Testataantifasc.gif (15270 byte)

www.storiaXXIsecolo.it 

antifascismo

home

   

      

Biografia

pallanimred.gif (323 byte) Costantino Lazzari

Vita di un socialista lombardo da Bertani a Lenin (1857-1927)

di Gianni Artero

L’aggettivo usato nel sottotitolo individua una caratteristica fondamentale del personaggio,  lombardo per la matrice culturale che, se nei "momenti bassi" si esprime in un "buonsenso" un po' gretto  e provinciale individuato con ironia da compagni e avversari[1], si manifesta in positivo nell'agire concreto dell'organizzatore di circoli, dell' amministratore di iniziative editoriali, del tessitore di reti di sezioni; il suo antiriformismo non è  retorico "atteggiamento" frequente nel socialismo rivoluzionario, ma espressione di una diffidenza classista nei confronti dei politici di professione e degli intellettuali, come si vedrà più avanti nell'episodio del segretario napoletano del carcere di Finalborgo “...non saremo noi Milanesi ignoranti che andremo a prendere lezione di socialismo dai Napoletani sapienti, perché noi nella vita sociale facciamo già pratica militante della poli­tica socialista [2].

Abbiamo utilizzato l'autobiografia scritta nel 1926[3] - ma che si arresta alla fine dell'Ottocento  - riproducendone ampi stralci, per l'esposizione  vivace, con qualche eccesso "cruento" (probabile derivazione dalla "letteratura d'appendice")  verificandola e integrandola con le altre fonti. Questo scritto aveva anche una motivazione pratica perchè la "Fondazione Giacomo Matteotti" (istituita nel 1925 allo scopo di raccogliere autobiografie di organizzatori del movimento socialista), aveva offerto a Lazzari, che aveva perso l'indennità parlamentare e si avviava ai 70 anni con a carico la moglie e una figlia adottiva, una modesta retribuzione in cambio della sua collaborazione a questo progetto.

"Tra poco avrò raggiunto i settant'anni della vita. Arrivato a quest'ultimo periodo della vita, povero e proletario come sono nato, trovo di non possedere altra ricchezza che la coscienza tranquilla e la fede sicura nell'avvenire del socialismo (...). Come si è formata in me questa fede e come ho acquistata questa tran­quillità di coscienza? Non è possibile rispondere a queste domande senza avere la conoscenza dell'ambiente sociale in cui sono cresciuto e il cui carattere ebbe certamente una influenza capitale nel determinare in me la comprensione completa delle dottrine egualitarie moderne."

 

Da Cremona a Milano

Così inizia le sue memorie, e prosegue "Sono figlio della gleba cremonese per parte della stirpe paterna (una mia nonna contadina morì suicida in un accesso di pellagra)" ma la madre, Anna Grandi "apparteneva ad una discendenza di privilegiati decaduti, imparentata con una delle più illustri famiglie di Lombardia", mentre il padre era insegnante di storia e letteratura nelle scuole secondarie. Pur enfatizzando l' ascendenza contadina dal lato paterno, è comunque difficile definirla una famiglia proletaria. Problemi dovettero sorgere presto in famiglia perchè (secondo la sua versione non molto chiara) "l'ardente idealismo con cui mio padre diede inizio alla vita della propria famiglia, fu causa di gravi e profondi turbamenti nei nostri reciproci rapporti,” per cui a otto anni   si trasferisce col fratello maggiore dai nonni materni impiegati dell'Istituto tecnico ”Santa Marta” di Milano.

Nel 1857 Cremona aveva circa 30.000 abitanti e, pur essendo solo il capoluogo di una provincia lombarda, era però negli anni tra l'ultimo quarto dell'Ottocento e il primo del '900 ricca di personalità di rilievo nazionale[4], come Guido Miglioli, organizzatore delle "leghe bianche" (cattoliche) contadine, il radicale Ettore Sacchi, il socialriformistia Leonida Bissolati, il repubblicano Arcangelo Ghisleri, il cattolico Stefano Jacini, il vescovo Geremia Bonomelli; ma la precoce partenza dalla città natale non gli consentì un radicamento nell'ambiente locale,  immergendolo nella realtà milanese fin dalla prima adolescenza.

Dopo le classi elementari, per le ristrettezze economiche familiari, frequenta non il ginnasio, che preparava agli studi universitari, ma la scuola tecnica, preferita dalla piccola borghesia perchè dava immediato accesso agli impieghi, e quì inizia ad interessarsi di problemi sociali e politici   "Gli avvenimenti della vita italiana esercitavano su di me una strana attrattiva ed io con avidità ed entusiasmo leggevo i letterati che vi avevano dedicato le loro opere : Guerrazzi, Berchet, Massimo D'Azeglio, Manzoni, Grossi, Niccolini, ecc." La scoperta della politica avviene anche tramite un compagno di classe  "Enrico Dalbesio, un simpatico giovanotto proletario di vivace ingegno e di cuore ardentissimo. Da certi parenti che aveva in Francia egli riceveva molte di quelle pubblicazioni che al tempo della Comune di Parigi e dopo avevano circolato per l'Europa. Noi le leggevamo di nascosto ed erano l'argomento favorito dei nostri discorsi: così si iniziò nel mio animo il primo germe delle cognizioni sociali."

 

Il lavoro e l’inchiesta sociale. Anna Maria Mozzoni

   Finita la scuola tecnica, è costretto a cercare un impiego a quindici anni - età non precoce in quel tempo per l'ingresso nel mondo del lavoro, che anzi nei ceti proletari avveniva anche molto prima - entrando "come garzone di magazzino presso la ditta del sig. Luigi De Giorgi, una vecchia e riputata casa di rappresentanza e deposito di filati. Dopo alcuni mesi di lavoro gratuito — allora si usava così — il 15 agosto 1873 vi guadagnai le prime 50 lire come mancia di ferragosto : mi parve di essere diventato ricco e mi comperai l'orologio! Passato il tempo del mio tirocinio, nel 1875 cominciai a ricevere lo stipendio regolare di L. 30 mensili. In quelle condizioni ritrovai il mio compagno di scuola e di banco Enrico Dalbesio (...). Dopo il nostro orario di lavoro ci trovavamo sempre a passare qualche ora ragionando intorno ai nostri preferiti argomenti sociali…. L'amico Dalbesio era poi un grande entusiasta per le arti belle e ambedue, durante la scuola tecnica, ci eravamo tanto distinti nello studio del disegno che io mi decisi a frequentare l'Accademia di Brera approfittando dell'orario mattiniero (dalle 6 alle  9) nella stagione estiva... Per tre anni mi dedicai con passione allo studio elementare della figura: arrivato ai corsi di nudo, essendo cambiato l'orario scolastico, dovetti abbandonare l'Accademia per non perdere quel piccolo guadagno che mi permetteva di aiutare la vecchiaia dei nonni."

   Quando il nonno morì, la nonna si trasferì a Cremona. Rimase solo, abitando per sette anni "in un abbaino, sotto i tetti, dove d'estate si moriva di caldo e d'inverno di gelo" perché il fratello maggiore, maestro elementare, viveva da sé. In quel periodo, pure lavorando nel magazzino dei filati, continuò lo studio della lingua francese e iniziò anche quello delle lingue tedesca ed inglese frequentando una scuola serale "dove ero accolto gratuitamente per simpatia del titolare alla memoria del povero nonno”.

  Sfuggito al servizio militare avendo estratto un alto numero di leva, si dedicò alla conoscenza degli ambienti e dei personaggi impegnati nelle questioni sociali e politiche, venendo a contatto anche con la “Lega Promotrice degli Interessi Femminili” e con la sua presidentessa, ”una nobile e gentile signora, Donna Anna Maria Mozzoni, che mi impegnò in un grande lavoro di osservazione, di studio e di azione. Questa mia attività (...) ebbe anche il prezioso risultato di svelarmi gli abissi di miseria del proletariato di città e di campagna. Ricordo che per parecchi anni vissi come ossessionato dalle scoperte che andavo facendo: tutte le domeniche invece di andare a spasso in cerca di divertimento, approfittavo dell'orario di entrata libera nell'Ospedale Maggiore per girare in quelle corsie dolenti, fra quei letti dove la poveraglia manda i suoi malati e i suoi moribondi e poi scappavo nel mio abbaino a meditare, a imprecare, a piangere di rabbia e di impotenza di fronte a tanti spettacoli di dolore e di miseria".  Fu cooptato nel comitato esecutivo della Lega, composto dalla Mozzoni, da Paolina Schiff e da due operaie, in cui ebbe l’incarico del coordinamento con le società operaie: di ciò non fa cenno nell’autobiografia, e sorprende la rimozione di questo aspetto della sua vita politica, così come il fatto che non menzioni l'adesione della Lega al P.O.I nel 1888. [5]

    Intanto progrediva nella carriera commerciale. "Il mio salario mensile da 30 lire era salito a 50, poi a 90, poi a 100, ciò che era allora una ricchezza, tanto che mi decisi a far venire a Milano i miei tre piccoli fratelli, ai quali mio padre non voleva più provvedere. Alloggiai i due maschi come novizi in botteghe di salumieri, e la sorella in una buona famiglia di onesti proletari, pagando le relative quote di pensione e di noviziato. Io vivevo spendendo meno di 60 lire al mese mangiando nelle modeste trattorie dei sobborghi.”

   Dopo qualche anno fece venire a Milano tutta la fami­glia, padre, madre e nonna, che andarono ad abitare in un piano terreno di via Lanzone. "Ricostituimmo così alla meglio un po' di vita domestica : io rimasi sempre nell'abbaino di via Santa Marta, dove coi libri che mi procurava l'amico Dalbesio andavo perfezionando le mie cognizioni politiche".

In quel periodo di tempo il fratello gli propose di aiutarlo a stampare manualetti razionali di istruzione infantile. "Comperammo a credito un vecchio torchio, due o tre quintali di caratteri e nella casa di via Lanzone ci mettemmo ad imparare l'arte tipografica."

Intanto era venuto a morire il signor De Giorgi, e il suo magazzino passò in eredità a suo genero, che lo fece diventare il suo alter ego: "cassiere, procuratore, viaggiatore con uno stipendio di 150 lire mensili. Ma anche il relativo benessere che così potevo procurarmi, non valse a farmi cambiare il regime di vita, di studio e di pensiero (...) La grande energia muscolare, che nel passato mi aveva permesso di andare a piedi, d'estate e d'inverno, da Milano a Cremona, per trovare i miei parenti, non bastava più a soddisfare gli impegni che man mano si moltiplicavano nella mia vita e perciò, allo scopo di accelerare i miei movimenti, pensai di adottare l'uso del velocipede. Oltre a girare la Lombardia in lungo e in largo, percorsi così per la prima volta l'Emilia, la Toscana, la Liguria, sempre infaticato e infaticabile."

 

Il "Circolo operaio". Eliseo Reclus

Proseguendo nell’esplorazione degli ambienti politici, si iscrisse al Circolo Operaio che era stato allora istituito nei locali del democratico Consolato Operaio, per avere occasione di scambiare "parole ed idee cogli uomini e con le donne, vecchi e giovani, specialmente repubblicani, anzi mazziniani, che allora popolavano quei locali. Quante conoscenze vi feci allora di ardenti giovinetti che poi, dopo cinquant'anni, ritrovai in parlamento deputati e anche ministri del re !"

Iniziò a concorrere all'opera di propaganda con un discorso intorno alla “Emancipazione della donna”: "ricordo che davanti a quel ristretto uditorio non ebbi il coraggio di alzare gli occhi dai fogli sui quali leggevo il mio discorso. Quel primo saggio però valse a farmi rompere la crosta dell'abitudine, e da allora in poi, in piccolo o in grande, mi abituai a discutere pubblicamente e a sostenere le mie opinioni.”

Frattanto, con le elezioni del 1882, entrava in vigore la legge promulgata dal governo Depretis che allargava il diritto di voto politico.  Il campo politico era conteso a Milano tra i costituzionali e i democratici, che col giornale II Secolo esercitavano la loro influenza sul Consolato Operaio, una federazione di società di mutuo soccorso patrocinate dai democratici.

I democratici del Secolo lanciarono la candidatura operaia di Antonio Maffi, un fonditore di caratteri, e lo fecero parlare in un grande comizio popolare tenuto nel Teatro della Canobbiana per esporre il programma degli operai democratici. "Vi accorremmo tutti: egli esordì con queste precise parole : « Guerra alla guerra fra il capitale e il lavoro ! ». Fu per noi una grande delusione, perché noi credevamo nella esistenza della questione sociale e nella necessità della sua soluzione.” Il giornale La Plebe, che Enrico Bignami pubblicava a Lodi, diventò allora il loro portavoce permettendo di allargare la cerchia delle conoscenze e quindi la sfera d' influenza.

Nelle elezioni politiche di quell'anno 1882 era diventato primo deputato socialista Andrea Costa: la sua nomina aveva destato infiniti commenti fra i giovani del Circolo Operaio. Specialmente gli anarchici avevano criticato l'entrata di Andrea Costa in parlamento e fra i giovani si era sollevata una accanita discussione, alla quale "anche io presi parte senza avere però in proposito una opinione precisa e sicura. Allo scopo di orientarmi definitivamente nell'indirizzo da seguire, decisi di approfittare della buona stagione estiva, per andare ad informarmi personalmente presso il grande geografo Eliseo Reclus che abitava a Clarens sul lago di Ginevra e che in nome dell'anarchia conduceva una violentissima campagna contro Andrea Costa deputato. A cavallo del mio velocipede, attraversai le Alpi, passando per il San Gottardo, percorsi in tutta la sua lunghezza il cantone Vallese, passai da Losanna ed arrivai a Clarens dove fui accolto ed ospitato con grande cordialità. Per una giornata intera, restai nello studio di quel grande scienziato a discutere con lui e con altri suoi amici intorno alla situazione politica italiana. Venuta la sera, mi accomiatai dicendogli: «Se la vita del mondo fosse tutta racchiusa in questa bella villetta sulle rive del lago, coperta di rose, ridente di luce di azzurro e di verde, le vaste teorie politiche potrebbero avere ragioni ma essa si svolge nei grandi centri di popolazione, dove si fatica e soffre nelle tribolazioni e nella miseria ed io vado là per aiutare fraternamente il lavoro pratico, preparatore dell'ideale futuro”.

 

 Il primo arresto. Il Fascio operaio e la Lega Figli del lavoro                                                                  

Il 20 dicembre 1882 era stato impiccato a Trieste  Gugliemo Oberdan e i repubblicani avevano chiesto al Circolo  Operaio di partecipare a una manifestazione di protesta.nel giorno di Natale in piazza del Duomo. "Io vi avevo aderito più reagire contro la barbarie della pena di morte, che per adesione al programma irredentista della dimostrazione (...) fui caricato dai carabinieri, afferrato da cento mani, schiacciato contro un muro (...) e finalmente arrestato, ammanettato e condotto nelle prigioni della Questura. Mio fratello che aveva assistito alla scena ed era accorso per vedere cosa mi facevano, venne pure arrestato e così ci trovammo in undici giovinetti chiusi in quelle orribili e vergognose prigioni di S. Fedele, dove passammo una notte di insonnia e di disgusto. Il giorno seguente fummo condotti nel Carcere Cellulare e dopo pochi giorni giudicati per direttissima. Io venni assolto  [ma] messo di fronte al dilemma: o abbandonare la vita commerciale o abbandonare la vita politica, ben inteso col diritto alla più ampia libertà del mio pensiero !"

Al padrone della ditta era insopportabile l'idea di avere per procuratore uno che era stato in prigione e poteva tornarvi: così nel 1883 fu licenziato pur avendo sulle spalle il carico della famiglia paterna e la vita della vecchia nonna "allora, a venticinque anni, mi sentivo una forza di salute e una tale baldanza di avvenire, che mi sentivo di affrontare e di vincere qualsiasi difficoltà. Però in quel tempo io non avevo ancora una precisa direttiva politica. Leggevo avidamente libri, opuscoli, specialmente di autori francesi e russi che trattavano della questione sociale, Guesde, Malon, Lafargue, Deville, Bakunin, Kropotkin, Herzen”

Frattanto aveva abbandonato l'abbaino di via S. Marta per andare ad  abitare in un pianterreno, dove aveva collocato una piccola macchina tipografica a pedale "Cogli amici del Circolo Operaio ci accordammo per iniziare un lavoro di propaganda operaia indipendente, che l'elemento democratico dominante cercava in ogni modo di ostacolare. A tal fine avevamo trovato un vecchio magazzeno e vi tenemmo le prime riunioni, finché il 29 luglio 1883 iniziammo la pubblicazione del settimanale II Fascio operaio, voce dei Figli del Lavoro che continuò la sua vita per tutto l'inverno del 1883”

Il gruppo del Fascio operaio lo incaricò di presentare alle elezioni amministrative del novembre di quell'anno il punto di vista dal quale la classe operaia doveva parteciparvi in un comizio che si tenne al Teatro Castelli.   Fu il suo primo discorso davanti al grande pubblico.

Nel febbraio del 1884 fu costituita una prima Lega dei Figli del Lavoro, la quale aveva un programma di propaganda per il miglioramento delle condizioni materiali e morali dei lavoratori mediante la resistenza (come allora venivano chiamati gli scioperi) e la solidarietà, e che divenne un centro per la formazione di una corrente operaia indipendente ed autonoma dai partiti politici.

In quel tempo il ministro Domenico Berti, di fronte allo sviluppo della propaganda operaia e socialista, aveva tentato di portare all'approvazione del Parlamento un blocco di leggi sociali destinate a demandare ad organi dello Stato la tutela delle condizioni di vita più elementari dei lavoratori. Fu un'occasione per proclamare ed affermare il principio dell'autonomia e indipendenza del movimento operaio, ed infatti, il 27 gennaio 1884, “in una giornata freddissima, nel teatro scoperto della Commenda si tenne un comizio su quell'importante argomento. (…) e mentre cadeva un lento nevischio che faceva aprire gli ombrelli a chi era in platea, la discussione si svolse intrepidamente per diverse ore, concludendo con un ordine del giorno nel quale era detto che «non riconoscendo in qualsiasi organizzazione politica né la capacità, né la competenza di dettar leggi favorevoli ai lavoratori, si respingeva ogni ingerenza governativa nelle questioni operaie e si reclamava la più assoluta libertà nei rapporti fra capitale e lavoro" 

Era una tendenza che non si rifaceva a opzioni teoriche , ma alla collocazione di classe degli individui e dei gruppi sociali e che puntava non alla conquista di uno spazio politico in senso tradizionale, ma allo spostamento sul terreno della lotta di classe di strati sempre più consistenti di lavoratori organizzati. Le proposte operaiste erano infatti semplici ed al tempo stesso di grande impatto: portare le Società Operaie ad adottare il principio della resistenza (in alternativa od accanto al tradizionale mutualismo) ed agitare il principio (rivolto contro ogni concezione elitaria, foss'anche di estrema sinistra, della politica) che "l'emancipazione degli operai dev'essere opera degli operai medesimi" .

Questi propositi erano il frutto delle discussioni che si facevano quando “ci riunivamo settimanalmente intorno al Dr. Gnocchi-Viani per intenderci sulla formazione del numero del giornale che si doveva pubblicare. Egli era la nostra guida e il nostro consigliere”

La Lega organizzava anche gite di propaganda nei centri vicini, a Monza, Busto, Gallarate, Varese, Como, inizialmente ritrovi con amici, conoscenti o parenti in cui avvenivano scambi di idee e si allacciavano rapporti. Il giornale serviva da mezzo di comunicazione e da bandiera di raccolta, ma il ricavato dalle vendite non era sufficiente a coprire le spese e nell'aprile del 1884 fu costretto a sospendere la pubblicazione.

Dopo aver perso il posto nell'azienda commerciale si era sforzato di sviluppare il lavoro indipendente della sua piccola tipografia: aveva iniziato diverse pubblicazioni di carattere politico, anticlericale e sociale, opuscoli clandestini, stampati di notte, ma tutto ciò non bastava per vivere. Occorreva darle un’impronta commerciale, ma proprio in quel tempo vennero introdotte nuove macchine tipografiche che misero  fuori mercato la sua piccola azienda. Nell'impossibilità di lottare contro questa concorrenza, abbandonò il lavoro indipendente ed entrò come compositore in diverse tipografie.

 

L’incontro con Bertani e l'inchiesta agraria

Si manifestarono i primi sintomi di intossicazione da antimonio per le emanazioni tipografiche, tanto che Anna Maria Mozzoni che “aveva per me una vera sollecitudine materna”, lo presentò al suo amico Agostino Bertani, deputato radicale nonché medico, perché si facesse visitare “Dopo avermi esaminato attentamente, egli mi impose di abbandonare subito l'arte tipografica.«Come farò a vivere, professore?» gli disse «Ho anche la famiglia da mantenere insieme a mio fratello e non posso restare inoperoso».«Vieni con me» gli rispose Bertani. «Sto appunto cercando un segretario per l'inchiesta dell'igiene rurale e tu puoi fare al caso mio. Ti darò 3 lire al giorno e le spese quando saremo in viaggio».Accettai e così diventai il suo segretario più fidato.”

A margine della grande Inchiesta agraria, Bertani aveva persuaso il suo vecchio amico Depretis ad iniziare, coi fondi del Ministero dell'Interno, una rapida e pratica inchiesta per  l'igiene rurale.  Andò con lui nella sua casa di Genova, poi a Roma, poi nella sua casa di campagna a Miàsino sul Lago d'Orta, poi in viaggio per l'Umbria, le Marche, in Lombardia, in Emilia e in Toscana, “e fu così che io riuscii ad acquistare una straordinaria quantità di cognizioni sociali e politiche per le quali andai sempre più consolidando la formazione della mia coscienza e della mia volontà per una azione positiva strettamente legata al grande ideale della emancipazione proletaria. È interessante questa storia dell'inchiesta per l'igiene rurale, perché si può dire che io vi feci la prima parte della mia educazione politica.”

Bertani aveva organizzata in casa sua la distribuzione di un questionario ai medici condotti dei comuni italiani, i quali avevano risposto quasi unanimi alla richiesta del loro collega e la sua casa di Genova fu piena dei questionari compilati che egli esaminava personalmente. Dove apparivano lacune o informazioni irregolari egli mandava propri incaricati per esaminare e raccogliere notizie precise. Così Lazzari ebbe allora occasione di compiere diverse gite in alcune provincie: “partivo la mattina solo, con un modesto calessino, e percorrevo villaggi, cascinali e casolari osservando, interrogando, notando e ritornavo la sera stanco morto, ma colla testa e col cuore pieno di nuove cognizioni, di impressioni e sensazioni.”

in tal modo percorse e visitò alcune zone della provincia di Milano, di Como, di Macerata e Perugia sempre in mezzo alla povera gente di campagna “dovunque egualmente legata dalla schiavitù del lavoro agricolo o da quella del lavoro industriale. Quanti quadri e quanti episodi ignorati di dolori, di sacrifici e di stenti fra quelle povere popolazioni governate e dominate dai signori, dai preti e dai carabinieri”

Durante questo periodo, che ebbe la durata di circa tre anni, per due volte si separarono a causa di divergenze politiche “Ricordo che egli mi accomiatò dicendomi queste precise parole che non ho mai più dimenticato:   «Quando ti sento parlare mi pare che tu abbia  ragione e che ormai la questione sociale sia la sola e la vera grande questione interessante per la vita e l'avvenire del popolo italiano; quando sento parlare gli altri temo che voi abbiate a far rovinare l'edificio che noi abbiamo innalzato con tanti sacrifici. In ogni modo non fidarti degli uomini della nostra generazione: noi siamo troppo compromessi col lavoro patriottico che abbiamo fatto per poter essere difensori della nostra causa e non essere nello stesso tempo sostenitori del regime di privilegio e di oppressione che voi volete combattere”

 

La Federazione Regionale Alta Italia del Partito Operaio

Nel settembre del 1884 il Fascio operaio aveva potuto riprendere le sue pubblicazioni, sorretto da 117 azionisti che versarono 5 lire l'uno; animato dal proposito di gettare le basi di un lavoro metodico per il miglioramento e l'emancipazione della classe, il gruppo del Fascio operaio, pur facendo tesoro delle esperienze della propaganda anarchica e internazionalista, decise di iniziare un'azione essenzialmente politica, ed applicando la massima fondamentale che l'emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi, stabilì di riservare l’iscrizione ai soli uomini e donne che vivessero di lavoro e di salario.Su questa base il 1° settembre 1884 cinque Società di Figli del Lavoro fondate a Milano, Gallarate, Busto, Legnano, Sacconago, senza alcuna ingerenza di elementi estranei alla classe operaria, dichiararono costituita la Federazione Regionale dell'Alta Italia del Partito Operaio Italiano.

A fianco di questa organizzazione era sorta la Lega Socialista Milanese, destinata a fornire al movimento operaio il bagaglio teorico necessario al suo sviluppo, e a proporre alla pubblica opinione il risultato dei suoi studi; facevano parte di questa una cinquantina di pubblicisti, professionisti, commercianti, industriali, studenti.

Così attrezzato, il movimento continuò la sua azione: la più grande affermazione ebbe luogo il 23 novembre 1884 durante un comizio contro le convenzioni ferroviarie con cui il governo vendeva l'esercizio del trasporto ferroviario. Tutta l'estrema sinistra parlamentare si era raccolta intorno all'ex ministro Alfredo Baccarini, il quale sosteneva l'esercizio dello Stato; la Federazione Alta Italia fece parlare Osvaldo Gnocchi-Viani, il quale “con veemente ed infiammato discorso dimostrò che la questione ferrovia non era che un aspetto della questione sociale e che soltanto l'esercizio delle ferrovie affidato ai ferrovieri organizzati poteva rispondere all’ interesse della nazione. Da allora in poi cominciò a determinarsi nelle file della democrazia e sulle colonne del “Secolo” una sorda ostilità contro la nostra organizzazione e contro la nostra propaganda”.

 

Dalla costituzione del Partito  Operaio Italiano ai Congressi di Milano e Mantova (1885)

Il 1885 fu di ancor maggiore e più intenso impegno. Lazzari era ritornato a lavorare in tipografia, per quanto sentisse che la salute non resisteva. Il Partito Operaio Italiano si estendeva: i primi sequestri e i primi processi avevano colpito il Fascio operaio, ma crescevano le file degli aderenti e il numero dei lettori.

Il 12 aprile e il 3 maggio di quell'anno si tenne a Milano il primo  Congresso del POI che in tale occasione si diede gli organi statutari. Del suo primo Comitato Centrale, che si radunava almeno una volta alla settimana, Lazzari fungeva da segretario.

Quell'anno cominciarono i sequestri del Fascio operaio, il primo per un voto di solidarietà degli operai metallurgici di Savona in favore dei contadini mantovani in sciopero. Ne seguì il 23 luglio 1885 un processo in Corte di Assise, che inflisse sette condanne.

I giorni 6-7-8 dicembre di quello stesso anno il 2. Congresso del Partito Operaio Italiano si tenne a Mantova per solidarietà coi contadini di quella provincia in sciopero generale agricolo. I capi di quell'agitazione erano stati imprigionati, ma al congresso assistevano in gran numero lavoratori agricoli venuti da ogni parte della regione, e fu questa la novità: le logge del teatro stipate di contadini e una organizzaione operaia che per la prima volta delineava un abbozzo di programma agrario.

Lo scopo di questo congresso era, oltre quello già detto, di realizzare la fusione sotto la bandiera del Partito Operaio Italiano delle organizzanioni, specie società di mutuo soccorso,  che facevano parte della Confederazione operaia lombarda, già diretta dai democratici  ma al cui congresso di Brescia del 4-5 gennaio 1885 erano prevalse le tesi operaiste sulla resistenza, cioè sullo sciopero.

Il Partito Operaio vi partecipava con 40 Sezioni e la Confederazione Lombarda vi aveva portato 60 organizzazioni. La fusione venne sanzionata aggiungendo all'art. 1° dello Statuto la seguente dichiarazione: «II Partito Operaio Italiano, estraneo ad ogni partito politico o religioso, parteciperà alle lotte della vita pubblica come classe distinta che tende alla sua emancipazione».

Il lavoro di organizzazione diventò febbrile: “si può dire che il Comitato Centrale era costretto a sedere in permanenza e i suoi membri si riunivano tutte le sere per parecchie ore, con grande disperazione delle loro donne e delle loro famiglie ormai abbandonate. Non passava domenica o festa di precetto, senza che noi ne approfittassimo per organizzare qualche gita di propaganda in provincia o fuori secondo i pochi soldi che si trovavano in cassa. Fra le altre, restò indimenticabile quella che, per iniziativa di Leonida Bissolati, io feci a Cremona il 14 febbraio 1886 ”

 

Turati  scrive l’ ”Inno dei lavoratori” per il Partito Operaio

Mentre si compiva questo lavoro organizzativo, la Lega Socialista Milanese aumentava di numero e di influenza: fra i suoi membri più attivi e più volonterosi si contavano Filippo Turati, Giuseppe De Franceschi, Osvaldo Gnocchi-Viani[6], Paolo Valera[7], Enrico Dalbesio, Enrico Bignami[8], Enrico Besana, Enrico Viscardi. Fra tutti, costituivano una specie di riserva intellettuale alla quale si poteva ricorrere nei bisogni materiali e morali del Partito.

Fu in omaggio a questa funzione che nella primavera del 1886 il Partito Operaio ottenne da Filippo Turati le parole per un inno che fosse la sintesi delle sue aspirazioni ed esprimesse musicalmente la formazione civile della sua forza organizzativa[9].

Lo pubblicò il 20 marzo di quell'anno il Fascio operaio e riuscì a farlo musicare da un maestro addetto allo stabilimento Sonzogno e “ne facemmo la prima pubblica prova in una allegra serata carnevalesca, che passammo nella modesta trattoria Tresoldi in Via Bocchetto. Ne restammo tutti commossi ed entusiasti e da allora in poi diventò il nostro ritornello di richiamo: io andai persino a zufolarlo lungo le muraglie del carcere di Casale Monferrato dove era stato rinchiuso Alfredo Casati andato colà per una delle nostre solite gite di propaganda, ed egli mi rispondeva... Questo inno doveva per la prima volta essere cantato in coro durante la inaugurazione del caratteristico stendardo che la Lega dei Figli del Lavoro di Milano aveva adottato come suo distintivo e rappresentava un giovane fabbro che guardava il sole nascente. Il ricamo era un vero capolavoro uscito dalle mani della compagna Norma De Grandi che era la moglie di Alfredo Casati.”

 

Le elezioni del 1886 e la polemica con Felice Cavallotti

Alle elezioni del 1886 il POI era deciso a presentarsi con una propria lista che i radicali temevano, non tanto perché il Partito Operaio Italiano fosse in grado di far eleggere alcuno dei suoi candidati, quanto per i molti voti che avrebbe sottratto alle loro liste. Si comprende che in quella congiuntura il governo Depretis, interessato a una sconfitta dei radicali specialmente in Lombardia, lasciasse, in quei mesi di accesa vigilia elettorale, una certa libertà d’azione al POI, che aveva sottoposto sino a poco prima a persecuzioni poliziesche.

I radicali, irritati da questa tolleranza governativa, e dall’aspra campagna che il Partito Operaio conduceva contro di loro, cominciarono ad avanzare, specialmente sul «Secolo», vaghe insinuazioni su non precisati favori e appoggi da parte del governo. Gli operaisti reagirono, e il «Fascio operaio: voce dei figli del Lavoro» giunse a parlare di «democrazia vile». Frattanto le elezioni del 2 maggio 1886 dimostravano che, nonostante il buon successo dei radicali a Milano, il Partito Operaio era riuscito a sottrarre non poche migliaia di voti alla loro lista: Lazzari ebbe 3.359 voti a Cremona, 824 ad Alessandria e 1.425 a Casale Monferrato; altre candidature furono presentate con successo a Busto Arsizio, Monza, Como, Pavia, Intra, Vercelli, Torino, Sanremo, Arezzo, Napoli. Nessuno fu eletto, ma, col ristretto suffragio allora in vigore, fu un successo. Il partito democratico che si vedeva minacciato nella sua tradizionale egemonia ed influenza sulla classe operaia, accusò gli operaisti di aver fatto il gioco del governo Depretis. Il giornale “II Secolo”, commentando il risultato delle elezioni, li denunciava apertamente come dei venduti e il deputato Felice Cavallotti lanciò l'infamante accusa al Partito Operaio di essere un prezzolato strumento del governo.

II Comitato Centrale del  POI domandò al deputato Cavallotti un colloquio personale, allo scopo di persuaderlo dell'errore in cui egli si trovava sul suo conto. II colloquio ebbe luogo il 31 maggio 1886: nella sua abitazione si recarono Lazzari, Croce e Casati e lo trovarono che li attendeva, secondo le sue abitudini duellistiche, con due testimoni. Alla esibizione dei documenti di prova della vitalità finanziaria mediante copialettere, registri e bollettari, dopo tre ore di discussione pareva, secondo Lazzari,  convinto dell’infondatezza delle sue accuse e promise che per l'indomani sarebbe stata pubblicata una dichiarazione in tal senso sul  “Secolo”;  invece nel numero del 1° giugno pubblicò una violenta e furibonda requisitoria colla quale, ricorrendo a reminiscenze classiche, ribadiva le sue accuse.

Frattanto Depretis, passato appena un mese dalle elezioni, faceva arrestare dal questore di Milano i principali dirigenti del Partito Operaio, sequestrarne le carte, sopprimere il giornale «Fascio operaio», con deferimento alla magistratura sotto l'accusa di «associazione di malfattori». Depretis, con quei severi provvedimenti, da un lato assestava un duro colpo al movimento operaio del Nord, e dall'altro, alla vigilia della sua interpellanza, metteva in imbarazzo Cavallotti.

All'ultima requisitoria del “Secolo” decise la pubblicazione di un numero del “Fascio operaio” dedicato alla difesa delle proprie ragioni “Per preparare questo numero straordinario avevo vegliato tutta la notte e spuntava l'alba del 23 giugno. Avevo spento la lucerna a petrolio — allora non c’era la luce elettrica e il gas era un lusso — quando irruppero nella mia povera abitazione un delegato di questura con tanto di sciarpa a tracolla seguito da questurini e da carabinieri. Fui dichiarato in arresto: si fece un gran fascio di tutte le mie carte e bene ammanettato fui condotto, in mezzo alla squadra, nella questura centrale di S. Fedele.

Colà trovai già in stato d'arresto gli altri membri del nostro Comitato Centrale: il questore ci lesse con voce imperatoria un bel decreto del Prefetto col quale veniva dichiarato sciolto e proibito il Partito Operaio Italiano. Col solito carrozzone fummo condotti e rinchiusi nel carcere cellulare sotto la duplice accusa di cospirazione e di associazione di malfattori.”

L'istruttoria durò tre mesi, ma finalmente una ordinanza della Sezione di accusa accordava la libertà provvisoria e rinviava al giudizio della Corte d'Assise.

L’ostilità per Cavallotti ebbe strascichi che si manifestarono anche anni dopo questo episodio: il deputato radicale, che si presentava come candidato nelle elezioni del 1888,  aveva convocato un comizio il 23 maggio.

 Gli “operaisti” vi andarono col proposito di far conoscere le ragioni della astensione e siccome venne negato loro il diritto di replica “sollevammo un tal coro di proteste e di fischi che il comizio diventò ben presto un campo di battaglia contro di noi. Noi fummo scacciati dal locale tutti pesti e sanguinolenti, ma l'adunanza andò a monte e del grande comizio democratico non rimase che un mucchio di vetri infranti, di sedie rotte e di tavoli capovolti” . Quasi quarant’anni dopo così commentava il Lazzari “Da allora in. poi Cavallotti, che era stato l'esponente di tutte le calunnie e le diffamazioni che ci avevano colpito, non riuscì più a diventare deputato di Milano”!

Vi è in queste affermazioni una rimozione perchè numerose furono in seguito i  momenti di convergenza che lo videro personalmente impegnato insieme ai radicali, come il    Comizio internazionale per i diritti del lavoro dell'aprile 1991 e la Lega per la difesa della libertà fondata nel 1995; da notare, a questo proposito, che i 3.359 voti di Cremona nel 1886,  furono ottenuti grazie all'appoggio dei radicali locali.

 

Ripresa dell'attività del Partito Operaio. Il congresso di Pavia (1887)   

La Lega socialista in questa polemica era scesa in campo in difesa del POI con una «Dichiarazione d'onore» che li rendeva solidali con la loro lotta in favore del­la classe operaia  e avevano manifestato il loro appoggio morale e materiale, per cui il 16 ottobre 1886 ricomparve il Fascio operaio, privato del sottotitolo di organo del Partito Operaio Italiano

Le organizzazioni erano state sciolte con decreto prefettizio, ma ben presto furono riannodati i rapporti valendosi del giornale, il quale non era contemplato nel decreto di soppressione del Partito.

Fu fissato il recapito del giornale presso una Società Operaia che aveva la sede in corso Ticinese, ma la sorveglianza della polizia obbligò a cercare un altro locale “e lo trovammo in una lurida cameraccia di una vecchia casa, nell'ora scomparso vicolo di S. Marcellino, tetro ricovero di malviventi e di prostitute presso il Ponte Vetero. Là, nel freddo e nell'umido, ci riunivamo su quattro sedie e su quattro panche per discutere le nostre questioni e spedire il giornale.”

L'atteso processo ebbe luogo nella Corte di Assise nei giorni dal 18 al 31 gennaio 1887. Erano sei imputati e le imputazioni che li avevano colpiti, di eccitamento all'odio, al saccheggio, alla strage, vennero sostenute dal Procuratore Generale. Però i giurati ridussero tutte quelle imputazioni al semplice reato di istigazione allo sciopero e quindi furono condannati: Alfredo Casati a 9 mesi, Giuseppe Croce e Costantino Lazzari a 3 mesi, altri a 3 e 2 mesi, più alcune migliaia di lire e le solite spese processuali. La sentenza venne letta in mezzo ad una folla enorme che aveva seguito con passione le varie fasi del lungo dibattimento e venne da salutata col grido di : « Evviva il Partito Operaio Italiano »

Però il sistema di adesione collettiva mise ben presto di fronte a insuperabili difficoltà: individualmente arrivavano consensi e simpatie (erano di quel tempo le manifestazioni favorevoli di uomini delle alte classi come Simone Weill-Schott, Prospero Moisé Loria e altri), ma nes­suno si sentiva di mettere le sorti e gli interessi collettivi delle organiz­zazioni operaie in. balia e sotto i colpi delle persecuzioni che il decre­to prefettizio di scioglimento poteva sempre autorizzare. Per queste considerazioni fu deciso di trasportare il centro del movimento fuori della provincia di Milano e a tal scopo fu indetto un Congresso generale a Pavia nei giorni 18-19 settembre 1887.

“Ero ritornato in prigione per scontare il resto della pena che mi era toccata e dopo una quindicina di giorni avevo ripreso il mio tenore di vita ma, nemmeno ingegnandomi col mio materiale tipografico, un lavoro stabile e serio non riuscii a trovarlo più. Ero scoraggiato e preoccupato per i bisogni della famiglia e malandato di salute fisica e morale; pensai di rivolgermi agli amici che mi volevano bene. Bissolati di Cremona mi mandò 500 lire — allora erano un capitale — e De Franceschi mi offrì un posto come contabile nel suo ufficio di ingegneria con uno stipendio di 90 lire al mese, lasciandomi naturalmente piena libertà di dedicarmi alla propaganda militante dopo il normale orario del suo ufficio. Quindi ripresi poco a poco la mia attività in compagnia dei vecchi amici ed accettai di partecipare al nuovo congresso. In causa della grave penuria di danaro che era generale fra di noi delegati di Milano, decidemmo di andare a Pavia a piedi viaggiando per buona parte della notte".

Il Congresso dopo due giorni di discussione si concluse con l'approvazione del programma. Le disposizioni statutarie erano distribuite in 28 articoli e la sede del Comitato Centrale venne fissata in Alessandria dove le organizzazioni avevano meglio resistito alla bufera della repressione e dove vi era un saldo nucleo.

 Il giornale continuò a pubblicarsi in Milano con varia fortuna presso una Società Operaia Mutua ed Istruttiva alla quale si erano iscritti i vecchi compagni della disciolta Lega dei Figli del Lavoro, ed era il centro da cui irradiavano le agitazioni della classe operaia milanese.

 

La vita privata

In quel frattempo, nelle diverse riunioni di operai e di operaie che andavamo facendo, io avevo notato la presenza di una giovane cucitrice in guanti, certa Giuseppina Manzoli la quale prendeva sovente la parola per esporre in modo semplice e suggestivo le dure condizioni di vita e di lavoro della sua categoria. Era una giovane pallida, di alta statura, di carattere serio, e ben presto fra noi si stabilì una viva corrente di simpatia. Apparteneva ad una famiglia di poveri proletari: il padre, venuto dalla campagna, era un abile e robusto fuochista presso la Società del Gas (...) la Giuseppina aveva cominciato come pulitrice in una fonderia di caratteri e poi era andata in una fabbrica di guanti come cucitrice: il suo lavoro era una specialità ricercata per cui guadagnava bene  (...). In quel povero ambiente che io frequentavo, la nostra simpatia diventò ben presto una relazione, ma la povera Giuseppina che da anni ed anni lavorava a macchina aveva contratto una grave malattia negli organi interni per cui, da me consigliata, venne operata all'Ospedale Maggiore dal Prof. Luigi Mangiagalli, al quale l'avevo raccomandata a mezzo dell'amico De Franceschi.

    Nella primavera del 1889 uscì guarita dall'ospedale e decise di sposarla civilmente con la "fiducia che colla sua compagnia la mia esistenza avrebbe avuto un ritmo più regolare e più razionale. È stato questo uno dei miei più gravi errori; per quanto essa condividesse pienamente le mie idee e il mio ardore politico, la sua femminilità era stata infranta e la nostra casa restò una povera casa deserta e sterile senza il sorriso né la gioia dei bambini, mentre io avevo così vivo e forte l'istinto paterno! Anche per questa ragione la passione esuberante della mia vita si concentrò tutta nell'attività politica alla quale io dedicavo tutti i ritagli di tempo, di giorno e di notte, che mi restavano disponibili.”

    Qualche anno dopo “l'amico dott. Viscardi andato in rotta con sua moglie, mi propose, dal momento che io amavo tanto i bambini, di allevare i suoi due figliuoli, Bruno di 6 e Mario di 3 anni. Accettai con entusiasmo e da allora in poi la nostra casa con la presenza e colle cure per quei due cari ragazzini fu un vero teatro di festa e di gioia!” Tanto era forte il suo istinto paterno, che nel 1915 adottò Caterina Devoti, una bambina rimasta orfana in occasione del terremoto della Marsica del 13 gennaio, che gli tenne compagnia negli ultimi anni e cui fece intraprendere gli studi magistrali

 

I Congressi di Bologna (1889) e Milano (1890) del POI

   Per sviluppare l’organizzazione del Partito venne convocato il quarto Congresso a Bologna nei giorni 8, 9 e 10 settembre 1889; in esso venne elaborato, discusso ed approvato, pur tra contrasti, il programma comunale che il Partito avrebbe adottato per la sua partecipazione alle prossime elezioni generali amministrative.

   L'autorità ogni tanto, con qualche sequestro del giornale o con qualche perquisizione domiciliare, veniva ad interrompere il lavoro organizzativo. Nella notte del 22 maggio 1889, mentre era stata appena trasportato la sede del giornale in Piazza Vetra e arrivavano dalla provincia notizie che i contadini in sciopero si ribellavano ai carabinieri, “venimmo tutti arrestati nelle nostre case e rinchiusi nel carcere cellulare. Dopo un mese di prigione, senza la notifica di alcuna accusa, fummo rimessi in libertà e riprendemmo il nostro lavoro, ma eravamo tanto stremati di forze e tanto minacciati dalle continue persecuzioni che, dopo alcuni mesi, fummo costretti ad abbandonare anche la pubblicazione del giornale” e infatti il 16 novembre 1889 uscì in Milano l'ultimo numero del Fascio operaio.

    Ma i compagni di Alessandria il 16 maggio 1890 intrapresero essi stessi la pubblicazione del Fascio operaio, specialmente allo scopo di organizzare il quinto congresso del Partito che ebbe luogo a Milano nei giorni 1 e 2 novembre 1890.

In questo Congresso si fece una revisione della situazione, la quale aveva assunto una speciale importanza dopo la celebrazione del 1° maggio, che si era fatta in Italia per la prima volta quell'anno e che era stata accolta dalla classe lavoratrice col più grande favore. Nel Congresso di Milano Lazzari è relatore del quinto punto all’OdG, quello sulle coooperative.

 Né si trascurava la partecipazione alla vita internazionale della classe lavoratrice: “nel novembre 1888 io ero andato come rappresentante italiano al Congresso Mondiale delle Trade Unions tenutosi a St. Andrew Hall di Londra (il Comitato Centrale di Alessandria non aveva potuto raccogliere a questo scopo più di L. 278, ma io in nove giorni di viaggio e permanenza che passai dormendo su una poltrona in casa di Paolo Valera, risparmiai ancora 50 lire)” e nel luglio 1889 Giuseppe Croce era andato a Parigi per rappre­sentare il POI al Congresso di fondazione dell’Internazionale Socialista.

 II 12 aprile 1891 a Milano si tenne un "Comizio internazionale per i diritti del lavoro". Di fronte a una platea di oltre mille persone presero la parola i più noti esponenti dei gruppi di estrema sinistra (dai radicali agli anarchici) e portarono il loro saluto alcuni rappresentanti di movimenti socialisti europei, mentre Filippo Turati lesse un messaggio inviato da Wilhelm Liebknecht.

L'iniziativa era stata promossa nel mese di marzo da un grup­po di cinquantasette associazioni popolari milanesi, tutte di area radical-democratica, e da un comitato nazionale del quale facevano parte i maggiori esponenti dell'Estrema Sinistra: Rosa, Bovio, Cavallotti, Maffi, Colajanni, ma anche Andrea Costa, Gregorio Agnini e Antonio Labriola.

Segno questo che si andava ricomponendo il conflitto tra operaisti   e radicali divampato cinque anni prima  in occasione della denuncia di Cavallotti, che abbiamo visto Lazzari enfatizzare e presentare come definitivo

Per il comizio fu anche preparato un "numero unico” che si intitolava “/ diritti del lavoro” e conteneva alcuni messaggi augurali (di Engels e altri) e brevi scritti di agitazione, tra i quali quelli di Antonio Labriola, di Costantino Lazzari (Gli scioperi), di Filippo Turati e di Anna Maria Mozzoni

 . Ma persistevano divisioni culturali e ideologiche, che emer­gevano con particolare evidenza ogni qual volta si discutesse di legislazione sociale, di leggi di protezione del lavoro, di rapporto tra movimento operaio e Stato, poiché su questo terreno i diversi gruppi continuavano a mantenere le proprie posizioni, e ciononostante a lavorare fianco a fian­co, a comparire nelle stesse manifestazioni, a disputarsi lo stesso spazio politico.

 Infine nel giugno del 1891, in occasione delle elezioni amministrative milanesi, si arrivò a un accordo politico e alla formazione di un blocco tra radicali, operaisti, Lega socialista e mazziniani

 

La fondazione del Partito socialista a   Genova (1892)

    Profittando delle agevolazioni ferroviarie previste in occasione del centenario di Colombo, venne convocato a Genova nei giorni 14 e 15 agosto 1892 un congresso al quale parteciparono tutti gli elementi che si interessavano delle questioni operaie. Il POI, entrato in una fase di crisi, vi prese parte insieme alla Lega  socialista milanese che era rappresentata da Filippo Turati e Anna Kuliscioff, e la caotica discussione cominciata nella Sala Sivori si concluse con una netta separazione fra i militanti anarchici che rimasero legati alle loro teorie, e gli altri che volevano mettersi sul terreno della lotta di classe. Per poter fare liberamente ciò, dopo una intera giornata di furibonde discussioni procedurali, prima per la nomina della Presidenza e poi per l'ordine dei lavori, si radunarono separatamente i rappresentanti di 150 associazioni, i quali dopo aver votato la seguente mozione: «I sottoscritti rappresentanti di associazioni intervenute al Congresso del Partito dei Lavoratori Italiani invitano tutti gli altri congressisti che accettano la lotta elettorale come uno dei mezzi per la conquista dei pubblici poteri, alla riunione che si terrà oggi lunedì nella sala della Società Carabinieri Genovesi“, iniziarono la discussione ed approvazione dello Statuto, che si componeva di soli 5 articoli; venne deliberato che l'organo del Partito sarebbe stato il giornale Lotta di classe che i socialisti milanesi avevano cominciato a pubblicare ogni settimana. Il Comitato centrale venne nominato nelle persone di Antonio Maffi, Costantino Lazzari, Angela Feria, Giuseppe Croce, Enrico Bertini, Carlo Dell'Avalle, Luigi Fossati e Camillo Prampolini venne designato a dirigere il giornale.

   Oltre agli impegni politici, che assorbivano le ore serali e le giornate domenicali, Lazzari continuava la sua funzione contabile presso l'ingegner De Franceschi, che aveva sviluppato la sua azienda: il suo studio si era trasformato in una officina meccanica e anche il suo stipendio era salito a 150 lire mensili. "Ciò mi aveva permesso di passare da quell'umile stanzetta che occupavo con mia moglie nella casa di corso Genova 17, in un appartamentino di due camere, per ammobiliare le quali l'amico Della Torre Luigi, che avevo allora conosciuto, mi aveva prestato 300 lire. (...) Ma un bel giorno l'ing. De Franceschi credette di dover procedere a certi cambiamenti nell'andamento dell'amministrazione che io non credevo fossero, dopo cinque anni di fiducia, conciliabili colla mia dignità: di più, per aver prestato in suo nome 10 lire all'amico Majocchi che era appena uscito di prigione, e per aver lasciato rompere in officina una macchina di cui mi aveva affidato il carico, mi aveva imposto il rimborso di quelle ed una multa di 20 lire per questa"

 

Trasferimento a Busto Arsizio

    Licenziatosi, andò a Busto Arsizio come impiegato amministrativo presso la ditta di Enrico Castiglioni, anche per fare compagnia alla sorella Bice che là era diventata maestra comunale. Anche la nomina della sorella a quel posto di Busto ebbe le sue contrarietà politiche. Essa aveva cominciato la sua carriera a Musocco nella scuola femminile "con 102 bambine e con 42 lire mensili di stipendio" poi, caduta ammalata di petto, aveva dovuto sospendere le fatiche dell'insegnamento. Si era iscritta presso il Provveditorato di Milano, ma i mesi passavano inutilmente perche il Provveditore era fratello del deputato radicale Scipione Ronchetti, che credeva di dare così prova di amicizia   al suo collega Cavallotti.

Avvisata dagli amici che a Busto Arsizio vi era vacante un posto, essa si affrettò a concorrere, ma non l'avrebbe ottenuto se non era per l'appoggio del Soprintendente scolastico, perchè in Consiglio comunale era sorto il radicale Travelli ad opporsi alla sua nomina.A Busto Arsizio rimase un paio di anni sempre impiegato presso la ditta Castiglioni con uno stipendio mensile di 120 lire. “Furono forse gli anni più belli della mia vita coniugale, passati in compagnia dei figliuoli Viscardi e di mia sorella, circondati dall'amore degli amici e dalla simpatia di tutta la popolazione”

In mezzo a quella folta massa di operai e di operaie, andò sviluppando l'organizzazione del Circolo Operaio di M. S. e quella di una Cooperativa di Consumo. L'esempio di quanto si faceva a Busto Arsizio destava una gara in tutti i paesi del circondario e dapper­tutto sorgevano iniziative di organizzazione e di propaganda sia fra i lavoratori dell'industria che fra i contadini. Nondimeno coi compagni di Milano aveva mantenuto le più amichevoli relazioni: “sovente, nelle lunghe serate invernali, ci trovavamo a passeggiare in Galleria”

 

Nascita della Camera del Lavoro e della Società Umanitaria

    Nelle elezioni generali amministrative del 1889 i pochi socialisti ed operai che avevano potuto entrare nelle Amministrazioni comunali e provinciali vi avevano portato l'eco dei bisogni specifici delle classi lavoratrici che per il passato non erano mai stati considerati e fu cosi che il Comune di Milano nel 1891, dietro proposta di Gnocchi-Viani, deliberò di concorrere per l'organizzazione del mercato del lavoro cittadino, concedendo alcuni locali disponibili nel Castello che era stato abbandonato dall'autorità militare e diecimila lire di sussidio annuo. Si formò cosi il primo nucleo di quella forma di Camere del Lavoro che dovevano poi diffondersi in tutta Italia e rappresentare le forze locali della classe lavoratrice, sia industriale che agricola. “Noi, vecchi avanzi del Partito Operaio, ci radunavamo si può dire ogni sera colle nostre famiglie in quei locali del Castello, per discutere intorno al miglior modo di dare fondamento stabile e sicuro alla nuova istituzione", che ebbe ufficialmente inizio nell'ottobre del 1891 con una memorabile riunione a cui presero parte i rappresentanti e i membri delle varie arti e mestieri

   A queste iniziative venne presto ad aggiungersi una nuova istituzione dovuta alla genialità utopistica di un singolare personaggio: Prospero Moisé Loria, israelita ed ex-banchiere, il quale viveva sdegnoso e solitario in una bellissima casa di via Alessandro Manzoni. "Una volta sola ebbi occasione di parlargli per domandargli aiuto in un frangente di sciopero disperato e ricordo che, timoroso e sospettoso, mi ricevette in cortile e mi diede un biglietto da 250 lire scongiurandomi di non farlo sapere a nessuno. Poi, passeggiando nell'atrio della sua casa, mi confidava che la sua  idea era quella di intervenire a favore degli operai milanesi mediante la fondazione di una grossa istituzione cooperativa agricola, che valesse a frenare l'esodo urbano dei contadini il cui affollamento nella città per trovare qualche lavoro industriale faceva ribassare i salari e produceva la crisi della disoccupazione. «Vedi - mi diceva- io ci metto 5 milioni, Weill-Schott ce ne mette 1, De Asarta 1 e cosi facciamo una grande azienda di campagna per trattenere i contadini nel lavoro agricolo... Questa sarebbe l'impresa alla quale dovreste dedicarvi anche voi e non  la  lotta che sostenete! .«Sta bene - rispondevo io - voi altri che avete i mezzi finanziari fate pure i vostri tentativi. Noi che siamo spinti dal bisogno, abbiamo un obbiettivo di miglioramento immediato; lavorare di meno (la giornata di otto ore rimedia alla disoccupazione) e guadagnare di più e questo rimedia alla miseria. Aiutateci a sostenere questa lotta, noi ci mettiamo il fastidio e il pericolo...».«Ma se si sapesse, se si sapesse! Cosa si direbbe contro di noi?». «Non si saprà nulla»; ma più di quel biglietto da 250 lire non riuscii a strappargli.”

  Nel novembre 1892 Prospero Moisé Loria morì e lasciò per testamento tutto il suo patrimonio liquido, circa 13 milioni, per fondare la Società Umanitaria collo scopo di «fornire ai diseredati i mezzi per elevarsi da sé». L'esempio della Camera del Lavoro di Milano venne ben presto seguito ed imitato a Firenze, a Genova, a Torino, a Venezia, a Parma, a Bologna, ecc. e una nuova rete di interessi e di rapporti collettivi della classe lavoratrice veniva a stendersi da un capo all'altro della nazione.

 

 Amministratore  della “Lotta   di classe”

   Col concorso di cosi favorevoli circostanze i socialisti di Milano, allo scopo di orientare lo sviluppo del movimento proletario, avevano iniziato nel luglio 1892 la pubblicazione di un settimanale col titolo Lotta di classe, mediante la formazione di una società di azionisti, i quali si impegnavano al pagamento di almeno un'azione di L. 250. A dirigere il giornale era stato chiamato da Torino il giovane avvocato Claudio Treves, abile e coraggioso polemista, al quale era affidato l'incarico anche della compilazione e redazione.Si trattava dunque di un organo squisitamente politico destinato a dare e mantenere alla organizzazione una rigorosa unità di indirizzo, consolidandovi le aspirazioni socialiste  Il successo fu rapidissimo, tanto che si rese presto necessario il lavoro continuo e quotidiano di un impiegato amministrativo e contabile per secondare lo sviluppo dell'azienda. "Si misero gli occhi sopra di me e l'ing. De Franceschi cominciò a farmene la proposta mostrandomi i diversi aspetti convenienti materialmente o moralmente per me. Mi schermii per qualche tempo (...) ma la sua insistenza fu tanta, l'impegno scritto che egli si prese di farmi assegnare uno stipendio di almeno 200 lire al mese era cosi serio, che io finii per arrendermi ed in principio del 1893 ritornai a Milano, andando ad abitare colla moglie e coi figli di Viscardi"

Col suo lavoro regolare e continuo l'azienda giornalistica acquistò subito un carattere di serietà e di solidità fino allora sconosciuto. Però il Consiglio d'Ammini­strazione, viste le forti passività del primo bilancio, trovò opportuno ridurre il suo stipendio a sole 150 lire mensili e "questa fu una mia prima delusione. Protestai tanto che in seguito il mio povero stipendio venne portato a 175 lire mensili".

 

L'adesione di De Amicis al Partito socialista

    Fu in questo frattempo che ebbe occasione di entrare in rapporti personali con Edmondo De Amicis, "le cui simpatie per le idealità socialiste io riuscii a convertire in una vera e propria adesione politica." Già attratto e sedotto dallo stile e dallo spirito degli articoli di Filippo Turati che comparivano sulla Critica sociale, De Amicis aveva domandato di sottoscrivere una azione della Cooperativa Lotta di classe. Come amministratore Lazzari gli mandò il titolo da firmare e cominciò così un'amichevole corrispondenza in seguito alla quale, avendo avuto occasione di andare a Torino lo andò a trovare a casa.

    "Egli mi raccontava come le sue prime impressioni di carattere sociale si fossero formate assistendo dalle finestre della sua abitazione alla brutale repressione poliziesca di uno dei primi cortei del 1° Maggio.(...) ammirava lo spettacolo grandioso di quella folta schiera ordinata e pacifica di uomini e di donne del ceto operaio che sfilava lenta e solenne cantando non più gli inni dei vecchi ideali, ma le aspirazioni nuove.  Ad un tratto un gruppo di poliziotti, di questurini e di delegati colle insegne della patria si gettava contro quel corteo e lo scompigliava atterrando uomini e donne, mentre compariva sulla piazza uno squadrone di cavalleria colle sciabole sguainate.."

   Questo attacco al pacifico diritto di riunione, che era stata la gloriosa rivendicazione statutaria della vecchia generazione, lo aveva colpito e da allora si era messo a riflettere profondamente, a osservare e studiare il mondo dei proletari e quella questione sociale che sollevava i furori della legge e dell'ordine. "Egli mi diceva che pensava di scrivere un libro per glorificare gli stenti e i diritti della folla povera ed innumerevole, io gli mostravo che c'era qualcosa di più direttamente utile da fare, dal momento che la lotta era dichiarata: mettersi di qua o di là. E questo era il mio ritornello favorito sul quale io picchiavo sempre, fin quando egli mi annunciò di essersi deciso per la vita e per la morte, iscrivendosi nella Sezione di Torino. E mantenne la parola fino alla fine" Le sue opere letterarie dopo d'allora hanno tutte la sua nuova ispirazione; il suo discorso del 1895 alla Associazione Universitaria di Torino è un invito alla gioventù a partecipare alla lotta socialista e dietro insistenza di Lazzari scrisse due articoli pubblicati poi sulla Lotta di classe

 

 Il Congresso di Reggio Emilia e quello clandestino di Parma

   Nel settembre 1893 ebbe luogo a Reggio Emilia il secondo Congresso Nazionale, alla presenza di 300 delegati: qui prese il nome di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, il programma fu completato e confermato, il Gruppo parlamentare vi ebbe il suo primo riconoscimento e la sua disciplina (fu questa un'innovazione, imitata poi dagli altri partiti quandi si formarono), il giornale Lotta di classe diventò l'organo centrale della organizzazione, la quale raggiungeva così la sua unificazione. Lazzari prese parte attivissima alla discussione ed ai lavori del Congresso.

    Però, mentre nell'Italia centro-settentrionale gli effetti di questa rinnovata vitalità del Partito si traducevano in un intenso ed ordinato lavoro di educazione e di organizzazione proletaria con lo sviluppo delle Camere del Lavoro, la formazione di leghe e di federazioni operaie e contadine, la partecipazione a tutte le  manifestazioni di attività legislativa e sociale (Lazzari rappresentò la Camera del Lavoro al Congresso Internazionale sugli Infortuni e Assicurazioni Sociali che ebbe luogo a Milano dal 1° al 6 ottobre 1894), in Sicilia  a migliaia  accorrevano ad iscriversi nei Fasci dei Lavoratori che sorgevano in ogni paese, manifestando il malessere generale e il malcontento del popolo  con dimostrazioni che il governo fronteggiava schierando poliziotti, soldati e carabinieri.

    Ne nacquero conflitti cruenti; le notizie di queste sanguinose repressioni  provocarono altre  dimostrazioni ugualmente represse colle violenze militari. Come epilogo il governo di Francesco Crispi decretò lo stato d'assedio in Sicilia e in Lunigiana; gli arresti avvennero a centinaia e i tribunali militari condannarono ad enormi pene i capi e i gregari del movimento proletario di quelle provincie.  Per meglio fronteggiare la situazione, fu convocato il terzo Congresso Nazionale ad Imola per i giorni 7, 8 e 9 settembre 1894, ma il governo lo proibì, finché il 22 ottobre emanò un decreto di scioglimento di qualsiasi organizzazione del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Il giornale, che aveva pubblicato un suo articolo col titolo La commedia è finita, venne sequestrato e in seguito ritornò alla luce intestandosi soltanto come organo dei socialisti italiani.

   Nonostante queste difficoltà, continuò il lavoro di propaganda e di proselitismo, approfittando di tutte le occasioni che si presentavano: Lazzari ebbe un contradditorio col neo-repubblicano Dario Papa; andò candidato nel collegio di Porto Maurizio; in un comizio elettorale tenuto nel ridotto del Teatro alla Scala presentò la candidatura del socialista siciliano Nicola Barbato; fu candidato provinciale a Busto Arsizio, tenendo varie e contrastate conferenze nei paesi del mandamento

   Un intenso e continuo lavoro per il quale fu processato una volta insieme a tutti gli altri membri del Comitato Centrale, perché colpevoli di solidarietà col movimento dei lavoratori siciliani e poi, isolatamente, perché colpevole di aver fatto «l'apologià del delitto nel delinquente», presentando e sostenendo la candidatura di Nicola Barbato. Nel primo grande processo furono tutti condannati alla pena del confino, scontata durante l'anno seguente; nel secondo fu condannato lui solo a tre mesi di reclusione. In mezzo a questa febbrile attività persuase i compagni del Comitato Centrale a rifare le basi della organizzazione del Partito, prima di andare dispersi nei vari paesi dove erano stati confinati e infatti, a questo scopo, fu convocato il terzo Congresso Nazionale (quello che non si era potuto svolgere a Imola) a Bologna per il 13 gennaio 1895.

   La polizia bolognese si mobilitò per impedire l'annunciata riunione, ma i rappresentanti,  debitamente avvisati, si riunirono segretamente a Parma in una saletta privata. Erano in 64 delegati provenienti da ogni parte d'Italia: “restammo chiusi tutto il giorno, in piedi, al freddo, intorno ad un modesto tavolo dove avevano potuto sedere soltanto i dirigenti della discussione, mentre di fuori nevicava disperatamente". Lazzari fece una sommaria relazione della situazione in cui si trovava l'organizzazione del Partito in seguito al suo scioglimento, espose i risultati che l'esperienza aveva forniti e a nome del Comitato Centrale presentò la proposta di confermare l'antico programma, scegliendo per titolo il nome semplice e comprensivo di Partito Socialista Italiano e sostituendo al sistema delle adesioni collettive quello delle singole adesioni personali raccolte in sezioni di almeno 10 iscritti. "La discussione avvenne rapida e cordiale: ci trovammo presto tutti d'accordo e alla sera ci separammo coi migliori propositi di portare ognuno nella sua regione la buona novella dell'avvenuta nostra ricostituzione".

   In effetti il criterio dell’adesione individuale, sul modello della socialdemocrazia tedesca (mentre il sistema delle adesioni collettive era caratteristico del laburismo britannico), fu motivata come prova dell’avvenuta maturazione nei singoli militanti di una consapevole coscienza di classe ma nacque da considerazioni di opportunità, come espediente  per sottrarsi alla repressione crispina: separare dalle sezioni di partito le organizzazioni di classe significava consentire a queste un almeno formale agnosticismo politico che le collocava nelle retrovie della battaglia preservandone l’esistenza per tempi migliori.  Turati, tra gli altri, era riluttante ad accogliere la formula per timore  dell’irruzione nel partito di piccoli borghesi famelici e demagoghi, specialmente nelle sezioni dell’Italia meridionale

 

 Polemiche  sulla tattica

   La repressione del governo Crispi provocò per contraccolpo la convergenza di tutta l'estrema. La Lega per la difesa della libertà sorta a Milano nel novembre 1894 , di cui fu tra i promotori, fu il prodotto della rinnovata alleanza dei tre gruppi: radicali, repubblicani e socialisti.  Durante il 1895 furono celebrati i processi contro le sezioni del Partito dei Lavoratori Italiani, e ad alcuni di questi fu chiamato come testimone: "ricordo quello che si svolse nella Pretura di Revere mantovano. I poveri nostri compagni si difendevano come potevano dalla minaccia di essere mandati a domicilio coatto: non facevano certo gli eroi, ma non sconfessavano le loro idee." Fu in una di quelle circostanze che la Crìtica sociale pubblicò un articolo di aspro commento  "Io mi credetti in dovere di scrivere una risposta nella quale facevo anche una pungente polemica contro le teorie dell'opportunismo politico e parlamentare che cominciavano a far capolino fra gli scrittori della suddetta rivista e lo portai a Filippo Turati" che si rifiutò di pubblicare il suo articolo. In effetti nel PSI iniziarono a delinearsi le "tendenze" come allora venivano chiamate le correnti, con il prevalere di quella riformista che varò in un consiglio nazionale del marzo 1895 il "programma minimo" e iniziò un lungo periodo di egemonia, che vide Lazzari in minoranza e all'opposizione fino al 1912.

  Fu in quel tempo che la Lotta di classe ebbe bisogno di qualche aiuto finanziario straordinario e Lazzari, che altre volte ero ricorso per prestiti a Turati e Treves ma non voleva  più farlo a causa dei dissensi, si fece prestare da Bertini, cassiere del disciolto Partito, una somma di  500 lire la quale, dato il decreto di soppressione, non doveva figurare nei registri che annualmente si dovevano presentare al Tribunale per la vidimazione. Dovendo presentare in Tribunale il bilancio annuale della Cooperativa editrice e volendo nascondere quell'operazione finanziaria compiuta colla non più esistente cassa del Partito, utilizzò un espediente contabile "mai più pensando che col progredire del tempo si sarebbe fatta di quell'innocuo incidente una spregevole accusa contro la mia reputazione."

 

Il domicilio coatto a Borgataro

    Venuta la fine del 1895 ricevette intimazione di partire per scontare a Borgotaro la pena dei cinque mesi di confino a cui era stato condannato un anno prima. Doveva partire il 24 dicembre e domandò invano una proroga. "Alla mattina del 24 un questurino mi condusse in stazione, mi diede un biglietto di terza classe e partii con un freddo cane mentre la neve cadeva a larghe falde". Borgotaro era un antico grosso borgo dell'Alto Appennino parmense sede di Sottoprefettura. La popolazione del centro urbano si componeva, oltre che dei funzionari governativi e comunali, di pochi artigiani e commercianti, di alcuni professionisti, medici, avvocati, ingegneri e di molti contadini piccoli proprietari dei terreni e dei boschi circostanti, nonché di braccianti di campagna. La vita del borgo si svolgeva calma ed inerte senza preoccupazioni né passioni politiche o sociali: soltanto nei periodi elettorali saltavano fuori due partiti, uno monarchico-conservatore  e l'altro repubblicaneggiante. " A mezzo di un simpatico e sgangherato faccendone del paese che era chiamato col soprannome di Bombarda, trovai da affittare a 25 lire mensili una modesta cameretta e cominciai la mia vita di confinato.(...) i ferrovieri che avevano saputo del mio arrivo mi accoglievano fraternamente nella stazione. L'amico Bombarda mi aveva fatto conoscere, fra altri, un giovane curato di una lontana parrocchia di montanari e con lui, che era intelligente, istruito, spregiudicato e generoso, entrammo subito in grande amicizia.”

   Nella tipografia del paese stampò l'inaugurazione dell'anno giudiziario del Procuratore del Re guadagnando 25 lire; trovò da insegnare a tre o quattro giovinetti un po' di lingua francese dietro compenso di 10 lire mensili e in questo modo fu in grado di lasciare alla moglie rimasta a Milano almeno la metà dello stipendio che l'amministrazione della Lotta di classe continuava a mandargli, considerandolo trasformato da amministratore in collaboratore e corrispondente.  Cominciò un po' di propaganda: affittata per poche lire una cameraccia abbastanza centrale nel paese, vi fece portare un tavolino e mezza dozzina di panche noleggiate e mandò ad una cinquantina di capi famiglia un invito per una conferenza privata sul tema: La questione sociale e i lavoratori.

   “Vennero una ventina di persone che entravano ravvolte nei tabarri, silenziosi e diffidenti come congiurati. A metà del mio discorso cinque o sei se ne andarono annoiati e sonnolenti, ma vidi che i rimasti erano favorevolmente impressionati. Dopo alcuni giorni mandai un secondo invito col tema: I partiti politici e la rivoluzione sociale, la sala si riempi di un uditorio vivace ed animato che mi ascoltò con grande simpatia ed interesse e gli intervenuti se ne andarono commentando il mio discorso con quelle significanti invettive del dialetto parmigiano che significavano approvazione e consenso. Questo mi incoraggiò a mandare un terzo invito annunciando per tema: La classe operaia e il socialismo. La saletta, la scala e la strada si riempirono di gente impaziente ed eccitata che mi accolse plaudendo e mi salutò alla fine con grandi acclamazioni e colla promessa che si sarebbe iniziato subito il lavoro di organizzazione"

   All'indomani, mentre ingenuamente pensava di gettare le basi di una sezione del Partito, venne il maresciallo dei carabinieri per notificargli un decreto della Procura che, vista la propaganda con cui continuava i reati per cui era stato condannato,  convertiva la pena del confino in cinque mesi di carcere, comprendendovi anche la condanna per apologia compiuta durante le elezioni di Nicola Barbato a Milano, essendo quella sentenza diventata esecutiva. Al termine della condanna, scontata nel carcere locale, in una riunione di dieci amici fu costituita la sezione socialista e da allora in poi anche Borgotaro ebbe il suo piccolo nucleo di militanti 

 

Il giurì per la gestione della Lotta di  classe

   Nel marzo 1896, quando era ancora detenuto, ricevette dal Consiglio d'Amministrazione della Lotta di classe una comunicazione che gli notificava il licenziamento dal posto che occupava come amministratore. "Fu per me un fulmine a ciel sereno: conoscevo le obbiezioni e le osservazioni a cui aveva dato luogo l'artificiosa scritturazione delle 500 lire prestate dalla cassa del Partito per chiudere alla meglio il bilancio da presentare al Tribunale, ma non avrei mai pensato che a quella questione si sarebbe data una simile soluzione, tanto più mentre stavo carcerato per un interesse di partito. Fu tanta l'amarezza di vedermi cosi bistrattato che per qualche giorno credetti di impazzirne: ne perdetti il sonno e l'appetito (...) Ritornai a Milano stanco ed avvilito senza risorse e senza occupazione. Mia sorella, a cui all'ospedale avevano mutilato una gamba, era venuta a morire in casa mia; mia moglie stentava a far fronte ai bisogni quotidiani; io mi trovavo mezzo ammalato per una sinovite che mi aveva fatto gonfiare le gambe e scoppiare un tumore in un piede e camminavo appoggiato ad un bastone" ma gli amici del V Collegio, dove era candidato per la prima volta Filippo Turati, in sostituzione di Nicola Barbato la cui elezione era stata annullata, lo trascinarono nella lotta elettorale e gli fecero tenere parecchi discorsi di propaganda.

Per guadagnare da vivere accettò di andare come segretario alla Camera del Lavoro di Monza che si stava allora costituendo e cosi abbandonò ancora Milano. A Monza guadagnava tre lire al giorno che divideva con la moglie rimasta a Milano per compiere gli studi da levatrice al fine di cercare un'altra occupazione visto che per rappresaglia politica gli industriali non le davano più lavoro.

In quelle condizioni, un giorno che era venuto a Milano per incarico degli operai monzesi, trovò in strada l'amico avvocato Luigi Majno il quale si mostrò indignato per il modo con cui era stato trattato da Lotta di classe  e propose,  per esaminare e risolvere la questione in modo onorevole, di nominare  un giurì composto da lui, da Gnocchi-Viani per Lazzari e dal ragionier Castiglioni per il Consiglio della Cooperativa Lotta di classe.

 

Commesso viaggiatore del socialismo

    Intanto era andato come rappresentante al Congresso Nazionale, che si teneva a Firenze nei giorni 11-12-13 luglio 1896. Era quello il primo congresso del ricostituito Partito Socialista Italiano (quarto nell'ordine dei congressi socialisti italiani) nel quale l'organizzazione del Partito aveva già potuto presentarsi con 442 sezioni, 19.000 iscritti e 27   settimanali. L'incoraggiante risultato del Congresso di Firenze aveva impegnato la Direzione del Partito ad affrettare i preparativi per la fondazione di un giornale quotidiano e Lazzari fu chiamato a far parte di una commissione composta dai compagni Cabianca, Della Torre, Ferri, Lollini, Morgari, Soldi.

  "Incaricato di indicare chi poteva essere designato come direttore, dopo aver accennato alle ragioni che sconsigliavano la scelta di Turati e di Ferri, tanto favorevolmente noti nel giornalismo socialista ma già impegnati personalmente colla pubblicazione di proprie riviste, consigliai di scegliere Leonida Bissolati il quale, colla prefazione ad una edizione italiana del Capitale di Marx, aveva dimostrato quanto amore e quanto attaccamento egli avesse per la precisa interpretazione della dottrina rivoluzionaria e della politica antiborghese".

   Abbiamo qui una manifestazione dei  limiti ideologici e dell'ingenuità politica che portarono Lazzari, avversario del riformismo, a proporre per la direzione dell'organo di indirizzo politico e di formazione dell'opinione del Partito il più conseguente e limpido dei riformisti, così come nel 1912 a indicare, sempre per la direzione dell'Avanti!, prima Salvemini che era uscito dal Partito a destra e poi Mussolini che aveva già allora una collocazione autonoma più vicina ai sindacalisti rivoluzionari che agli “intransigenti”.

   Bissolati accettò e si trasferi a Roma dove unitamente a Morgari si gettarono le basi del giornale Avanti! che vide la luce il 25 dicembre 1896 appoggiato da 3.000 abbonati e con una prima tiratura di 50.000 copie.

   "In quanto al giurì, ogni tanto Gnocchi-Viani mi avvisava che c'erano in aria delle grandi ostilità contro dì me contro le quali egli lottava sempre, ma che si stavano esaminando i libri commerciali della Cooperativa ed a suo tempo si sarebbe pubblicato il lodo definitivo."

Besana gli propose di entrare nella sua azienda come viaggiatore per il suo commercio di tessuti, con una provvigione del 3% e il rimborso delle spese. Accettò e così sul finire dell'estate 1896 partì col suo campionario, cominciando il giro del Bolognese, del Ferrarese, della Romagna, ecc. “Combinavo dei piccoli affari coi vecchi clienti della ditta, ma intanto facevo delle preziose conoscenze e alla sera ero pienamente libero coi pochi socialisti residenti nelle città e nei villaggi coi quali passavo cosi alcune ore felici di propaganda e di fraternità.(...) vita nomade, così contraria alle mie abitudini casalinghe — ho sempre odiato l'ambiente venale e trascurato degli alberghi e delle osterie — aveva pure le sue soddisfazioni. I viaggi duravano perfino quattro o cinque mesi perché io li avevo estesi fino alla Toscana, al Lazio e nell'Umbria e si ripetevano per ogni stagione estiva ed invernale: essi mi permettevano di percorrere tante zone e tante provincie che altrimenti non avrei mai veduto e di conoscere tanti preziosi elementi della vita politica italiana."

   Certo anche questa attività non era senza inconvenienti a causa della ostilità delle autorità: nel Mantovano e nel Polesine i contadini quando lo vedevano arrivare combinavano delle piccole riunioni di propaganda che avvenivano fuori dai centri, in località lontane e disperse, lungo gli argini; “a Sassuolo, per essere riuscito a tenere una riunione privata, fummo assaliti dai carabinieri; a Lugo fui processato e condannato per una conferenza tenuta in pubblico senza permesso, ma ciò non toglieva nulla alle attrattive di quella vita”  perché dovunque passava sorgevano nuclei di aderenti o simpatizzanti e si formavano sezioni del Partito.

  In generale ciò non era di ostacolo al lavoro commerciale che doveva fare, anzi in molti luoghi lo favoriva per l'interesse e la simpatia che la sua presenza destava nelle popolazioni, come avvenne a Comacchio, dove fu il primo a portare sulla pubblica piazza la parola e l'azione della propaganda socialista. Agli affari commerciali dell'amico Besana riuscì ad aggiungere quelli dell'amico Castiglioni di Busto Arsizio mediante un'amichevole combinazione che gli assicurava la possibilità di un guadagno maggiore. “Ero così riuscito ad assicurare un po' di benessere alla mia vita domestica della quale però godevo così poco”.

   Ricevette finalmente il testo del lodo emesso dal giurì sulla questione del licenziamento dall'amministrazione della Lotta di classe. Erano diverse pagine scritte da Filippo Turati e concludeva con l'approvazione e la ratifica dell'avvenuto licenziamento “mi colse un tale turbamento che credetti di morire e, col senso di essere costretto a sopportare una crudele ingiustizia, rifiutai di partecipare in qual siasi modo al Congresso annuale del Partito, che si teneva in Bologna dal 18 al 20 settembre 1897.”

 In quel Congresso il Partito si presentava con 623 Sezioni e 27.381 iscritti: era un bel progresso che faceva giustamente inorgoglire i dirigenti.  Nel 1897 era morto suo padre,  colpito nel sonno da un violento colpo apoplettico, e prima che l'anno finisse era morta anche la madre.

 

Dimostrazioni per il pane

   Era cominciato in quel tempo un periodo critico per la vita economica:  l'annata agricola era stata scarsa, i grani e le farine mancavano sui mercati od erano monopolizzati dagli speculatori, il pane rincarava ogni giorno. Una sorda agitazione fermentava nelle città e nelle campagne e scoppiava in dimostrazioni.

   Mentre la vita pubblica era cosi eccitata “arrivai a Camerino nelle Marche alla fine d'aprile 1898, e vi ero aspettato da diversi buoni clienti del commercio locale. Stavo appunto in una di quelle botteghe mostrando i miei campionari per la stagione estiva, quando   vennero a chiamarmi per correre a vedere una dimostrazione per la farina. Per uno stradale saliva lentamente una strana processione che mi fece una impressione indimenticabile. Quattro grandi carri di farina, trascinati da quei magnifici grossi buoi bianchi infiocchettati di rosso che sono una mirabile specialità della agricoltura marchigiana, erano circondati da una immensa turba di uomini, di donne, di ragazzi armati di grandi bastoni e scortati da carabinieri a piedi e a cavallo: salvo i costumi pareva di assistere ad una scena dei vecchi tempi biblici.  La popolazione cittadina guardava dall'alto quella scena grandiosa e all'arrivo del corteo prorompeva in grandi applausi e in rumorose acclamazioni.”

Col fermo di quel grosso carico di farina si era provveduto momentaneamente al bisogno del pane quotidiano e tutti erano esultanti.  Si era saputo che uno dei grossi speculatori del luogo aveva venduto una importante partita di farina e la faceva condurre alla stazione ferroviaria. La povera gente era corsa in massa a fermare i carri per ricondurli in città: il sindaco aveva aderito a fare l'acquisto della farina per distribuirla poi ai cittadini bisognosi e tutti ritornavano gloriosi e trionfanti come se avessero vinto una grande battaglia:  "Fui pregato dagli amici di dire due parole per l'occasione: tentai invano di schermirmi per non pregiudicare gli affari della ditta che rappresentavo, Delegato e questurini mi circondavano, mi si portò un tavolino sul quale venni fatto salire (...) feci una suggestiva e sommaria dimostrazione delle cause sociali e politiche per le quali si rende tanto tribolata la vita per la maggioranza dei cittadini,  e conclusi affermando la necessità di dedicarsi a realizzare le conquiste e gli ideali del socialismo. Compiuta la mia giornata,  mi recai a dormire nel solito albergo. Dormivo profondamente il sonno del giusto quando dei replicati colpi picchiati all'uscio della camera mi risvegliarono di soprassalto. Entrarono due Delegati di P.S. che mi invitarono ad alzarmi perché dovevo subito partire da Camerino. (...) Dall'uscio aperto entrarono quattro carabinieri col fucile in mano e circondarono il mio letto. Dovetti dunque alzarmi e vestirmi rapidamente." Condotto ammnettato a Fabriano, venne accompagnato nelle carceri mandamentali. Si trattava di un arresto vero e proprio fatto senza regolare mandato dell'autorità giudiziaria.

 

II Novantotto

Dopo essere trasitato per il carcere di Ancona, fu condotto a Bologna e rinchiuso nel carcere  di S. Giovanni in Monte "nessuno sapeva darmi qualche notizia dall'esterno. Soltanto una volta capitò di passaggio un giovinetto socialista di Bertinoro: da lui ebbi confuse notizie di ciò che succedeva per l'Italia, gli stati di assedio, i tribunali di guerra, e allora cominciai a capire che una qualche grossa burrasca si andava preparando anche contro di me."

Una mattina venne condotto in stazione con la solita catena di prigionieri e arrivato a Milano portato al carcere di S. Vittore  osservato l'ambiente del raggio dove io ero rinchiuso vidi che dirimpetto a me vi era in una cella Filippo Turati, in un'altra Morgari, in un'altra ancora Bissolati, tutti tre deputati e allora cominciai a temere di essere coinvolto in un processo di natura essenzialmente politica"

 Per effetto dello stato d'assedio si trovava in balia del Tribunale di guerra. Venne il giorno del dibattimento: in una grande sala del Castello era stata impiantata l'aula delle udienze e c'erano una ventina di imputati fra cui l'ex-deputato facchino Pietro Zavattari, il prete giornalista don Davide Albertario, la  Kuliscioff, alcuni anarchici, alcuni democratici e repubblicani e parecchi socialisti

Le udienze furono parecchie e piene di incidenti e di sorprese: in generale gli accusati confermavano le proprie opinioni e i propri propositi con naturalezza e fermezza

Lazzari cominciò a contestare la validità dell' interrogatorio facendo appello alle condizioni di fatto e di diritto in cui si trovava perché per la sua età, avendo raggiunto i 40 anni, e per la  sua professione civile, non essendo mai stato soldato, non credeva di dover essere sottoposto alla giurisdizione militare ed invocava, come prescrive la legge, l'esame dei suoi giudici naturali. Allora il Presidente lesse i decreti dell'8 maggio che istituivano i tribunali di guerra. Prima della sentenza  fu invitato a parlare se aveva qualcosa da dire in sua difesa “mi alzai facendo questa dichiarazione: «ho da dire che visto il mio alibi materiale perchè da cinque mesi assente da Milano, e visto il mio alibi morale perché per raggiungere l'emancipazione dei lavoratori io non ho mai detto di far le barricate, io mi considero estraneo ai recenti fatti avvenuti a Milano e siccome nemmeno i decreti dello stato d'assedio possono aver soppresso lo Statuto, io continuerò sempre a sostenere anche per i lavoratori il pieno esercizio del loro diritto di riunione, di associazione e di voto».

   Il 23 giugno 1898 venne condannato a un anno di detenzione per aver istigato a delinquere i milanesi, mentre Zavattari e alcuni anarchici venivano assolti e su don Davide Albertario si scaricarono i furori dell'avvocato fiscale che aveva domandato per lui il massimo della pena, cioè tre anni di reclusione.

 

A Finalborgo

Vennero autorizzate le famiglie a venirli a salutare prima di partire, perché erano destinati al penitenziario di Finalborgo. "Mi ricorderò sempre la scena che avvenne quando fui condotto in presenza di mia moglie: cogli occhi pieni di lacrime ed ardenti per la febbre essa venne a baciarmi ed abbracciarmi, raccontandomi brevemente le gravi peripezie che aveva dovuto attraversare in quel burrascoso periodo di tempo."

Alla sera vennero a prenderli, lo incatenarono con don Davide, e furono condotti alla stazione e immagazzinati nel vagone cellulare  ogni tanto si sentiva la voce di Valera che diceva:  Ciao Romussi, o ciao Chiesi, o ciao Federici, o come state don Davide? "

Il penitenziario di Finalborgo era l'antico convento dei domenicani i quali, avendo in quel territorio una specie di giurisdizione, ne avevano fatto   una sede feudale con spesse muraglie di pietra, grandi scaloni, una grossa torre quadrata.

Dopo tre giorni di detenzione cubicolare furono condotti nella quinta camerata:  Chiesi, Romussi, Federici, don Albertario, Valera,  Lazzari, Ghiglionca

Ben presto Romussi venne trasferito al penitenziario di Alessandria e a sostituirlo venne Giovanni Suzzani, un giovane di Lodi che curava l'edizione del giornale Sorgete “questo Suzzani era un mio grande amico ed ammiratore, tanto che ci chiamavamo zio e nipote ed ottenni di metterlo vicino a me.”

La Cassazione rigettò il ricorso e quindi dovettero subire le disposizioni del regolamento: furono rasati completamente, vestiti colla casacca dei reclusi, individuati non più col nome ma col numero di matricola. Lazzari incominciò allora a soffrire quegli strazianti mali di stomaco che dovevano poi sviluppare l'ulcera gastrica e portarlo all'operazione della gastroctomia, prima all'Ospedale Maggiore di Milano nel 1911, poi al Policlinico di Roma nel 1913.

La quinta camerata era chiamata la camerata dei giornalisti "e un giorno il direttore venne a dirci che, non sapendo a quale occupazione adibirci, come prescrive il regolamento, aveva chiesto ed ottenuto dal Ministero la facoltà di darci carta, penna e calamaio, onde occupare le nostre inerti ed oziose giornate. Fu una vera festa per tutti. Chiesi cominciò il suo interminabile lavoro dei romanzi d'appendice, don Davide scriveva i suoi quaresimali, Federici riprendeva i suoi studi della lingua inglese, Valera impiantava i suoi indiavolati romanzi popolari ed io, avendo ottenuto il materiale di disegno, passavo il mio tempo a utilizzare gli studi fatti all'Accademia di Belle Arti a Milano e ritraendo a colori e in bianco e nero l'ambiente, le persone, le cose da cui eravamo circondati”

 Vennero le feste di Natale, e per la fine dell'anno comparve il primo indulto per coloro che avevano una condanna non superiore ai due anni. Cinque uscirono, ma rimasero in tre, cioè, Chiesi, don Davide e Lazzari, perché recidivo.

In seguito ai rapporti del direttore il Ministero decise di migliorare la  condizione dei detenuti che potevano provvedere al vitto all'esterno: cosi cominciò un nuovo tenore di vita “Alla mattina Chiesi faceva la nota del pranzo e della cena consultando don Davide che, come prete, doveva essere il più competente e la consegnava al sottocapo: a mezzogiorno veniva dal ristorante un gran cesto (...) in quanto a me il male di stomaco che faceva continui progressi mi impediva di godere la fraterna liberalità degli altri due.

  La voce della sua abilità nel ritrarre e disegnare le persone e le cose  pare che fosse arrivata come un scandalo all'orecchio del direttore, perché un giorno venne un sottocapo, raccolse le  carte, le  matite, i colori e se li portò via. Dopo tre giorni gli vennero restituite ma non i lavori, i ritratti, le prospettive.

  In febbraio venne citato davanti al Tribunale di Ancona, per render conto di quanto aveva fatto a Camerino un anno prima e fu condotto in vagone cellulare prima a Genova, poi a Voghera, Piacenza, Bologna sempre ammanettato e incatenato in compagnia dei reclusi e dei forzati che viaggiavano da un penitenziario all'altro.

   Arrivato ad Ancona reclamò anche là le concessioni di passeggio, di vitto, di lavoro di cui godeva a Finalborgo. "Mi misero in una bellissima cella posta nella parte più alta di quell'enorme edificio carcerario: vi erano due finestre, una sul mare venne lasciata aperta e potevo ammirare cinquanta chilometri di spiaggia fino a Sinigaglia, fino a Pesaro. Fra i socialisti del luogo si era sparsa la voce del mio processo e perciò mi arrivavano cibi, libri e lettere in abbondanza."

    In prima istanza fu condannato a tre mesi di detenzione, ricorse in appello e, mentre era in attesa della udienza, venne accompagnato nella sua cella perché condannato a 75 giorni per offese al re il giornalista repubblicano Domenico Barillari. "Era un brav'uomo, all'antica, che seguiva la sua politica in modo un po' superficiale e si copriva sempre il capo con un imponente cappello a cilindro, come se ciò lo dovesse rendere più rispettabile e più venerabile.   Per le feste di Pasqua, fu una gara fra socialisti e repubblicani per mandarmi in dono quelle famose pizze marchigiane per le quali bisogna avere uno stomaco di ferro".

  Venne il giorno dell'appello e il deputato Berenini[10] venne da Parma a difenderlo; però lui fece un discorso per dimostrare che nell'azione svolta a Camerino non vi era alcun reato. "Ricordo che parlai con tanta eloquenza e passione che i giudici, i carabinieri, il pubblico mi guardavano con ammirazione e infatti faceva un grande effetto la vista di un recluso che perorava in tal modo la propria causa. Venni assolto e quando mi ricondussero in carcere, ammanettato e incatenato, i carabinieri che stavano cenando si alzarono in piedi e mi obbligarono a bere con loro. facendo un brindisi al mio discorso che dicevano migliore di quello dell'avvocato"

   Per scontare la restante pena nel carcere di Finalborgo ottenne di viaggiare in traduzione ordinaria   e passando per le stazioni di Romagna, potè salutare degli amici che salirono sul treno per tenergli compagnia.

  Rivide con piacere i due compagni di pena Gustavo Chiesi e don Davide Albertario coi quali aveva trascorso un anno e da cui a malincuore si separò arrivato alla fine della condanna.

Prima di essere rilasciato venne chiamato nell'ufficio del segretario “Era costui un napoletano

 il quale mi disse che aveva studiato all'Università e sapeva cosa è la balorda dottrina del socialismo, per cui mi consigliava di abbandonare simili malsane teorie (...) io gli risposi seccamente che non saremo noi Milanesi ignoranti che andremo a prendere lezione di socialismo dai Napoletani sapienti, perché noi nella vita sociale facciamo già la pratica militante della politica socialista”

Erano le 11 del 29 aprile 1899, il portone si apri completamente ed io uscii finalmente all'aria libera. Davanti al portone si stendeva un piazzaletto da villaggio: in fondo, lungo una fila di alberi, vi erano delle donne e dei bambini che stendevano e raccoglievano della biancheria e ridevano e cantavano... Io rimasi a bocca aperta e alla vista di quelle voci e di quello spettacolo di dolcezza e di innocenza, dopo tanto tempo (...) «Andate via, non si può fermarsi qui», mi gridò la sentinella, picchiando sui sassi il calcio del fucile. Mi allontanai  sbalordito”.

 

Propagandista e candidato

    Uscito di prigione, fu eletto membro della commissione centrale del PSI e si pronunciò «per necessità» a favore dell'alleanza con democratici, radicali e repubblicani nelle elezioni amministrative di Milano, che si tennero sul finire del 1899. L'appoggio e l'attivissima opera di propaganda da lui svolta a favore dei candidati «popolari» contribuirono alla loro vittoria

Dopo che non si era presentato al congresso di Bologna del settembre 1897  per i motivi che abbiamo visto (il lodo sul licenziamento da La lotta di classe) non fu eletto nella Direzione neppure ai successivi congressi di Roma e di Imola (rispettivamente settembre 1900 e 1902) che videro la prevalenza dei riformisti, e non rientrò in gioco a livello nazionale che al Congresso di Bologna dell'aprile 1904, quando prevalse la corrente “integralista” di Enrico Ferri e Oddino Morgari.

  Nel gennaio 1900 costituì il circolo elettorale socialista per il sesto collegio di Milano, considerato "sicuro", con l'evidente intenzione di presentarsi come candidato per le imminenti elezioni politiche, ma fu invece presentato - pare su pressioni di Turati e di Anna Kuliscioff - lo storico dell'antichità Ettore Ciccotti, che infatti venne eletto. Fu candidato invece a Voghera e a Varallo Sesia, collegi  "difficili", e  non risultò eletto.

    Enrico Ferri, già in polemica con Treves e Turati sui metodi di lotta e di propaganda, colse l'occasione per prendere le difese di Lazzari sulle colonne dell''Avanti!. Turati rispose con una lettera, pubblicata sull'Avanti! del 13 novembre 1900 in cui riesumava le accuse per gli ammanchi nell'amministrazione della Lotta di classe.

   In seguito a ciò Lazzari presentò le sue dimissioni, accettate dopo lunghe discussioni dalla commissione esecutiva della federazione socialista milanese. Nonostante ciò, tenne numerose conferenze di propaganda in diverse città italiane, fra cui Grosseto, Massa Marittima, Città di Castello, Macerata e Cesena, conferenze di cui venne data notizia con un certo rilievo anche dai giornali socialisti. Né certamente Lazzari perse in credibilità nei confronti della base operaia del partito: ne è conferma il fatto che pochi mesi dopo, il 2 giugno 1901, venne eletto presidente del comizio promosso dalla CdL di Milano a favore dei muratori in sciopero. E il 7 luglio, a Milano, in un comizio di protesta contro l'eccidio di Berra . manifestò pubblicamente e con linguaggio violento il suo dissenso dalla linea turatiana, denunciando i pericoli dell'«affinismo», del parlamentarismo e del «ministerialismo».

 

Enunciazione della  linea politica

   Nell'imminenza del congresso di Imola, nel 1902, pubblicò un opuscolo, La necessità della politica socialista in Italia, in cui chiariva la propria linea politica all'interno del partito e criticava più o meno duramente le posizioni di Turati, Arturo Labriola, Francesco Saverio Merlino e Ferri. Quest'opuscolo rimase la base, per tutti gli anni successivi, della politica del vecchio operaista e la giustificazione teorica della sua "intransigenza" .

 Per Lazzari infatti si poteva giungere al socialismo solo attraverso una «rivoluzione meditata e cosciente, da non confondersi con i colpi di mano o i colpi di testa del rivoluzionarismo empirico convenzionale», che implicava necessariamente una «battaglia profonda e continua sorretta da una inflessibile politica di guerra» nei confronti della borghesia. Da ciò derivava la necessità della lotta di classe ad oltranza e il rifiuto della «lentezza e gradualità» del metodo riformista; il non coinvolgimento programmatico nel processo di formazione di una legislazione favorevole al proletariato, poiché essa allontanerebbe la politica dei socialisti  dalla sua vera e specifica azione di guerra antiborghese; l'intransigenza assoluta nei confronti delle alleanze con i partiti borghesi, ad eccezione di quelle sul piano parlamentare  occasionalmente utili; l'esclusione della possibilità di votare bilanci o mozioni di fiducia a ministeri della borghesia. In conclusione la politica socialista non doveva essere «una specie di olio dato alla macchina governativa dello Stato borghese per il suo migliore funzionamento, ma una specie di sasso introdotto nei suoi congegni per rendere evidente e necessario l'intervento del fabbro che la può spezzare e ricostruire». L'opuscolo, dopo queste critiche, terminava con un appello, profondamente sincero, all'unità del partito.

 

Intransigentismo e sindacalismo rivoluzionario

Dopo il congresso di Imola, conclusosi con la vittoria dei riformisti, a Milano si ebbe un avvicinamento tra Lazzari e Arturo Labriola, che vi si era trasferito da Napoli per dar battaglia per la conquista della segreteria del partito e a tal fine aveva fondato il  periodico Avanguardia socialista, cui Lazzari collaborava e di cui divenne amministratore nel  1903.

  Frutto di questo avvicinamento fu anche la costituzione, nel settembre 1903, del Comitato d'azione socialista economica, fondato dal gruppo «operaista» milanese (Lazzari, Suzzani, ecc.); ne erano esclusi i sindacalisti rivoluzionari di Avanguardia socialista, che pure ne erano in parte gli ispiratori. Essenzialmente lo scopo del comitato era di stimolare una maggior fusione tra movimento rivendicativo e istanza politica e promuovere una maggiore compenetrazione tra l'azione del sindacato e l'azione del partito.

   Nel 1903 entrò a far parte, come delegato dell'Unione impiegati, del consiglio generale della Camera del Lavoro, a maggioranza riformista. Sempre nel 1903, in seguito al fallimento dello sciopero dei ferrovieri delle linee Nord di Milano, biasimò a nome del Comitato d'azione socialista economica, l'operato della Camera del Lavoro ribadendo che era necessario «ritornare ai princìpi della lotta di classe e non dei vieti opportunismi e dei piccoli miglioramenti immediati» e trascinando con sé gran parte della base operaia milanese.

     Nel febbraio 1904 al congresso regionale lombardo di Brescia diede il suo appoggio alle posizioni sindacaliste rivoluzionarie di Walter Mocchi che prevalsero, e al congresso nazionale di Bologna dell'aprile dello stesso anno, criticò l'operato dei riformisti, si pronunciò contro ogni tipo di collaborazione governativa e diede il suo appoggio alla mozione Ferri.

  Nel discorso tenuto all'Arena durante lo sciopero generale del settembre 1904 lanciò la parola d'ordine della continuazione dello sciopero generale sino alla caduta del ministero. Sempre nel 1904 si presentò candidato alle elezioni politiche nel 1. collegio di Milano, ad Affori, a Crema e a Novara senza riuscire eletto, essendo sempre presentato in collegi non "sicuri".

  Negli anni successivi continuò nell'opera d'organizzazione della base ed a tener conferenze in varie località d'Italia. In questi anni venne sempre rieletto mebro della commissione esecutiva della federazione socialista milanese.

   Si possono citare alcuni avvenimenti quali la nomina a membro del Segretariato nazionale della resistenza nel marzo 1906 (che fu l'embrione della CGdL); l'ennesima sconfitta subita nelle elezioni politiche suppletive del 1906, quando si presentò come candidato di parte sindacalista, insieme a Labriola, contro le candidature Treves e Turati; la nuova sconfitta alle elezioni politiche del 1909 come candidato nel collegio di Novara; la fondazione a Milano nel giugno 1907 insieme a Filippo Corridoni  del circolo  anticlericale Giordano Bruno; il breve periodo di corrispondente da Milano dell'Avanti! (novembre 1906-agosto 1907).

  Nel congresso nazionale del 1906 a Roma fece confluire tatticamente il proprio voto sulle mozioni dei sindacalisti rivoluzionari, senza condividerne la linea politica

 

Formazione della frazione rivoluzionaria intransigente

   Usciti i sindacalisti rivoluzionari dal Partito, al congresso di Firenze del 1908 fu relatore con Oddino Morgari e Giuseppe Emanuele Modigliani sul tema Tattica e programma per le prossime elezioni politiche; a quello di Milano del 1910 fu relatore con Pompeo Ciotti   sul tema dei rapporti fra gruppo parlamentare e partito. Ribadì costantemente la condanna del ministerialismo e della politica delle alleanze con i partiti democratici; ritornò ripetutamente sul concetto che la politica del partito, pur esplicando un'azione generale di difesa degli interessi immediati dei lavoratori, doveva essere volta a «combattere il funzionamento e l'incremento delle istituzioni politiche ed economiche ».

   Il primo nucleo "intransigente" si formò al congresso di Roma del 1906, dove la mozione presentata da Giovanni Lerda, che si proponeva un rilancio dell'antiministerialismo e la riconferma del principio della lotta di classe, ottenne solo 1.161 voti su 34.000; al congresso di Firenze del 1908 la corrente si consolidò ottenendone 5.387, pari 19% Al congresso di Milano del 1910 migliorò le posizioni col 24% dei voti; nel 1911 a Modena conseguì 8.600 voti su 21.000 e infine nel 1912 a Reggio Emilia con 12.550 voti superò le due mozioni riformiste che ottennero complessivamente meno di 8.000 voti (senza contare i riformisti di destra già usciti);  da notare che fu essenziale per la vittoria il contributo della federazione forlivese guidata da Mussolini il cui ruolo, marginale fino ad allora, con la nomina alla direzione dell'Avanti! assunse rilievo nazionale.

  Tra il 1906 e il 1912 la corrente conobbe diverse fasi di aggregazione e sviluppo coagulando componenti e personalità radicate nella tradizione socialista come quella di derivazione "ferriana" e integralista orientata all' "educazione delle masse" rappresentata da Giovanni Lerda, insieme con gli esponenti provenienti dal Partito Operaio Italiano; a loro si venne aggiungendo la Federazione giovanile ricostituita dopo la scissione sindacalista-rivoluzionaria del 1907 sotto la guida di Arturo Vella, al cui interno iniziava a svilupparsi la generazione più giovane dei Bordiga e dei Tasca che faceva il suo ingresso nelle fila del socialismo tra il 1911 e il 1914  in pieno clima antiriformista e antipositista, influenzata da Salvemini e anche da Mussolini.

   In vista del congresso di Milano fu promosso un coordinamento, ma la costituzione in frazione avviene con la pubblicazione, dal 1. maggio 1911, dell'organo ufficiale "La Soffitta" (che riprende polemicamente nel titolo la nota affermazione di Giolitti sul preteso accantonamento del marxismo da parte del socialismo italiano) di cui Lazzari era condirettore con Giovanni Lerda.    Il giornale, che cessò la pubblicazione all'indomani del congresso di Reggio Emilia del luglio 1912,  rappresentò politicamente il punto di riferimento e di raccolta delle forze della corrente  che, dopo il congresso di Milano, aveva proceduto alla nomina dei responsabili regionali (15 agosto 1911) e del Comitato Centrale (19 novembre) con funzioni di coordinamento, composto da Lazzari, Francesco Ciccotti, Giovanni Lerda, Arturo Vella, Paolo Mantica, Elia Musatti, Adolfo  Zerbini.

   Nonostante i propositi di rivalutazione del marxismo e il tentativo di ricerca sul piano ideologico di una piattaforma programmatica, mancò alla Soffitta un dibattito di idee vero e proprio. Si invocò il ritorno al programma di Genova, si insistè sulla politica di chiusura nei confronti del governo borghese, si richiamò il proletariato al «lavoro per la propria elevazione ed educazione».

 

"I princìpi e i metodi del Partito socialista italiano" (1911)

Nell'opuscolo illustrò e ri­vendicò le tesi del programma costitutivo del partito al Congresso di Genova del 1892, il cui cardine era la visione della società in classi: "Da un lato la borghesia dominante per mezzo delle sue istituzioni, in nome del suo diritto privato di proprietà, e dall'altro i lavoratori sfruttati e sacrificati a be­neficio della formazione e dell'accumulazione capitalistica"[11]

Proprio l'enunciazione chiara e decisa di quella tesi ave­va permesso al Partito fino al 1900 di rafforzarsi e di svolgere una funzione egemonica nei confronti delle altre tendenze presenti nel movimento operaio, dagli anarchici ai repubblicani e perfino ai de­mocratici, impegnati sia pure confusamente a contrastare il rafforza­mento del blocco monarchico-cattolico.

Dopo il Congresso di Roma del 1900 la politica del­le alleanze varata dai riformisti e l'appoggio fornito a indirizzi di governo avevano portato alla ripresa d'iniziati­va delle altre formazioni di sinistra e alla nascita del sindacalismo rivoluzionario con la scissione del 1907.

Contro la tendenza ad attribuire allo Stato il carattere di rappresen­tante degli interessi della collettività e della nazione ricordava la definizione classista delle istituzioni basate sul regime della proprietà privata e quindi dello Stato, che sanciva il riconoscimento giuridico del predominio di classe, lo conservava e garantiva con la forza.

Il programma del 1892, propugnando una lotta contro gli interessi e le istituzioni della classe dominante, aveva escluso ogni concezione educativa, filantropica e umanitaria del socialismo. L'azione sociali­sta non poteva limitarsi a migliorare le condizioni di vita dei lavora­tori - obiettivo comune anche ad altre forze politiche -, ma doveva mirare ad abbattere tutti gli ostacoli che si frapponevano all'emanci­pazione del proletariato:

I lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione, se non mercé la so­cializzazione dei mezzi di lavoro (terre, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione sociale della produzione. Il riformismo parla soltanto di eleva­mento del proletariato, sostituendo così un concetto empirico ed occasionale al principio ideale e continuo della nostra storia7.

L'opuscolo consente di individuare le idee fondamentali della frazione intransigente, che, al di là della loro ca­pacità di aggregazione in senso antiriformista, non giunsero mai a uno sviluppo teorico completo. Almeno una parte di essa abbandonò la rivendicazione del ritorno al programma del 1892, fino a chiederne il definitivo abbandono al Congresso di Bologna del 1919.

Se l'interpretazione lazzariana del programma originario del partito come di un «piano completo ed organico di azione saldamente anco­rato alla dottrina socialista» era destinata a non reggere a lungo, ebbe tuttavia influenza oltre quella fase l'idea di impo­stare la critica del riformismo tornando alle basi del socialismo, in­tendendo la fedeltà ai postulati programmatici generali come condi­zione irrinunciabile di omogeneità e forza politica, in quanto da essi discendevano chiare indicazioni di metodo, distintive dell'azione so­cialista rispetto a quella di ogni altra forza politica, e l'intransigente applicazione di tali indicazioni avrebbe permesso al partito di risco­prire la propria ragion d'essere.

Un postulato essenziale era l'organizza­zione del proletariato in partito di classe, indipendente da tutti gli al­tri partiti. Nel momento stesso in cui sacrificava questa prerogativa il Partito socialista «cessa[va] di rappresentare la classe proletaria e di-venta[va] un qualunque partito di borghesia per il quale non valefva] la pena di sacrificarsi o appassionarsi».

Di qui la critica ai blocchi elettorali coi partiti "popolari" e, soprat­tutto, alla condotta del gruppo parlamentare, che sistematicamente aveva confuso la propria azione con quella dell'estrema sinistra della Camera e non si era reso conto che gli uomini di questa - Lazzari ci­tava Crispi, Cairoli, Nicotera, Fortis, Zanardelli, Sacchi e Marcora -una volta saliti al potere, diventavano i più accaniti difensori dell'or­dine costituito:

In questo modo il gruppo parlamentare socialista ha talmente perduto ogni suo ca­rattere ed ogni sua funzione distinta, da non avere più nemmeno la forza di reg­gersi come organismo speciale in mezzo al parlamento della borghesia. I singoli deputati votano discordi fra di loro e la loro azione in Parlamento è senza alcun ef­fetto di propaganda per l'orientamento e la formazione di una buona opinione so­cialista8.

Il programma del partito, compendiato nella formula della «con­quista dei poteri pubblici», non doveva far perdere di vista il fine dell'azione socialista “chiaramente indicato dal compito di espropriazione economica e politica che noi dobbiamo esercitare per mezzo di essa contro la classe dominante, mediante un'opera di trasformazione dei poteri pubblici per togliere ad essi il carattere che hanno di mezzi di oppressione e di sfruttamento”.

Venendo poi alla distinzione del potere statale in due grandi cate­gorie, quelle del governo centrale e dell'amministrazione locale (Province, Comuni ed enti pubblici), secondo Lazzari il partito dove­va conservare intatta (senza subire l'influenza dell'ambiente parla­mentare) la funzione di rappresentante dei diritti sociali dei lavorato­ri, non potendosi permettere nessuna rilassatezza nei confronti dei poteri esecutivi del regime borghese e meno che mai partecipando al­l'esercizio di quei poteri, fatto che lo avrebbe reso corresponsabile di misure inevitabilmente volte alla conservazione dello stato di cose esistente. La conclusione di Lazzari tuttavia non era così chiara come potrebbe sembrare: "Non vuol dire con ciò che la quistione della partecipazione al potere non riman­ga una pura e semplice questione di metodo, perché verificandosi il processo storico della dissoluzione politica, possono determinarsi anche nella vita della borghesia dei momenti rivoluzionari, nei quali potrà interessare al partito sociali­sta di aiutare i vari strati borghesi più avanzati nei loro sforzi diretti a demolire gli avanzi del passato dominio10.

Egli ammetteva l'assunzione di responsabilità da parte dei socialisti nelle amministrazioni locali: "È questa la sola concessione che noi possiamo fare verso le istituzioni del potere borghese, perché la trasformazione dei poteri amministrativi dipende più dallo spirito che li può animare, che non dal modo del suo funzionamento come è in­vece proprio del potere governativo".

Quanto all'azione economica, Lazzari, una volta prese le distanze dal sindacalismo rivoluzionario, richiamava il dovere del partito di appoggiare tutte le lotte dei lavoratori, sconfessando l'atteggiamento della dirczione riformista, che aveva contrastato vari scioperi e varie proteste, privilegiando essenzialmente il movimento cooperativo e le riforme dell'assistenza e della previdenza sociale.

Le cooperative di consumo, di lavoro, di credito, non rappresentavano una forma specifica di lotta proletaria e poteva­no svilupparsi anche al di fuori della lotta di classe anzi partecipavano per lo più a quello spirito di conciliazione e pacificazione che di­stingueva la politica dei moderni partiti borghesi: Più noi ci terremo lontani da queste insidiose forme di azione, più saremo fedeli ai principii ed ai metodi del nostro programma, e più avremo aperte le vie del­l'avvenire socialista12.

Urgeva quindi ritornare alla lotta per il miglioramento delle condi­zioni di vita e di lavoro, campo specifico di azione e aggregazione dei proletari, in quanto solo nel vivo dello scontro tra le componenti economiche della società la classe sfruttata avrebbe potuto prendere coscienza dell'abisso che la divideva dalle altre, della natura del regi­me borghese e delle sue istituzioni e della necessità di trasformarlo. A fianco dei risultati che la lotta sul terreno economico portava ine­vitabilmente con sé, si producevano «incalcolabili effetti morali favorevoli a diffondere nel mondo quei principii di fratellanza e di soli­darietà» che il regime della proprietà privata contrastava «nel fatto, pure in mezzo alle teoriche ed astratte proclamazioni della filosofia borghese». La causa ultima della crisi socialista doveva es­sere individuata nell'involuzione delle teste pensanti del partito. Si trat­tava di uomini giunti al socialismo più per l'impotenza degli altri partiti che per la formazione di una convinzione indipendente e spregiudicata:"lentamente essi ritornavano nella prima illusione, nella speranza di affrettare un successo che solo le forze nuove ed i nuovi metodi avevano la capacità e la vo­lontà di realizzare cominciarono a inventare la mancanza nel nostro paese di quegli elementi di materialismo economico che sono la base e la forza di un vero movimento socialista e scesi di gradino in gradino per la via delle transazioni poli­tiche, vennero fino al punto di dichiarare sfatate, morte e sepolte le formule dottri­narie che Carlo Marx aveva con tanta sapienza elaborate come la base incrollabile dell'azione socialista. Questi uomini, approfittando della loro posizione ecce­zionale e valendosi di ogni mezzo, hanno continuato per la loro via, senza curarsi dello stato di disgregazione, di malcontento e di decadenza che lasciavano dietro di sé: trionfavano le loro persone ma svaniva lo spirito collettivo che aveva destato tanta ammirazione e tante speranze. Le azioni del partito non sono più determinate dalla interpretazione del nostro programma e delle regolari discussioni delle as­semblee, bensì della imposizione delle persone e dei gruppi per via di sorprese, di violenze e sopraffazioni".

 

Segretario  tra “settimana rossa” e intervento.  “Né sabotare né aderire”

Dopo il congresso di Reggio Emilia del 1912 vinto dalla corrente intransigente rivoluzionaria, fu nominato segretario del partito (carica che terrà per sette anni, fino 1919). A quel punto  sciolse gli impegni professionali in qualità di commesso viaggiatore con la ditta Enrico Besana e si stabì definitivamente a Roma.

Si fecero evidenti, con l'assunzione della più importante carica del partito - tra l'alto in un periodo storico critico come quello tra l'impresa libica e l'intervento nella Grande guerra - i suoi limiti personali, culturali, politici

Uno dei suoi primi atti fu quello di offrire la direzione dell'Avanti!, che era lo strumento  di indirizzo politico e di formazione dell'opinione del partito, a un uomo ormai fuori dalle sue fila e che si autodefiniva «più riformista dei riformisti», Gaetano Salvemini, con una ingenuità evidente. Nella ricerca dell'uomo nuovo, che avrebbe dovuto dare maggiore slancio alla corrente, da insediare alla direzione del giornale la scelta cadde, dopo un breve periodo di direzione di Giovanni Bacci, su Benito Mussolini.

Di fronte alla guerra libica l'opposizione fu netta; egli svolse, unitamente al suo gruppo, un'azione di stimolo e di coordinamento delle manifestazioni di protesta antimilitarista espresse dalla base. Ma dell'opposizione alla guerra libica più che uno strumento di lotta contro il capitalismo borghese e il nazionalismo imperialista, farà un'arma contro i riformisti coinvolgendo nella responsabilità per la guerra «quella politica socialista che da dieci anni, invece di compiere la sua funzione di corrosione e di lotta contro tutto il meccanismo delle istituzioni borghesi, aveva favorito e secondato tutte le combinazioni e le trasformazioni ministeriali».

Lazzari affrontò il pesante compito della direzione del partito basandosi pressoché esclusivamente sul dogma dell'intransigenza e sull'appoggio alle lotte economiche della base. Vi fu in lui un'attesa quasi fatalistica dell'inevitabile disgregazione del regime politico della borghesia e una fede messianica nell'altrettanto inevitabile avvento del socialismo. Gli fu dunque sostanzialmente estraneo il problema di come influire sugli avvenimenti, di come agire nel momento della dissoluzione dello Stato borghese.

Allo scoppio della guerra mondiale il Partito, che sotto la sua direzione, nonostante l'immobilismo, aveva avuto un grosso incremento numerico, si trovò isolato, impossibilitato a manovrare  con le altre due forze nautraliste, i giolittiani e i cattolici, mentre le   tradizlonali alleanze con le altre forze di sinistra, repubblicani e radicali, venivano meno e la borghesia intellettuale si orientava verso la guerra.

Il governo agiva pesatemente per impedire le manifestazioni pacifiste e per scioglierne i cortei, lasciando agli interventisti le piazze: un trauma per chi era abituato ad averne il controllo, tanto più per un Partito che restava vincolato a metodi legalitari di lotta, ad una concezione pacifista e non rivoluzionaria dell'antimilitarismo, incontrando perciò sempre maggiori difficoltà nell'arginare l'offensiva degli interventisti

Il suo atteggiamento fu di netta opposizione a ogni partecipazione alla guerra e quindi di durissima condanna di ogni interventismo. Nell'ottobre 1914 sostituì, insieme a Bacci e Serrati, Mussolini alla direzione dell'Avanti!. Nel novembre   pronunciò l'atto di accusa contro Mussolini, espulso per indegnità politica e morale.   

Sull'Avanti! delineò l'atteggiamento in caso di mobilitazione militare: neutralità e tranquillità del partito per una guerra difensiva; opposizione e resistenza per una guerra offensiva. Nel corso di una conferenza a Osimo, a chi gli chiedeva cosa avrebbero fatto i socialisti in caso di intervento, rispose che avrebbero dovuto "assoggettarsi agli eventi , sicuri che a suo tempo si verificherà quello che avvenne tra i pagani e i cristiani, e cioè che dopo tante lotte cruente seguì la pacificazione degli animi" . La rassegnazione assume quì dimensioni cosmiche,  sul terreno politico è la passività eretta a comandamento supremo.

Nel maggio 1915 a Bologna, nella riunione congiunta della direzione del partito, del gruppo parlamentare e dei responsabili della CGdL, Lazzari coniò la formula del «né aderire, né sabotare», in polemica con Serrati propenso ad un atteggiamento più deciso e combattivo, che aveva lanciato l'appello per contrapporre "dimostrazione a dimostrazione, comizio a comizio...non attendere il corso degli eventi in musulmana remissività". Il 29 agosto diramò un comunicato invitando le organizzazioni a "fare argine e impedire che le esaltazioni sentimentali degli altri partiti potessero traviare e travolgere la chiara coscienza internazionalista del proletariato italiano".  Nel corso della guerra si adoperò per l'unità del partito e per l'equilibrio delle tendenze, pronunciandosi contro l' «insurrezionalismo» e condannando i cedimenti patriottici dei riformisti, da Turati a Rigola. 

In campo internazionale partecipò ai convegni di Zimmerwald   e di Kienthal. Il 21 settembre in un comunicato invitò le federazoni e le sezioni a fare oggetto di approfondito dibattito le decisioni del convegno di Zimmerwald. Un anno dopo, il 12 settembre  1917, inviò una circolare riservata e personale ai sindaci socialisti perchè contribuissero "con concorde atto di protesta " ad imporre al governo il punto di vista del gruppo parlamentare socialista contro "un terzo inverno di guerra". Due le ipotesi avanzate: "rassegnare le dimissioni ad un ordine della Direzione" oppure "provocare le dimissioni in massa" con una dichiarazione comune.

Il 18-19 novembre 1917 partecipò alla riunione della frazione intransigente a Firenze, presenti Serrati, Bordiga, Gramsci, Terracini. 

 

Nuova carcerazione

La circolare "riservata e personale" venne naturalmente conosciuta dalle autorità e, in base al decreto Sacchi, fu arrestato e condannato per propaganda disfattista. Rimase  nel carcere prima di Regina Coeli e poi di Velletri dal febbraio al novembre 1918; durante la detenzione scrisse alcuni appunti di cui riportiamo due brevi brani: (...) ho meditato lungamente sulla  dura sentenza che mi ha colpito e mi sono convinto che essa non è un giudizio, ma una rappresaglia politica contro il partito. Infatti il P.M. si è espresso così: «Erano mezzi di pressione che i dirigenti del partito volevano esercitare su coloro che dopo Caporetto erano rimasti turbati se continuare o no nel contegno di rigida intransigenza in rapporto alla guerra. E questo completa la figura del reato che si è convenuto chiamare disfattismo”. Come se la disfatta fosse nelle intenzioni e nei propositi del partito! Noi sappiamo che la disfatta vorrebbe dire un aggravamento dei mali del popolo italiano, e nemmeno ci potrebbe illudere come un mezzo adatto allo scoppiare di una rivoluzione perché noi vogliamo veramente la morte del dominio borghese, ma deve essere una morte naturale e non una morte violenta, per assicurare il successo e la introduzione del regime socialista. Forse in ciò sta il danno e l'errore, non volontario del resto, di Lenin"[12]

II governo socialista di Pietrogrado ha firmato la pace colla Germania. Io non l'avrei firmata, ma fin dal primo mo­mento delle trattative avrei decretato lo scioglimento dell'esercito. Dichiarando la cessazione dello stato di guerra avrei lasciato avanzare l'esercito tedesco e l'avrei aspettato di piede fermo a Pietrogrado protestando contro la violenza dell'occupazione che nessun motivo poteva giustificare.[13]

Queste note evidenziano l'incomprensione della realtà profondamente mutata dalla guerra  e dalla  rivoluzione russa, l'incapacità di dare alla formula «né aderire, né sabotare la guerra» un contenuto concreto che orientasse il movimento operaio italiano nella sua condotta di fronte alla guerra. Tra la posizione più duttile di Turati e quella insurrezionale di  Bordiga, Lazzari ha l'unico merito di coagulare le masse socialiste in una fedeltà morale ai principi dell'internazionalismo proletario ma non riesce a prospettare uno  sbocco politico.

I giudizi che formula sugli avvenimenti russi denunciano i limiti di una  solidarietà puramente morale che non si prospetta il ruolo concreto che il proletariato italiano potrebbe assumere in difesa della rivoluzione russa. Né la rivoluzione bolscevica suscita in lui alcuno stimolo all'analisi delle possibilità nuove che essa offre alla lotta rivoluzionaria del proletariato italiano ed alle quali commisurare la validità della propria linea politica tradizionale.  

 

Nel dopoguerra; la Terza Internazionale

Nelle elezioni del 1919 fu eletto deputato nei collegi di Milano e Cremona; nel 1921 fu rieletto a Milano, Pavia e Cremona e mantenne tale carica sino al 1926; nel 1920 nelle elezioni amministrative di Roma fu eletto consigliere comunale.

Al congresso di Bologna dell'ottobre 1919 si espresse a favore della rivoluzione, ma da realizzare colla sola arma dell'intransigenza con l'esclusione della violenza pregiudizialmente premeditata e programmata; sulla mozione di Lazzari confluirono i voti dei riformisti. L'esperienza della rivoluzione bolscevica non modificò le sue precedenti convinzioni e non lo  indusse ad una revisione critica della validità della sua precedente linea politica. Al congresso di Livorno del gennaio 1021 confluì nella mozione massimalista e rimproverò gli oratori dell'Ordine nuovo di intellettualismo e di aridità del sentimento.

Dopo il viaggio a Mosca del giugno 1921 per perorare l'accettazione dell'adesione del PSI alla III Internazionale e i colloqui avuti con Lenin[14], Lazzari si convinse della necessità dell'espulsione dei riformisti dal partito, ma non dell'avvicinamento alla linea dei comunisti e tanto meno della fusione col PCI. Nel congresso di Milano dell'ottobre 1921 la mozione di Lazzari per l'accettazione delle condizioni di adesione alla III Internazionale rimane in schiacciante minoranza.

Avvenuta infine l'espulsione dei riformisti nel congresso di Roma dell'ottobre 1922, al congresso di Milano delll'aprile del 1923 si dimostrò incerto e tentennante sulla questione della fusione col PCI, per non abbandonare il vecchio e glorioso nome di socialista. Nel 1924, in occasione della fusione dei "terzinternazionalisti" di Serrati e Maffi col PCI, rimase definitivamente nel campo massimalista, pur non cessando di perorare l'adesione del PSI all'Internazionale comunista.

 

Gli ultimi anni

Era stato estromesso nel 1926 dalla carica come tutti i deputati “aventiniani”  e quindi privato, alle soglie dei settan'anni, dell'indennità che gli permetteva di mantenere[15] la sua piccola famiglia composta dalla moglie Eleonora Vitali e da Caterina, l'orfana adottata nel 1915.  

II padrone di casa - scriveva   il 10 giugno 1926 ad Alessandro Schiavi, che gli forniva per conto della "Fondazione Matteotti" un compenso per scrivere le memorie di cui siamo valsi per questa biografia - mi ha aumentato di altre 100 lire mensili l'affitto del modesto appartamento che occupo qui (a Roma) e così per il solo alloggio devo spendere 15 lire al giorno: capisci dunque come succede che alla metà del mese, io mi trovo assolutamente senza soldi e quindi costretto a ricorrere a ripieghi umilianti e scoraggianti - il Monte di Pietà si è già ingoiato le mie medaglie parlamentari - che io ho bisogno di evitare anche per conservare la volontà e la energia del lavoro"

Il 9 novembre subiva un'ennesima aggressione negli stessi locali di Montecitorio, e così racconta la vicenda in un'altra lettera a Schiavi del gennaio 1927 «recatomi a Roma e presentato alla presidenza della Camera un ordine del giorno contro la pena di morte, venni un'ora prima della seduta assalito sullo scalone interno di Montecitorio da tre deputati fascisti. Mentre due mi tenevano per le braccia, il deputato Starace, atterrandomi e massacrandomi a furia di pugni e calci, mi fece trascinare sanguinolento e tramortito fino sulla soglia del palazzo, dove venni preso dagli agenti e trasportato in vettura al Commissariato dove venni trattenuto fino alle 10 di notte.(...) quando ci penso mi sento tuttora mortificato ed avvilito per la defezione di tutti gli altri fra i quali vi erano uomini validi e giovani ben altrimenti adatti a sostenere la nostra bandiera. Eppure nemmeno uno si era presentato: non dico dei vari e molti aventiniani democratici, popolari, repubblicani, riformisti, ma i massimalisti? Io ne sono e ne rimango vergognato e disgustato... Ora sto facendo le pratiche per vedere di trovare posto in qualche ricovero dei vecchi — tale è la sorte di noi proletari per non lasciarmi vincere dalla disperazione, ma vi riuscirò? A Milano Veratti mi ha scritto che ho perduti i diritti di cittadinanza; qui a Roma non li ho tutti e la fine è vicina».

 Il 23 settembre 1927 «Carissimo Alessandro, da appena un mese sono uscito da una violenta burrasca che si è scatenata contro di me, perché, andato a Milano per raccogliere i dati e i documenti necessari a continuare la storia che sto scrivendo, anche per quell'editore straniero che mi ha già pagato qualche anticipo fui dopo un ritrovo coi miei due fratelli a Brusinpiano, arrestato brutalmente a Luino e carcerato per un mese colà, a Busto Arsizio, a Varese imputato davanti al famoso Tribunale speciale. Ora mi trovo in libertà provvisoria, deferito al tribunale ordinario di Busto Arsizio per un preteso tentato espatrio (che non mi sono mai sognato di fare) e per resistenza ai carabinieri perché essendomi rifiutato di entrare pacificamente in carcere vi fui trascinato a forza e con violenza. Ne sono ancora tutto sbalordito, perché non ti so dire tutti i brutali incidenti che ho dovuto subire in questo periodo in cui ho dovuto attraversare la Lombardia in mezzo ai carabinieri, coperto di ferri e di catene come un malfattore!

«Oggi il ministero detta P.I. a cui ho fatto conoscere le disgraziate condizioni in cui mi trovo, mi ha annunciato che pagherà esso la tassa annuale per la inscrizione al 3° corso magistrale della mia povera e cara bambina, la quale avrebbe dovuto altrimenti abbandonare la scuola... Quindi un raggio di gioia illumina la mia vita”

 Il 20 dicembre 1927, la moglie Eleonora Vitali, annunciava che Costantino era a letto con una polmonite e pleurite.  Poco di poi si spegneva

 

Conclusione

   Questo profilo biografico intende colmare una lacuna, tanto più che a Giacinto Menotti Serrati o Nicola Bombacci, per citare qualche esempio di personaggi a lui contemporanei e della stessa area politica, sono state dedicate recenti (e meno recenti) monografie [16].

   L'influenza che Lazzari esercitò nel movimento operaio e socialista nel ventennio dal 1880 al 1990, che coincide forse non casualmente con il periodo trattato nell’autobiografia, è stata decisiva. Quando rientò in gioco ai massimi livelli dopo la lunga egemonia riformista, con la vittoria del massimalismo al congresso di Reggio Emilia del 1912, si fecero evidenti i suoi limiti personali, culturali, politici, tra l'alto dovendo esercitare la sua segreteria in un periodo storico decisamente critico come quello tra l'impresa libica, l'intervento nella Grande guerra e il dopoguerra.

   Riportiamo a questo proposito un vecchio giudizio che riteniamo sostanzialmente giusto: “...Malgrado le apparenze si deve concludere che non è mai stato un capo, che gliene sono mancate le qualità più indispensabili. Un capo esprime da un lato i bisogni, le tendenze del movimento a cui è legato, e dall'altro li precorre, segnando la strada. La prima di queste cose si è realizzata in Lazzari compiutamente, ed è appunto perciò che egli è così “rappresentativo”: il movimento operaio si rispecchia in lui coi suoi lati positivi e negativi, con grande fedeltà. Diciamo: con ecces­siva fedeltà. Perché in Lazzari è mancato appunto il secondo elemento, quello pel quale il partito politico adempie, conservando i suoi legami con le masse, alla sua funzione di avanguardia»[17]  giudizio sostanzialmente ribadito dall'Arfè nella sua "Storia del socialismo italiano”[18] di cui riproduciamo alcuni brani: “Il dogma dell'intransigenza è quello alla cui luce affronta i pesanti compiti  nel momento in cui viene a trovarsi a capo della nuova maggioranza.(…) Intransigenza per lui significa rifiuto di ogni compro­messo e di ogni patteggiamento, addirittura di ogni con­tatto con gli istituti della borghesia, con le forze politiche e con le organizzazioni che non abbiano la duplice qualifica di proletarie e di socialiste nell'attesa che i «diversi avvenimenti portino, alla disgregazione del «regime politico della borghesia». Il problema di come influire sugli avvenimenti, di come agire nel momento in cui tale disgregazione si verifichi, gli è pressoché estraneo.Il nesso tra il corso delle cose e l'opera degli uomini, che nei riformisti era apparso viziato da determinismo, viene concepito da Lazzari in forme di puro fatalismo. È Lazzari che di fronte alla guerra lancerà la formula del «né aderire né sabotare», la quale può anche esser considerata come un felice compromesso tra le esigenze dell'ideale e le necessità delle circostanze, ma che cristallizza l'atteggiamento del partito, bloccan­dolo su una posizione entro la quale non troveranno postò nei momenti decisivi né il discorso del Grappa di Turati - il tentativo cioè di gettare un ponte tra il proletariato e la coscienza patriottica del paese -, né la parola d'ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria. Sarà anche Lazzari che nell'immediato dopoguerra ac­cetterà la rivoluzione ma si opporrà all'abbandono del programma di Genova e avverserà il pregiudiziale richia­mo alla violenza, accettando su tale piattaforma la scomo­da confluenza dei voti riformisti(…) Ed è lui che nel congresso di Livorno, ai gio­vani oratori dell'« Ordine Nuovo », a Gramsci e a Terra­cini, rimprovera l'intellettualismo e l'aridità di sentimento che li fanno estranei alla tradizione socialista del buon ceppo antico (…) Gli anni del primo fascismo lo vedranno impavido e im­mobile in atteggiamento da profeta”

 

Nota sull'autobiografia

L’utilizzo in ambito storico di una narrazione autobiografica pone il problema che l'autore è insieme anche la propria fonte: ciò che ne sca­turisce non è quindi «la» verità; è «una» verità, condizionata per di più da una serie di fattori [19].

In primo luogo il «tipo storiografico»: la biografia è il punto d'incrocio tra il tempo «medio-lungo» dell' «ambiente» storico (il contesto economico, le mentalità, i sistemi istituzionali che vivono in forma relativamente indipendente dal singolo individuo che ne è parte e che gli sopravvivono) e le scansioni rapide del breve lasso di tempo che all'individuo è dato vivere: la biografia esprime quindi la cadenza degli avvenimenti individuali, «fissandoli» su quella fascia di confine con la «grande storia», su quel contesto che viene a fungere così da scenario, per «ambientarlo». 

La biografia è uno dei punti più alti del­l' «arte» storiografica e insieme, proprio per il suo intrecciare «corso della vita» e «ambiente» intorno alla centralità del soggetto protagonista,  uno dei generi storiografici più vicini alle radici stesse della storia: «La più originaria di queste connessioni (costituenti la struttura del mon­do storico) è formata dal corso della vita di un individuo in un certo ambiente, da cui esso riceve influen­ze e su cui reagisce»[20]. Dunque, la bio­grafia come genere storiografico per eccellenza e l'identità come oggetto privilegiato della storia. E tuttavia l'ambiente finisce per essere inevitabilmente sacrificato, «ritagliato sul soggetto» e ridotto a «scorcio».

Il secondo fattore è relativo al tipo di narrazione. La storia è comunque «racconto di avvenimenti». «Il vissuto così come esce dalle mani dello storico   non è quello degli attori. È una narrazione. Come il romanzo, la storia trasceglie, semplifica, organizza, racchiude un secolo in una pagi­na. E questa sintesi propria del racconto non è meno spontanea di quella prodotta dalla nostra memoria quando rievochiamo gli ultimi dieci anni della nostra vita»[21]. La struttura del racconto si sovrappone alla struttu­ra della realtà e la riplasma. Nella autobiografia il protagonista narra addirittura se stesso. Si misura, cioè, con la propria identità e autocoscienza, e sceglie una forma narrativa.

In genere, essa è strutturata sul primato della cronologia. La successio­ne temporale non sembra solo costituire lo strumento più adeguato a imporre un ordine logico al racconto, ma anche la formula più efficace a strutturare la rappresentazione della propria identità, vissuta qui come linearità della memoria. Ci sono nella narrazione tempi «pieni», affollati, tratti in cui il discorso si fa serrato, incalza quasi giorno per gior­no. La memoria, qui, aderisce al tempo in forma quasi perfetta. Sono i momenti alti della biografia, quelli in cui l'identità si è espressa nella storia nella forma più piena e consapevole. E vi sono tempi «vuoti», deserti d'immagini e di ricordi, dove il racconto procede stentato, non ritrova la materia di cui nutrirsi, lascia ampie pause. Sono i  momenti "bassi" della biografia, quelli in  cui l'identità matura le proprie svolte, ela­bora lentamente e silenziosamente il proprio sviluppo, senza trovare riscontri esterni di tipo «événementiel». Il tempo qui sembra aver perduto di slancio e pulsare quindi col mero ritmo della natura.

Tutto ciò che implica un maturazione fatta di piccole modificazioni nell'atteggiamento e nel  modo di pensare e che, a processo terminato, si presenta come la formazione di una «posizione» politica, di una concezione del mondo, di una scelta, deve trovare, per essere comunicato, una struttura narrativa aneddotica, deve sintetizzarsi in un episodio il cui  messaggio ha delle analogie con la mitologia. Ciò appare particolarmente evidente per l'elaborazione delle strutture morali, dei sistemi di valori, che hanno un ruolo decisivo nella definizione dei meccanismi e delle motivazioni dell'adesione al socialismo: vi è quasi sempre, a sanzionare la maturazione di un valore, o l'adesione ad un idea­le, un episodio da «via di Damasco».



[1]  Ved. un ritratto corrosivo anonimo in “Rivoluzione Liberale” 1922, n.30. Ezio Riboldi in “Vicende socialiste. Trent'anni di vita italiana nei ricordi di un deputao massimalista”, Milano, 1964,  riferisce una conversazione avvenuta tra Lenin e Lazzari che, alla sollecitazione del capo dei bolscevichi per l'occupazione delle fabbriche rispose: «Sì, l'idea è giusta, ma poi... che ne facciamo degli industriali?». E Lenin, ammiccando: « Liquidateli! »... « Ma scior Lenin — esclamò in dialetto milanese il buon Costantino — nun milanes semm brava gent».

[2] Ma c'e qui anche un pregiudizio antimerdionale che si ripresenta nel tempo, come si desume da un ricordo  del   comunista siciliano Gerolamo Li Causi in "Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944", Roma, 1974: "...Ricordo una frase di Lazzari a proposito di Bordiga: "L'è un  napoletano", come per dire, in  senso spegiativo, che era uno le cui opinioni non contavano perchè non aveva niente a che vedere con la classe operaia del Nord"

[3] In  Movimento operaio e socialista” nei numeri 4 e 5 del 1952. Su caratteri e problemi delle autobiografie vedere la nota in appendice

[4] "Una città nella storia dell'Italia unita: classa politica e ideologie in Cremona nel cinquantennio  1875-1925" a c. di F.Invernici, Cremona, 1986. Dal filone laico e positivista con influenze massoniche gemmò anche il socialismo che dal 1893 trovò una sua visibilità organizzativa con l'apertura della Camera del Lavoro fondata da Garibotti, Quaini e Bissolati, che fu alla base di un mix costituito da un tranquillo riformismo municipalista e dall'estremismo presente nello scontro sul terreno sindacale spesso in concorren­za con le Leghe bianche. Ved. CGIL Cremona, Ottantanni di lotte del movimento operaio cremonese, Cremona, 1974

 

[5] R.Zangheri “Storia del socialismo italiano”, Torino, 1997, pag.212

[6](1837-1917) Giovanna Angelini, Il socialismo del lavoro : Osvaldo Gnocchi-Viani tra mazzinianesimo e istanze libertarie, Milano, 1987; Franco Della Peruta, Osvaldo Gnocchi Viani nella storia del movimento operaio e del socialismo, Milano, 1997

[9] Questo il testo: Su fratelli, su compagne / su, venite in fitta schiera: / sulla libera bandiera / splende il sol dell'avvenir./ Nelle pene e nell'insulto /  ci stringemmo in mutuo patto, /  la gran causa del riscatto /  niun di noi vorrà tradir. / Il riscatto del lavoro / dei suoi figli opra sarà:/o vivremo del lavoro / o pugnando si morrà. / La risaia e la miniera / ci han fiaccati ad ogni stento / come i bruti d'un armento / siam sfruttati dai signor./ I signor per cui pugnammo / ci han rubato il nostro pane,/ ci han promessa una dimane:/ la diman si aspetta ancor./ Il riscatto del lavoro.../ L'esecrato capitale / nelle macchine ci schiaccia, / l'altrui solco queste braccia / son dannate a fecondar. / Lo strumento del lavoro / nelle mani dei redenti / spenga gli odii e fra le genti / chiami il dritto a trionfar. / Il riscatto del lavoro.../ Se divisi siam canaglia, / stretti in fascio siam potenti;sono il nerbo delle genti / quei che han braccio e che han cor. / Ogni cosa è sudor nostro, / noi disfar, rifar possiamo; / la consegna sia: sorgiamo / troppo lungo fu il dolor. / Il riscatto del lavoro.../ Maledetto chi gavazza / nell'ebbrezza dei festini, / fin che i giorni un uom trascini / senza pane e senza amor. / Maledetto chi non geme / dello scempio dei fratelli, / chi di pace ne favelli / sotto il pie dell'oppressor. / Il riscatto del lavoro.../ I confini scellerati / cancelliam dagli emisferi; / i nemici, gli stranieri / non son lungi ma son qui. / Guerra al regno della Guerra, / morte al regno della morte; / contro il dritto del del più forte, / forza amici, è giunto il dì./ Il riscatto del lavoro.../ O sorelle di fatica / o consorti negli affanni / che ai negrieri, che ai tiranni / deste il sangue e la beltà. / Agli imbelli, ai proni al giogo / mai non splenda il vostro riso: / un esercito diviso / la vittoria non corrà. /Il riscatto del lavoro.../Se eguaglianza non è frode, / fratellanza un'ironia,/ se pugnar non fu follia / per la santa libertà;/ Su fratelli, su compagne, / tutti i poveri son servi: / cogli ignavi e coi protervi / il transigere è viltà. /  Il riscatto del lavoro... 

 

[10] Agostino Berenini e la societa fidentina tra ottocento e novecento  Fidenza , 1992

 

[11] C.Lazzari I principii e i metodi del Partito socialista italiano: esposizione del programma e commenti, Milano, 1911

 

[12] 27 febbraio 1918; questi appunti con alcune lettere aono stati pubblicati da Alceo Riosa in "Studi Politici", 1989

[13]  6 marzo 1918.

[14] Ezio Riboldi, “Vicende socialiste.Trent'anni di vita italiana nei ricordi di un deputao mssimalista”, Milano, 1964

[15]"Trovandosi in serie difficoltà economiche, artatamente aggravate dalla stessa POLPOL, il vecchio capo socialista, al quale in un primo momento era stata promessa la nomina a Commissario della liquidata «Casa del Popolo», e che, come scrisse Bocchini, appariva dominato dal «terrore del domani senza pane», agli inizi del luglio 1927, in un incontro con Bocchini, dopo aver supplicato per l’ennesima volta la nomina, accettò di collaborare con la polizia fascista. […] Ma il cedimento del vecchio socialista fu di breve durata, poiché già a metà luglio scriveva una lettera a Pallottino con la quale in definitiva si sottraeva all’incarico fiduciario. Questa volta la POLPOL passava all’offensiva, dando indicazioni ai suoi fiduciari all’estero, infiltrati nelle organizzazioni antifasciste, di «diffondere abilmente negli ambienti dei fuorusciti la notizia che Costantino Lazzari il vecchio leader del socialismo italiano ha fatto il confidente alla Polizia Italiana mediante compensi in denaro». […] La manovra venne avviata e, crediamo, non fu del tutto estranea alla morte, sopravvenuta di lì a poco, nel dicembre 1927, di Costantino Lazzari."

[16] A.M.Rosada “Serrati nell’emigrazione”, Roma, 1972; A.Natta “Serrati: vita e lettere di un rivoluzionario”, Roma, 2001;G.Salotti “Bombacci da Mosca a Salò”, Roma, 1986;  P.Noiret “Massimalismo e crisi dello stato liberale. Nicola Bombacci”, Milano, 1992

[17]Costantino Lazzari. 1851-1927” in “Lo Stato Operaio”, genn.-febbr., 1928

[18] G.Arfè “Storia del socialismo italiano (1892-1926)”, Torino, 1965

[19] F. Giagnotti (a cura di) “Storie individuali e movimenti collettivi: i dizionari biografici del movimento operaio”, Milano, 1988; M.Revelli "Maurizio Garino: storia di un anarchico", in "Mezzosecolo", n.4 (1984)

[20] W.Dilthey "Critica della ragione storica", Torino, 1982

[21]P.Veyne "Come si scrive la storia", Bari, 1973, pag. 11

antifascismo
ricerca
anpi
scrivici
home

 

.