caratterizzata dal caldo, dalla dissenteria, da una pacificazione ancora lontana ad avvenire, con le continue voci sulla ribellione perdurante nei territori occupati.

I problemi riguardanti tali immagini vennero, tuttavia, ben presto risolti, mettendo tutto a tacere, sotto l’incombenza della guerra di Spagna, ove, fra l’altro, furono inviate alcune truppe dell’AO.

Ritornando alla produzione del Luce AO, esso iniziò a documentare il più possibile la ricchezza della colonia. Il Luce AO effettuò molte riprese aeree[16], che oltre a seguire i movimenti delle truppe, potevano essere utilizzate per mostrare la terra a disposizione dei coloni.

Se agli inizi del secolo, si erano fotografati le barbabietole ed i cavolfiori giganti[17], per sottolineare le potenzialità commerciali e le generosità delle colonie, il Luce AO indirizzò costantemente i propri obiettivi sulle immense piantagioni di caffè, intervallati da qualche immagine di raccolta o coltivazione delle banane o da qualche scorcio di miniere platinifere.

Un altro aspetto saliente della produzione del Luce AO era la continua esposizione delle attività delle massime autorità del regime, seguendole in tutte quelle manifestazioni che il regime voleva fossero enfatizzate. Il quadrumviro De Bono, il maresciallo Badoglio, il generale Graziani, Vittorio e Bruno Mussolini[18] mentre pilotavano, Ciano in visita o Starace sul lago Tana, erano continuamente ripresi. Innumerevoli fotografie ritraevano Graziani mentre passava in rassegna i soldati, premiava i valorosi decorandoli al merito, parlava ai notabili etiopici, o riceveva gli omaggi della popolazione.

Attraverso le fotografie dei gerarchi, il regime intendeva così mettere in risalto come la guerra d’Etiopia fosse una guerra combattuta in prima persona dal fascismo e dai suoi uomini scelti. La presenza di Mussolini, a fianco dei soldati, era fatta avvertire dalle fotografie del Luce, che immortalavano i suoi ritratti, innalzati all’interno delle trincee delle legioni delle camicie nere.

Intanto, il 2 maggio 1936, il negus Hailé Selassié abbandonò il suo impero, per rifugiarsi all’estero. Alla notizia della partenza del negus per l’esilio, Addis Abeba precipitò nel caos, divenendo teatro di disordini, saccheggi e violenze. Le truppe italiane aspettarono tre giorni per occupare  la città. La decisione era stata di Mussolini, che intendeva così sfruttare la tragedia etiopica, affinché l’Italia potesse atteggiarsi a salvatrice di un popolo semibarbaro, ancora incapace di gestirsi da solo. Il 5 maggio, il Luce, durante l’entrata delle truppe nella città, fotografò i corpi senza vita degli etiopici, abbandonati per terra.

Per suggellare in maniera epica la vittoria, i fotografi ritrassero una camicia nera che, salita sopra di una scala, demoliva il leone imperiale scolpito sul muro di un edificio, ed anche la statua di Menelik, nel momento stesso in cui veniva tolta dal piedistallo.

Il consenso della popolazione etiopica nei riguardi dei gerarchi fascisti, inoltre, veniva costruito fotografando le cerimonie di sottomissione dei capi etiopici arresisi, nell’atto d’inchinarsi e baciare la bandiera italiana, o le folle di ascari inneggianti che alzavano striscioni pro duce, o le accoglienze della popolazione che mostrava la propria gratitudine alle truppe italiane. Ricorrenti erano anche le immagini di bambini od uomini che, liberate le braccia dalle catene della schiavitù, ora potevano ergersi, a volte goffamente, nel saluto romano a ringraziare i propri salvatori.

La  pacificazione ed il conseguente sviluppo dell’Etiopia, invece, erano rappresentati attraverso le fotografie delle rapide costruzioni di strade, di  ferrovie e ponti, di villaggi per gli etiopici, di panifici, mulini, pastifici. Furono fotografate, in primo piano, l’installazione dei pali della luce o delle antenne della radio, od i missionari che, in una scuola all’aperto, insegnavano ai bambini a scrivere sulla lavagna, frasi come “io amo la mamma, tu ami il papà, egli ama l’Itaglia”. Ancora più interessanti, erano le fotografie che attestavano la distribuzione, alla popolazione etiopica, di aratri dai nomi altisonanti quali “Adua” od “Axum”, ma dalla scarsa capacità nel dissodamento del terreno, testimoniando, ancora una volta, la priorità dell’immagine sulla sostanza.

La “colonizzazione civilizzazione” era testimoniata dalle ambigue fotografie, che testimoniavano cosa s’intendesse, per il regime, con il termine di civilizzazione. Esse, infatti, riprendevano l’inquadramento sistematico della gioventù locale nelle organizzazioni pedagogiche, che subito vennero espatriate. Iniziarono, così, i saggi ginnici della Gioventù Etiopica del Littorio. Altre fotografie, invece, riprendevano gli ascari e gli indigeni durante gli addestramenti, o mentre, ordinati in riga, facevano il saluto fascista.

Le fotografie degli ascari e delle truppe indigene, erano, senz’altro, le immagini prevalenti e preferite per rappresentare e celebrare l’opera civilizzatrice dell’Italia.

La fotografia dell’ascaro, durante il periodo fascista, consacrava l’elevazione in soldato di un guerriero precedentemente seminudo, primitivamente armato, fondamentalmente crudele.

L’ascaro, una volta indossata l’uniforme e soggetto alla disciplina,  combatteva valorosamente al servizio dell’autorità italiana, portatrice di civiltà, rappresentando così l’emblema attraverso cui enfatizzare i meriti del regime fascista in suddetta trasformazione.

Innumerevoli fotografie del Luce testimoniavano anche l’insediamento ad Addis Abeba della casa Littoria, della sede del Banco di Roma, o di negozi italiani, le cui insegne erano denominate “Azienda Alimentari”, “Prezzo Unico”, “Farmacia Littoria”, “ Libreria dell’Impero”, “Ala Littoria S.A.”, “Premiata Pasticceria Lasagna”, il “Cinema Impero”, che trasmetteva un film intitolato “Il ladro delle Casbah”, ed un cinema per etiopici, che invece trasmetteva “Il poliziotto Schwenke”. Il Luce, infine, fotografò anche la filiale della Fiat, i padiglioni della Lancia, la sede dell’Olivetti, il fabbricato della ditta del legno Hendel.

Dopo la vittoria[19], il reparto Luce continuò ad operare a ranghi ridotti, e fu trasferito da Asmara ad Addis Abeba, dove c’era soltanto il laboratorio per sviluppare e stampare le fotografie; mentre i film dovevano essere spediti a Roma per i successivi processi di sviluppo e stampa. In seguito, finito l’impegno continuo e residenziale, i fotografi del Luce tornarono in Africa soprattutto per accompagnare le visite dei vari gerarchi del regime, o per immortalare inaugurazioni o cerimonie pubbliche, o per documentare i successi della colonizzazione demografica italiana. 

A tal fine, i fotografi del Luce s’imbarcarono con i ventimila coloni diretti in Libia nell’ottobre del 1938. Essi fotografarono le varie fasi dell’intero viaggio, riprendendo sia le solenni manifestazioni, pervase da un clima di festa, per la partenza dai porti di Genova e Napoli, sia Mussolini che passava in rivista le quindici navi del convoglio, all’altezza di Gaeta, sia ancora l’arrivo dei coloni a Tripoli, nell’alba del 2 novembre, accolti dal governatore Balbo, che li aveva preceduti in volo. I fotografi ripresero Balbo inginocchiarsi a terra per recitare il Pater Noster, nel tripudio della folla, pronta a sistemarsi nei villaggi che le erano stati promessi ed assegnati.

Conclusa pertanto l’esperienza del conflitto etiopico, il Luce fu oggetto non soltanto di lodi e medaglie al valore, ma anche di innumerevoli critiche da parte di molti esponenti del regime. Essi si lamentavano della lentezza o della cattiva qualità di molte fotografie, o dell’assenza di una visione eroica e fascista della guerra nei cinegiornali e nei documentari, cercando così di danneggiare l’immagine del Luce agli occhi di Mussolini. Il duce, che considerava il Luce come un organo tecnico cinematografico dello stato alle sue dirette dipendenze, per manifestare pubblicamente la sua stima alla dirigenza del Luce, aveva ricevuto a Palazzo Venezia Paulucci di Calboli con l’intero consiglio d’amministrazione dell’Istituto.

Sicuramente, soggiacente a tali critiche, vi era l’intenzionalità, da parte di molti gerarchi, di minare il monopolio ufficiale di ripresa degli avvenimenti detenuto dal Luce. Già il 28 maggio 1936 il Capo di Stato Maggiore del Comando delle Forze Armate d’Etiopia gen. Melchiade Gabba[20] diramò un foglio d’ordine, concernente lo scioglimento del Reparto Luce per il servizio fotocinematografico in AO, innestando le proteste di Paulucci di Calboli, che reagì scrivendo direttamente a Mussolini. Il duce, nell’occasione, non sopportando che qualcuno facesse da padrone in Etiopia al suo posto, scavalcando i suoi voleri, fece telegrafare a Graziani, al gen. Gabba, al gen. Guzzoni, ed a Casertano, ordinando che il Reparto del Luce non si toccava. Successivamente, il dirigente dell’Ufficio Stampa e Propaganda in AOI, in una lettera datata 4 febbraio 1937, proponeva anch’egli lo scioglimento del Reparto.

Non era certo un caso che Casertano[21], dopo tante critiche all’operato del Luce, proponesse di costituire un proprio gabinetto fotografico, in cui sarebbero stati incorporati gli operatori del Luce, privati di ogni autonomia operativa per essere sottoposti alle dipendenze dell’Ufficio. Il gabinetto sarebbe stato infine dotato di un laboratorio di sviluppo e stampa, da adibire negli scantinati della sede dell’Ufficio Stampa e Propaganda AOI in via Mussolini ad Asmara. Anche le relazioni di Luigi Freddi, Direttore Generale per la Cinematografia, furono portatrici di aspre critiche nei confronti del Luce, bollato come un ente che non sapeva o non voleva fare propaganda.

A mio avviso, anch’esse appartenevano alla tattica di una campagna politica denigratoria, che mostrò i veri intenti soltanto nel 1938, allorquando Freddi si rivelò il padrino della costituzione dell’INCOM (Industria Cortometraggi Milano). Non potendo minare l’azione del Luce nel campo dei cinegiornali, l’Incom si specializzò essenzialmente nella propaganda. Tali critiche ed azioni rappresentarono l’ambizione di un alto dirigente dello stato che metteva in opera un’azione per minare alle basi il prestigio e l’efficacia di un organismo dello stato stesso, ed ancor di più l’esistenza di travaglianti lotte di potere interne al regime fascista.

Un ultimo aspetto da studiare, riguardo alla fotografia coloniale, è il rapporto fra essa e lo sviluppo delle concezioni razziali. Il Luce non documentò l’applicazione della legislazione segregazionista razziale varata nel 1937. Tale legislazione doveva rimodellare i rapporti fra gli italiani e gli etiopici, che avrebbe condotto ad una piena supremazia dei primi sugli ultimi. I piani urbanistici furono ridisegnati, per separare definitivamente i quartieri e le aree di abitazione per i bianchi da quelli della popolazione locale suddita. Successivamente, anche il madamato[22] fu proibito, pena la reclusione da uno a cinque anni, essendo considerato una minaccia per la purezza della razza italiana.

Il Luce, tuttavia, ha lasciato molti indizi di tale segregazione. Basti vedere le fotografie delle manifestazioni di massa nelle colonie, dove i bianchi ed i neri erano ormai separati, e non più mescolati; o le fotografie che testimoniavano l’esistenza di diversi cinema, quelli solo per la popolazione italiana, e quelli riservati agli indigeni. Od ancora la stessa Gioventù Etiopica del Littorio, che dopo la legislazione razziale divenne la Gioventù Indigena del Littorio, ma non fu mai incorporata nella GIL,  rimanendone sempre un’appendice separata, rappresentando ancora una volta la distinzione fra la popolazione bianca e quell’autoctona.

Il Luce riprese il lavoro degli indigeni nelle colonie italiane, cercando più di costruirvi l’ottica del consenso, che di documentare la realtà di subordinazione e sfruttamento alla quale essi erano sottoposti. Raramente gli indigeni furono fotografati nei loro antichi lavori tradizionali ed artigianali, se non nel contesto di mercati o feste, come quella di Mescal. Il più delle volte marciavano come ascari, o ammiravano estasiati le costruzioni innalzate da ingegneri od architetti italiani.

Se il Luce ha lasciato, dunque, solo indizi della segregazione razziale, la fotografia per Lidio Cipriani[23] ha senz’altro rappresentato un ottimo strumento per documentare la superiorità razziale italiana, cercando di giustificare, e trasmettere visivamente, le proprie considerazioni antropologiche, intrise di razzista nazionalismo.

Le fotografie ritraevano i tratti somatici degli indigeni, i loro profili o le circonferenze dei crani. I soggetti erano ripresi sul modello delle fotografie segnaletiche della polizia, di prospetto e di profilo, cercando di documentare così le caratteristiche tipiche della fisionomia del soggetto ripreso. I sudditi coloniali furono così catalogati scientificamente in un repertorio di immagini, classificati e misurati come singoli o come appartenenti e rappresentanti di determinati gruppi etnici. La fotografia divenne il principale strumento per testimoniare l’inferiorità genetica africana, oltre che per costruire delle solide basi “scientifiche”, da cui  divulgare la dottrina di un’antropologia razzista, a giustificare così il dominio imperialista del fascismo.

 

Breve bibliografia

Argentieri Mino, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo Firenze, Vallecchi, 1979.

 Laura Ernesto G., Le stagioni dell’Aquila. Storia dell’Istituto Luce, Roma, Ente dello spettacolo, 2000.

 Del Boca Angelo, Labanca Nicola, L’impero africano del fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, Roma, Editori Riuniti, 2002.

 Goglia Luigi (a cura di), Colonialismo e fotografia. Il caso italiano, Messina, Sicania, 1989.

 Goglia Luigi, Storia fotografica dell’impero fascista. 1935-1941, Roma-Bari, Laterza, 1985.

Palma Silvana, L’Italia coloniale, Roma, Editori Riuniti, 1999.

 Mignemi Adolfo (a cura di), Sì e no padroni del mondo. Etiopia 1935-36.  Immagine coordinata per un impero, Torino, Gruppo Editoriale Farina, 1984.

 Pegolotti Beppe, “L’attentato a Graziani”, in  Storia Illustrata, n.163, giugno 1971, pag. 94-101.

 


Note

[1] La lettera del 7 settembre 1935, è tuttora conservata in ACS MCP Gabinetto, b. 115, f. “Ufficio Stampa e Propaganda in AOI. Reparto cinematografico Luce”, sf. 37

[2] Il Ministero della Guerra, nell’aprile del 1934, aveva costituito un “Servizio Foto-cinematografico militare ed una cineteca militare”. In Etiopia mobilitò una Sezione cinematografica, 16 Squadre fotografiche, 16 Squadre telefotografiche, ed assistette il reparto Luce, per l’occasione militarizzato.

[3] Il Ministero della Marina, inoltre, offrì al Reparto quattro cineprese, due macchine fotografiche ed altro materiale, oltre ad altre quattro cinecamere in dotazione delle squadre navali, affinché fossero specificamente riservate a documentare le azioni della flotta.

[4] Per motivi di salute De Feo fu sostituito prima da D’Errico, infine da Giuseppe Croce, che ricoprì l’incarico di Direttore Generale del Luce fino al 25 luglio 1943. D’Errico girò il documentario lungometraggio “Il cammino degli eroi”, imperniato essenzialmente sui preparativi del conflitto. Egli riprese le fabbriche che producevano speciali divise per i soldati adatte al clima africano, scatolette di carne e altri viveri, ecc.

[5] Corrado d’Errico, LUCE in A.O., in “Lo schermo”, n.2 febbraio 1936

[6] I nomi risultano dal ruolino del Reparto che il Luce fornì, corredandolo delle decorazioni militari assegnate. Vedi  Annuario della stampa italiana 1937-38. XV-XVI, edito a cura del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti, Bologna, Zanichelli, 1937, pp. 70-71

[7] ACS,  PCM, f. 17-1, 3422, sf. 34

[8] Per l’organizzazione e l’attività di tali proiezioni, vedi ACS, MCP, Gabinetto, b.115, f. “Ufficio Stampa e Propaganda in AOI”.

[9] Le tragiche immagini furono scattate dal fotografo di professione Angelo Dolfo.

[10] Vedi Pegolotti Beppe, “L’attentato a Graziani”, in  Storia Illustrata, n.163, giugno 1971, pag. 94-101.

[11] La circolare è riportata in Goglia L., “Colonialismo e fotografia”, pag.37.

[12] La fotografia fu scattata dal colonnello Pietro Piacentini. Secondo una stima prudente, furono circa 3.000 le vittime delle rappresaglie, capeggiate dal federale Guido Cortese, nei tre giorni che seguirono l’attentato, per poi dare inizio a delle repressioni “regolari”, che culminavano in processi sommari. Molti soldati raccontarono di tuculs dati alle fiamme con dentro donne e bambini, e di circa 20.000 indigeni massacrati in una sola notte. Vedi le relazioni fiduciarie riportate in Colarizi S., “L’opinione degli italiani sotto il regime”, pag.223-225.

[13] Il mito della donna africana, disinibita e disponibile sessualmente, era anteriore all’occupazione coloniale militare, ma la fotografia s’incaricò subito di renderne testimonianza. Tale genere fotografico, incentrato essenzialmente sulla nudità del corpo femminile, accompagnò tutta l’esperienza coloniale italiana, raggiungendo forme sempre più erotizzate fino in certi casi a impregnarsi di volgarità, fissandosi tuttavia in maniera così salda e duratura nell’immaginario collettivo, da sostituirsi all’immagine reale della donna africana, e sopravvivendo inalterato anche dopo la fine dell’esperienza coloniale.

[14] Molte di queste fotografie  sono state ritrovate nelle tasche dei soldati italiani caduti prigionieri degli etiopici al momento della disfatta, nel 1941, ed oggi sono conservate e visibili presso la fototeca dell’Institute of Ethiopian Studies di Addis Abeba.

[15] ACS, Min. dell’Int., Direz. Gen. di P.S., Div. AA.GG.RR.. Versamento 1920-1945, Conflitto italo-etiopico (cat. C1), b. 18, f. Affari generali, sf. 64: Militari reduci dall’AO. Disoccupati.

[16] La 7° sezione topocartografica dell’Istituto geografico militare, con lo scopo di  preparare le carte topografiche e geografiche del territorio, dal luglio 1935 al 5 maggio 1936 stampò 48.850 fotografie e 23.585 lastre di fotogrammi aerei.

[17] Alessandro Comini aveva fotografato gli ortaggi dell’orto Gandolfi a Gaggiret, specificando nella didascalia originaria, che tali ortaggi pesavano dai cinque ai dieci chili ciascuno (Eritrea ca. 1910).

[18] Nel 1936, Hemingway scriveva su “Esquire”: “I figli di Mussolini sono in cielo dove non ci sono aerei nemici che possano abbatterli. Ma i figli poveri di tutta Italia sono nella fanteria come i figli di tutto il mondo.

[19] La partecipazione al conflitto fu celebrato con la diffusione di serie fotografiche commemorative, fra le quali, la più importante fu: “128° Legione Camicie Nere. Documentario fotografico dell’attività svolta durante la campagna per la conquista dell’Impero Fascista, Luglio 1935-XIII E.F. – giugno 1937-XV E.F.”, incisione e stampa S.A. Alfieri & Lacroix, Milano, 1937. Il materiale illustrativo di tale libro era composto essenzialmente dalle fotografie scattate dagli ufficiali e dai soldati della 128° Legione. La guerra era rappresentata come una passeggiata avventurosa tra ingenue insidie nemiche, soprattutto territoriali. Dall’ottobre del 1936, ogni rivista illustrata pubblicò degli speciali dedicati al primo anniversario dell’inizio dell’occupazione in Etiopia o della proclamazione dell’impero. Esemplare è il volume “Italia Imperiale”, numero speciale della rivista illustrata del Popolo d’Italia”, od Il cammino degli eroi”, stampato dalla Hoepli nella collana Vedere”., che sintetizza, tramite un’accurata scelta di fotogrammi, i film Luce prodotti durante il conflitto.

[20] Vedi Laura E.G., “Le stagioni dell’Aquila”, pag.141-143.

[21] Alcune critiche dell’Ufficio, e relative reazioni del Luce, sono contenute in ACS, MCP, Gabinetto, b. 115, f. “Ufficio Stampa e Propaganda in AOI. Reparto fotocinematografico Luce”, sf. 48. Nella medesima busta e fascicolo, ma al sf. 2, sono contenuti alcuni progetti e proposte di Casertano.

[22] Il madamato era una forma di concubinaggio fra italiani ed africane, precedente all’occupazione militare, ma che in tali occasioni si diffuse notevolmente. Se il madamato fu represso, il regime fascista tuttavia tollerò, se non addirittura incoraggiò, la prostituzione indigena, instaurando nell’immaginario collettivo l’associazione fra l’immagine della prostituta e l’immagine della donna africana. Vedi Palma S., “L’Italia coloniale”, pag.48 e ss.

[23] Lidio Cipriani, uno dei firmatari del Manifesto della razza del 1938, cercò di dimostrare, nella lotta contro il madamato, come i meticci fossero inevitabilmente predisposti alla degenerazione, e che dunque fosse necessario salvaguardare il prestigio della razza latina e fascista. ( Cipriani L. Razzismo coloniale in “La difesa della razza” n.2, 20 agosto 1938).

 

 

 

 

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