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8 Settembre 1943

La morte delle patrie: così entrò in crisi lo Stato-nazione

«Morte della patria l’8 settembre? Ma quando mai! Solo dirlo è una bestemmia, un insulto gratuito al nostro popolo e alla Resistenza che, viceversa, proprio dall'8 settembre prese l'avvio riscattando l'onore del Paese; è certo: l'amor di patria non uscì mai dal cuore degli italiani». Queste parole (più o meno) e queste obiezioni me le sono sentite ripetere alcune migliaia di volte da quando per primo (se mi è lecito accampare questo dubbio merito) nel 1993 mi capitò di ripescare l'espressione fatale da un vecchio libro di Salvatore Satta, «De profundis», e di adoperarla come titolo di una relazione ad un convegno di storia, poi pubblicata l'anno successivo negli atti. Come si capisce, a mia volta ho provato anch'io a ribattere alcune altre migliaia di volte. A spiegare cioè che un conto è il generico sentimento patriottico e un conto è la costruzione storico-ideologica di patria come operante matrice di valori collettivi; che la disfatta militare non era stata solo la disfatta del regime fascista ma anche di tale idea di patria risalente all'Unità; che la Resistenza, per le sue stesse caratteristiche ideologico-politiche, non aveva potuto fare nulla per rimetterla in piedi. Niente da fare. Sicché alla fine mi sono arreso avendo finalmente capito, peraltro, il vero punto chiave: vale a dire che stracciarsi le vesti contro la sola idea di «morte della patria» e contro il suo uso storiografico serve, in realtà, ad accreditare una versione del passato in vari modi politicamente utile nel presente. Utile per esempio ad accreditare retrospettivamente alla sinistra una supposta devozione agli interessi nazionali in realtà all'epoca per molti aspetti più che dubbia; ovvero, per dirne un'altra, serve a cancellare il non cale in cui ieri fu tenuta ogni resistenza che non fosse quella sotto l'egida dei partiti rispetto, invece, all'esaltazione che si fa oggi della Resistenza dei militari, della Resistenza dei civili, di quella della «zona grigia», insomma di qualunque «altra Resistenza».

Ma questo uso manipolatorio del passato è uno dei nostri vecchi vizi nazionali dei quali - almeno qui adesso - non merita di occuparsi più di tanto. In sede di riflessione storica importa molto di più, invece, capire che il dato definito dall'espressione «morte della patria» rimanda in realtà a un fenomeno di grande portata storica che coinvolse non solo l'Italia ma l'intera Europa all'indomani della Seconda guerra mondiale. Fino al punto che la «morte della patria» italiana può essere considerata - pur con tutte le ovvie importantissime specificità del caso - quasi come una manifestazione particolare di quel fenomeno generale. Che, per dirla in poche parole, non è altro che la crisi dello Stato nazionale europeo di tipo ottocentesco e della sua sovranità.

Nella sostanza tale Stato, con le sue strutture e le sue mitologie, era durato fino al 1939. Soprattutto erano durate fino a quella data le sue principali culture politiche, spesso improntate ad un orientamento più o meno nazional-nazionalistico, nelle quali, non a caso, si annoveravano importanti partiti di destra.

In complesso può dirsi che erano rimasti sostanzialmente gli stessi, rispetto al secolo precedente, vuoi la generale atmosfera culturale, psicologica, emotiva, entro la quale le collettività statali europee e le loro classi dirigenti erano abituate a concepire sé medesime, vuoi i criteri di fondo delle grandi scelte politiche: l'una e gli altri solidamente fondati sul concetto di interesse nazionale tradizionalmente inteso. Precisamente tutto ciò fu spazzato via dalla guerra. Definitosi il conflitto come crociata contro il «fascismo» e ascritto interamente il «fascismo» alla destra, tutte le culture politiche riconducibili a questa e ai suoi valori, a cominciare da una accezione forte dell'idea di nazione, di patria, si trovarono di fatto a essere messe fuori gioco. Si aggiungano due importantissimi fattori fortemente contrastanti con la dimensione nazionale di un tempo. Da un lato la catastrofe militare, l'occupazione e il conseguente crollo di prestigio di tutte le élite tradizionali, che un gran numero di Paesi del continente sperimentarono dal '39 al '45; dall'altro, l'empito internazionalistico nonché i valori di pace e di cooperazione tra i popoli che sembrarono ispirare la vittoria degli Alleati e che sembrarono trovare il loro emblema nella nuova organizzazione delle Nazioni Unite.

Non è un caso, del resto, che i vincitori della guerra e gli artefici del mondo postbellico - Stati Uniti, Inghilterra e Unione Sovietica - fossero, più che dei classici Stati nazionali, tre veri e propri aggregati di tipo imperiale poggianti su valori ideologici dal forte tratto universalistico.

Sia per questo che per altri motivi fatto sta che il dopoguerra europeo - specie quello dell'Europa occidentale continentale, composta (Penisola iberica e Svizzera escluse) di nove Paesi tutti quanti tra il '39 e il '45 sconfitti e occupati dallo straniero - appare anch'esso tutto dominato dall'eclisse dello Stato-nazione e della sua capacità animatrice. Cioè in sostanza da quella che nel caso dell'Italia è stata per l'appunto chiamata - con un'enfasi maggiore resa obbligatoria da «un disastro quale non si era verificato mai prima nell'Italia storica dopo le invasioni barbariche» (Dionisotti) - la «morte della patria».

Tutto ciò ha avuto una conseguenza di immensa portata: e cioè che l'esperienza storica centrale occorsa in questa parte d'Europa dal '45 a oggi - vale a dire lo stabilirsi di una democrazia di massa, quell'esperienza così importante è stata per lo più costretta a svolgersi fuori, e come sradicata, dal quadro di riferimento dello Stato nazionale e delle sue risorse pratico-simboliche, concentrate per antonomasia nell'ambito della politica militare e di quella estera. La democrazia europea ne ha dovuto per mezzo secolo fare a meno pagando un prezzo che, ahimè, continua a pagare.

Ernesto Galli della Loggia

(Corriere della Sera - Speciale 8 settembre 1943/2003)

 

 

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