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L'8 Settembre 1943

pallanimred.gif (323 byte) All'improvviso la libertà

Intervista a Claudio Pavone (il Manifesto, 8 settembre 2003)

di IAIA VANTAGGIATO

Firmato il 3 settembre, l'armistizio fu reso noto solo la sera dell'8 con un proclama del maresciallo Badoglio agli Italiani. Di quelle ore, dei sentimenti contrastanti che le agitarono e di quel rinato senso di responsabilità collettiva che finì per animare la scelta partigiana parliamo con lo storico Claudio Pavone che della Resistenza è stato anche partecipe. Così, tra racconto autobiografico e storiografia, scorrono davanti ai nostri occhi le immagini di un'Italia che un po' moriva e un po' nasceva attraverso quelle che Vittorio Foa ebbe a definire «varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità»

Gioia, incredulità, smarrimento. Questo fu l'8 settembre del 1943. Sentimenti che anticipano i fatti. Aspettative che invano cercano di scartare più cupe certezze. Ne parliamo con Claudio Pavone che - dell'8 settembre - fu partecipe e attento studioso. Tra i suoi testi più importanti sull'argomento e sugli anni che a quella data seguirono, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri).

«Il 25 luglio pensavamo che le nostre sofferenze fossero finite, poi è arrivato l'8 settembre». Così afferma un testimone da lei citato in «Una guerra civile». Condivide la sua affermazione?

Il 25 luglio si credette che la fine del fascismo avrebbe significato anche la fine della guerra tanto il primo si era «immedesimato» nella seconda. Quel giorno, mi ricordo, la gioia esplose nelle piazze e nella coscienza comune. Io mi trovavo a Roma e mi unii a una delle tante manifestazioni spontanee che si dirigevano verso piazza Venezia per sconsacrarla. Ma già allora c'era chi gridava: «Fuori i tedeschi dall'Italia». Addirittura si sparse la voce che Hitler si fosse suicidato. Si era consapevoli che con i tedeschi ancora in casa c'era poco da stare allegri. E tuttavia, nonostante questa consapevolezza e nonostante fosse più che sentita la connessione tra fine del fascismo e fine della guerra, si faticava a tener conto delle difficoltà ancora insite nei rapporti e con i tedeschi e con gli alleati.

E la speranza che la guerra fosse davvero finita si fece più forte dopo l'8 settembre...

Sì. Dopo l'annuncio dell'armistizio fatto alla radio da Badoglio la sera dell'8 settembre ci fu una vera esplosione di gioia che ebbe, però, vita breve. I tempi furono rapidissimi: dalla gioia si passò alla delusione, poi alla preoccupazione, quindi alla paura e all'abbattimento e, infine, allo smarrimento.

Cosa provocò questa repentina successione di stati d'animo opposti?

Nessuno capiva più cosa stesse davvero accadendo. L'unica cosa prevedibilissima e chiara a tutti - tranne che a Badoglio e all'élite militare - era che ci sarebbe stata una violenta reazione tedesca. E poi c'era quell'infelice proclama in cui Badoglio affermava: «Ogni atto di ostilità contro le truppe anglo-americane deve cessare da parte delle truppe italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Come se un evento drammatico come quello si potesse aggirare con un meschino gioco di parole. Del resto né il re né Badoglio tennero conto di ciò che tutti sapevano: i tedeschi erano entrati in Italia già all'indomani del 25 luglio.

Dunque, così come Mussolini non era pronto a entrare in guerra, così Badoglio non era pronto a firmare l'armistizio.

La vicenda diplomatica che ha preceduto l'armistizio è ottimamente analizzata in un volume di Elena Aga Rossi - Una nazione allo sbando - che resta il migliore testo sull'argomento. Dal libro si evince che il re e Badoglio speravano di cavarsela a buon mercato, con un po' di furberia e un po' di fortuna. Nessuno dei due era all'altezza della situazione ed entrambi credettero che per uscirne bastasse usare qualche sotterfugio, «giocare» un po' con gli alleati e un po' con i tedeschi.

E' possibile che non si rendessero conto della sproporzione di forze?

Alla sproporzione delle loro forze rispetto sia a quelle alleate che a quelle tedesche pensavano con una paura che generava futilità. Ma soprattutto non capivano quale fosse lo stato d'animo delle truppe che si sentirono abbandonate dagli ufficiali così come gli italiani si sentirono abbandonati da qualsiasi autorità. Tra l'altro, il libro di Aga Rossi conferma che nell'ultima seduta che fecero il re, Badoglio, il capo di Stato maggiore Ambrosio e il ministro della Real Casa Acquarone, fu persino ventilata l'idea di smentire l'armistizio e di continuare la guerra al fianco dei tedeschi.

Quando si tenne questa seduta?

Subito prima che Badoglio parlasse alla radio.

Come mai, allora, decisero di venire allo scoperto?

Li «costrinse» il generale Eisenhower che bruciò le tappe e annunciò l'armistizio. A quel punto tacere non era più possibile a meno di non smentire lo stesso Eisenhower.

L'8 settembre - per usare le parole di Vittorio Foa - «crollò lo Stato». Di fronte a questo vuoto istituzionale alcuni credettero che il «disordine» potesse essere un'occasione di libertà; altri, presi dallo smarrimento, desiderarono la restaurazione dell'«ordine». Si intrecciarono mai queste reazioni? Quale prevalse?

Lei ha toccato uno dei punti più difficili e delicati di quei giorni. Vede, di fronte a eventi così terribili non possono non darsi contraddizioni, nei comportamenti e nelle coscienze: le divisioni appaiono abbastanze nette ma poi, a ben guardarle, all'interno di ciascuna si può scorgere una intricata commistione di sentimenti. Il fatto è che l'umanità era - ed è - abituata all'idea che ci sia uno stato e che, bene o male, bisogna obbedire. Quando questo viene a mancare la reazione è duplice: di liberazione e di paura. Dopo l'8 settembre, il senso di liberazione provato da molti si spiegava con il disfacimento delle strutture fasciste e con la convinzione che si potesse finalmente cominciare a costruire qualcosa di nuovo, di diverso. Uno stato diverso. Chi non aveva questa consapevolezza provava solo smarrimento ed era disposto a sottomettersi al primo che avesse ripreso nelle proprie mani il potere. E così accadde per molti di quelli che aderirono alla Repubblica sociale, certo non, fra essi, per coloro che erano ancora animati da una salda fede fascista.

Nessuno pensava di prolungare quello che lei ha definito un «eccezionale momento di armonia in una comunità sciolta dai vincoli del potere»?

Nessuno - tranne, forse, gli anarchici di professione - pensava che si potesse costruire una società senza stato. Del resto, il vuoto istituzionale durò assai poco: lo stato italiano non si era dissolto né era scomparsa la patria. A nord rinasceva con la Repubblica sociale, nel Regno del sud si ricostituiva con il re e la monarchia che rappresentavano ancora qualcosa. Quando l'Italia si riunificò, le due porzioni di burocrazia fecero presto a rimettersi in piedi: entrambe, dissero, erano state al loro posto per salvare l'Italia e su questa formula rapidamente si ricompattò la struttura dello stato. Quanto al re e a Badoglio, molti di noi li sottovalutarono. Ricordo che - nel corso di un convegno - Giancarlo Pajetta raccontò di un suo giro nelle valli piemontesi dopo la svolta di Salerno. Vi prevalevano i gruppi di Giustizia e libertà che cantavano la Badoglieide. Pajetta li aveva apostrofati duramente: «ma come, noi facciamo la politica di unità nazionale e voi cantate la Badoglieide?». Pajetta aveva ragione dal punto di vista della linea del partito ma non si rendeva conto che se quei ragazzi non avessero intonato la canzone di Luigi Bianco e Nuto Revelli, forse, sarebbero tornati a casa.

Sta forse accusando di intransigenza il partito comunista?

Non direi di intransigenza perché a molti di noi la svolta apparve un atto di eccessiva transigenza. Sto solo dicendo che spesso i comunisti non capivano che esistono dei fenomeni che vanno ben oltre la disciplina di partito. Questa fu una delle cose nuove e più interessanti di quel periodo: la pluralità di opinioni e comportamenti, anche all'interno delle brigate Garibaldi.

«Viva Badoglio», invece, gridavano gli internati militari italiani in Germania.

Era un modo per resistere alle pressioni fasciste e tedesche. Va comunque detto che va fatta alla storiografia la critica - che rivolgo anche a me stesso - di non aver abbastanza preso in considerazione i 600mila prigionieri in Germania. Forse, ha agito il disdegno del combattente verso il prigioniero.

Va anche detto che alcuni degli internati aderirono alla Repubblica di Salò.

E' vero ma si trattò solo di una piccola minoranza. Gli internati che aderirono a Salò lo fecero, in parte, per tornare in Italia con l'idea, magari, di «squagliarsela» subito dopo.

Quando e come la scelta resistenziale individuale si trasformò in senso di responsabilità collettiva? E quanto consapevolmente?

Questo è un altro punto molto delicato e poco indagato. I testimoni tendono a retrodatare la consapevolezza al momento della scelta iniziale che spesso fu, invece, dettata da molte e diverse motivazioni e fu persino occasionale. Di vera coscienza politica, all'inizio, si può parlare solo per i vecchi antifascisti e per i giovani che avevano già cominciato un distacco dal fascismo. In molti altri sbocciò nel corso stesso della Resistenza. C'è un bello scritto di Massimo Mila in cui si dice che, in fondo, l'8 settembre fu una di quelle occasioni in cui ci si rende conto che si possono fare cose che non si sarebbe mai pensato di poter fare. Si fanno e basta. Poi, magari, la volontà si consolida e allora si cercano dei motivi aggiuntivi capaci di sostenerla anche teoricamente e politicamente.

Così non fu, però, per gli operai.

No, indubbiamente. A loro sembrò che si fosse ridestata tutta la violenza squadristica degli inizi, quella che si era consumata tra il `19 e il `21. E tuttavia anche rispetto alla classe operaia c'è stato - sia da parte del partito comunista che da parte della storiografia - come un'eccessiva attribuzione di identità, quasi che l'essere operaio e l'essere antifascista o addirittura comunista coincidessero. Certo per un operaio della Breda o della Pirelli era più facile - anche senza andare in montagna - organizzare forme di resistenza che ebbero negli scioperi i loro momenti culminanti. Resistenza civile, come fu - spesso - quella delle donne. Per gli impiegati dello Stato fu diverso: molti si trasferirono da Roma al nord, alcuni per motivi personali, altri per fede fascista, altri ancora per opportunismo, per paura delle sanzioni. Ma non si può dire che gli uni fossero tutti antifascisti e gli altri tutti fascisti. Queste identificazioni totali andavano bene allora per motivi propagandistici ma oggi non ci aiutano a capire quanto ampio fosse lo spettro di posizioni che andava dai partigiani a Salò.

Un giurista, Costantino Mortati, ha definito i Comitati di liberazione nazionale «veri organi della comunità statale, auto-organizzatisi in seguito al disfacimento delle preesistenti strutture statali». Ritiene che - oltre alla monarchia e alla Rsi - anche i Cln possano essere considerati in qualche modo «Stato»?

Furono come un terzo governo clandestino. La Repubblica di Salò fu uno dei canale di continuità dello stato. A Salò tutto si è retto sotto l'insegna di una normalità sia pur fittizia. Funzionavano: l'amministrazione prefettizia, la questura, le intendenze, la pubblica sicurezza, la magistratura e le prigioni. Questo si intende per Stato. E questo, aggiungo, è un altro dei numerosissimi motivi che impediscono qualsiasi equiparazione tra fascisti e antifascisti negli anni della guerra civile. I fascisti, la X Mas, le brigate nere - pur essendo spesso organizzati in forma di bande di ventura - avevano le spalle guardate da uno stato: dormivano in caserma, erano protetti da una sorveglianza armata, ricevevano vitto e alloggio. I partigiani dovevano arrangiarsi per dormire e per mangiare e sapevano che - se catturati - sarebbero stati fucilati.

Come è stato possibile che in piena Tangentopoli qualcuno sia giunto ad individuare nei comitati di liberazione nazionale l'origine della partitocrazia?

Il Cln come matrice della cosiddetta partitocrazia è stata una formula usata nella lotta politica ma priva di senso storico. Gli italiani uscivano da un'esperienza in cui c'era stato un unico partito, non i partiti. Non intraprendere la strada della rappresentanza plurale - dopo la guerra - sarebbe stato impensabile: una delusione ancora più cocente di quella patita il 25 luglio e l'8 settembre. Del resto non può esistere una democrazia senza partiti comunque li si voglia chiamare. Quanto poi a quelli che facevano parte del Cln, si affermarono alle prime elezioni perché rappresentavano i grossi filoni del pensiero e della coscienza politici: cattolici, socialisti, comunisti. Il più resistenziale - il partito d'azione - fu, invece, il meno fortunato.

Ancor meno del partito liberale...

I liberali credettero di poter riprendere la loro storica funzione di guida ma non capirono una delle lezioni fondamentali del fascismo: solo con un partito di massa era ormai possibile governare.

Lei ha fatto la resistenza prima a Roma col partito socialista, poi - dopo l'arresto e un anno di prigione - a Milano dove ha continuato la resistenza con quello che lei stesso ha definito «un gruppetto un po' estermista». Qual era il vostro giudizio sul Cln?

Noi in realtà eravamo molto critici del Cln; pensavamo che volesse far rinascere la vecchia Italia. In fondo era questa anche l'ispirazione iniziale di Giustizia e libertà e poi del Partito d'Azione. Vede, è vero che una fascia più giovane e intransigente sembrava dire «Ma questi partiti cosa vogliono fare?», tuttavia è anche vero che nessuno si sarebbe mai sognato di affermare: «Non voglio nessun partito». Le dico solo questo: quel «gruppetto estremista» si chiamava Partito italiano del lavoro. Partito, non altro.

Insomma, affermare che il Cln fosse all'origine dell'odiata partitocrazia fu solo un'accusa grossolana?

Assolutamente sì. Molte formule sono state pubblicisticamente indovinate ed hanno avuto molto successo. Trasformarle senz'altro in formule storiografiche e interpretative è, però, un'altra cosa. Il passo avanti - necessario anche rispetto a quella parte di retorica che c'è stata sulla storiografia dell'antifascismo - non si fa né rovesciando i giudizi né equiparando le parti. Nessuno scherzava durante gli anni della guerra civile: né i fascisti né gli antifascisti. Per una volta, in Italia, si sono fatte le cose seriamente.

E il moltiplicarsi degli attacchi alla Costituzione?

Sono continui e, purtroppo, non credo che siano terminati: dal maldestro titolo V scritto in extremis dal governo di centrosinistra a una devolution promessa in maniera rozza e generica ma non per questo meno pericolosa. Aggiungerei che la formula della Costituzione nata dalla Resistenza - che rappresenta il bersaglio preferito di chi la Costituzione vorrebbe riscrivere - va integrata con la considerazione che non tutto quello che è nella Costituzione stava nella Resistenza e non tutto quello che c'era nella Resistenza è passato nella Costituzione.

Anche il 25 aprile - quest'anno - è stato al centro di aspre polemiche. Attribuisce al discorso di Violante sui «Ragazzi di Salò» o al tentativo di pacificazione messo in atto da Ciampi una sia pur involontaria responsabilità?

La critica al 25 aprile e - in genere - alla Resistenza, alla liberazione e all'antifascismo è ormai di lunga data. Oggi per essere politically correct bisogna condividerle. Ricordo che già il 25 aprile del `94 - subito dopo la prima vittoria di Berlusconi - a Milano ci fu una grande manifestazione (promossa da il manifesto, ndr) alla quale si unì persino Bossi. Quanto alla cosiddetta pacificazione, ritengo si tratti di un termine su cui pesano molti equivoci. Di che parliamo? Alla fine della guerra, il diritto di cittadinanza italiana è stato riconosciuto abbastanza rapidamente agli ex fascisti che non hanno praticamente patito limitazione giuridica alcuna. Quanto al dettato costituzionale, l'unico divieto era quello, presto aggirato, della ricostituzione del Partito fascista. Che moralmente i fascisti fossero in un angolo, questo non dipendeva dalla Costituzione.

Ma è il presente che - rispetto a quegli anni - sembra avere memoria corta.

Rispetto a questi mutamenti di giudizio sul 25 aprile o sulla Resistenza, ritengo non sia indifferente il fatto che oggi, al governo, ci siano gli eredi del fascismo in Italia.

Si tratta di giudizi che scaturiscono da un uso politico della storia?

Assolutamente sì. Il fascismo e l'antifascismo - lo ripeto - non possono essere posti sullo stesso piano; i fascisti e gli antifascisti non erano affatto uguali. E dobbiamo accendere un cero a cento madonne se hanno perso gli uni e vinto gli altri. Quanto agli odierni eredi del fascismo, tutto dipende dal loro reale rispetto verso la Costituzione.

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