Una storia a parte è quella dei 150mila soldati del corpo
        di spedizione italiano che iniziò l'occupazione dell'Albania a partire dal 7 aprile 1939.
        Ximara, Saranda, porto Palermo, Valona [Vlora] Berat, Argirokastro, Burreli, Fieri,
        Krudia, Korca, Tepeleni, ecco i nomi di tutti gli acquartieramenti dove i giovani militari
        italiani, dopo l'8 settembre del '43,  nel giro di pochi giorni vivranno
        un'esperienza indimenticabile, sconvolti dalle notizie della disfatta dell'esercito
        italiano, dell'armistizio, del non sapere che fare, contraddetti dal ritrovarsi come
        nemico l'ex alleato tedesco e dalla decisione di dover decidere da che parte stare. E' la
        disfatta, mentre arrivano le voci concitate, i proclami, i richiami, gli ordini da lontano
        a incolonnarsi per aspettare nei porti improbabili navi che avrebbero riportato in patria
        le truppe italiane. In ognuna di queste località, dove saranno a decine di migliaia i
        militari disperati pronti a consegnarsi ai tedeschi convinti della sicura salvezza dalla
        propaganda nazista, saranno invece i partigiani albanesi a soccorrere in armi i soldati
        italiani allo sbando, ad ingaggiare battaglia perché quegli uomini che fino a pochi
        giorni prima erano stati nemici, potessero salvarsi e salvandosi prendere le armi insieme
        a loro contro i nazisti tedeschi. Quanto fossero nemici fino a pochi giorni prima è
        testimoniato dal fatto che soltanto alla fine dell'agosto 1943 si era conclusa
        un'operazione di rastrellamento cominciata quaranta giorni prima in tutto il sud
        dell'Albania e alla quale avevano partecipato le divisioni "Firenze",
        "Arezzo", battaglioni di alpini e carabinieri e con particolare accanimento le
        camice nere dei "Battaglioni Mussolini", un'operazione che aveva fatto terra
        bruciata per centinaia di chilometri, con villaggi incendiati, contadini e pastori
        fucilati, donne violentate. In tutto il paese erano decine i campi di internamento in cui
        erano rinchiusi gli antifascisti e alla fine della guerra l'Albania avrebbe contato i
        morti della sua guerra di liberazione: 28 mila vittime.
        Nel settembre 1943 i soldati allo sbando diventano il tiro al bersaglio preferito in
        decine di imboscate-massacro preparate in grande stile dai comandi tedeschi. Sarà lo
        stesso dramma vissuto dai soldati italiani nelle isole greche. Il comando partigiano punta
        a salvare più italiani che può. La maggior parte dei soldati finirà prigioniera dei
        tedeschi, molti diserteranno, circa tremila soldati italiani passeranno in armi nelle fila
        della resistenza albanese.
        La Divisione "Perugia", stanziata nel sud
        dell'Albania tenne in armi il porto di Santi Quaranta fino al 3 ottobre 1943, in attesa di
        un aiuto da parte italiana ed alleata.  Una
        divisione di oltre 10.000 uomini, che dominava un area abbastanza vasta e che avrebbe
        potuto dare un forte aiuto ad un intervento alleato dall'altra parte dell'Adriatico.
        10.000 militari italiani che rimasero compatti per tre settimane oltre l'armistizio, in
        armi e che pagarono duramente questa loro resistenza. Infatti
        tutti gli Ufficiali della Perugia furono fucilati, e gli uomini internati in Polonia. 
        I reparti mobilitati dell'Arma dei Carabinieri
        subirono la stessa sorte.I comandi territoriali della legione di Valona, dopo
        l'occupazione della zona da parte tedesca, lasciarono che ufficiali e gregari tentassero
        di raggiungere le truppe del Montenegro o passassero a combattere con i partigiani.
        Apparteneva a tale legione il carabiniere Filippo Bonavitacola, che,
        militando fra i partigiani albanesi, ma caduto in seguito nelle mani dei tedeschi, riuscì
        ad evadere da un campo di prigionia della Slovacchia ed a riprendere la lotta con bande di
        partigiani russi e slovacchi, alle quali si era aggregato. Caduto nuovamente prigioniero
        venne fucilato a Branova, 1'8 dicembre 1944. Alla sua memoria fu concessa la medaglia
        d'oro al valor militare. 
        Anche una parte del personale della legione di Tirana riuscì a sbandarsi; altra parte
        cadde nelle mani del nemico ed una colonna di circa 2.000 prigionieri italiani dei vari
        corpi, di cui più di mille Carabinieri, con alla testa il colonnello Giulio Gamucci,
        comandante della legione, fu avviata verso la Bulgaria. Attaccata una prima volta da
        partigiani albanesi e ridotta di forze per il passaggio di circa 700 uomini fra le file
        degli stessi partigiani, la colonna cadde più tardi, durante la ripresa del lungo
        viaggio, in una imboscata di altra formazione partigiana albanese, che riuscì a
        trascinare con se un centinaio di uomini, tra i quali lo stesso colonnello Gamucci,
        raggiungendo la zona di Burreli, ove il 16 ottobre 1943 furono tutti fucilati. I rimanenti
        militari della colonna finirono nei campi di prigionia in Germania. 
        Quanto ai Carabinieri sbandati nel settore di Tirana o affluiti da altre località, una
        parte di essi venne riunita dal colonnello Gino Carrai, già addetto alla 9ª Armata, e
        organizzata in una formazione di resistenza, che prese il nome di
        "Risorgimento". Il reparto si inserì e combatté valorosamente in seno
        ad una formazione più grande, denominata "Truppe italiane della montagna" (9
        zone, della forza ciascuna di un battaglione), alla quale si affiancarono i partigiani
        albanesi della montagna. Il reparto carabinieri, di circa 200 uomini, venne articolato in
        nuclei organici. Le "Truppe della montagna" resistettero sino alla fine della
        guerra. 
        E' ampiamente conosciuta la storia dei più che finirono nelle mani dei tedeschi, molti
        morirono per stenti e fame, molti finirono nelle fabbriche d'armi o nei campi di
        concentramento in Germania e Polonia. Meno conosciuta è la storia di quei tremila che
        cominciarono la guerra di resistenza in Albania contro il fascismo, dando vita al "Battaglione
        Gramsci" e che per un anno e mezzo affrontarono in armi i fascisti italiani
        e i nazisti insieme ai partigiani albanesi, partecipando nel novembre del 1944 alla
        liberazione di Tirana. Assolutamente sconosciuta, fino ad oggi, è stata la sorte di più
        di ventimila disertori, che non si schierarono con nessuno e ripararono nelle campagne
        albanesi. Qui le poverissime famiglie albanesi divisero con loro le poche cose che avevano
        e addirittura il lavoro dei campi, nascondendo tutti quei giovani ai rastrellamenti dei
        tedeschi.
        Ecco allora il non-detto, il taciuto. Non solo la storia dell'infamia di un'occupazione
        militare per le cui stragi nessuno ha mai pagato; non solo la straordinaria esperienza
        "non- nazionalista" e antifascista di tremila italiani che combatterono al
        fianco dei partigiani albanesi; ma ventimila italiani nascosti, sfamati e accuditi dai
        poveri contadini albanesi per due anni.
        
        
 per
        approfondire:
        
 La Resistenza dei militari
        italiani in Albania