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Biografie

pallanimred.gif (323 byte) Ernesto Rossi

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Nacque a Caserta nel 1897. Non ancora diciannovenne andò volontario in guerra. Di ritorno dal fronte, l'ostilità per i socialisti che s'erano fatti un punto d'onore a vilipendere i sacrifici dei reduci di guerra e il disprezzo per una classe politica chiusa ad ogni respiro ideale e come ripiegata su se stessa, l'una e l'altra cosa insieme vellicarono gli istinti antiparlamentari e condussero Ernesto Rossi ad accarezzare le stesse speranze ed i medesimi obiettivi dei nazionalisti prima e dei fascisti poi. Fu in quel giro di tempo, dal 1919 al 1922, che Rossi prese a collaborare al "Popolo d'Italia", il quotidiano diretto da Mussolini. Ma fu precisamente in quel periodo che egli conobbe Gaetano Salvemini. A Salvemini, Ernesto Rossi si legò fin da subito e il vincolo dell'amicizia, oltre che dall'ammirazione e dall'affetto, venne ben presto cementato dalla piena intesa intellettuale. "Se non avessi incontrato sulla mia strada" - ebbe a scrivere Ernesto Rossi - al momento giusto Salvemini, che mi ripulì il cervello da tutti i sottoprodotti della passione suscitata dalla bestialità dei socialisti e dalla menzogna della propaganda governativa, sarei facilmente sdrucciolato anch'io nei Fasci da combattimento". Dopo di allora, il suo percorso non conobbe sviamenti nè fu punteggiato dal dubbio. Una certezza vibrò sempre affermativa nelle sue opere, e tutto - l'intrepida moralità, la causticità sibilante, l'astuzia affilata - tutto, proprio tutto, venne posto al servizio di questa certezza, che poi era la certezza di dover difendere comunque e ad ogni costo le ragioni della libertà. Di qui l'implacabile determinazione con la quale avversò il regime fascista. Quale dirigente, insieme con Riccardo Bauer, dell'organizzazione interna di "Giustizia e Libertà", pagò la sua intransigenza con una condanna del Tribunale speciale a venti anni di carcere, di cui nove furono scontati nelle patrie galere e quattro al confino di Ventotene. Qui, con Altiero
Spinelli ed Eugenio Colorni maturò più compiutamente quelle idee federalistiche che nel 1941 dovevano ricevere il loro suggello nel celebre Manifesto di Ventotene.
All'indomani della Liberazione, in rappresentanza del Partito d'Azione, fu sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri e presidente dell'Arar (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958. Dopo lo scioglimento del Partito d'Azione aderì al Partito Radicale di Pannunzio e Villabruna di cui però, sentendosi come "un cane in chiesa" (sono parole sue), rifiutò ogni incarico direttivo preferendo dedicarsi alla scrittura di libri e al giornalismo d'inchiesta sul "Mondo". La collaborazione al "Mondo", iniziata sotto i migliori auspici nel 1949 (quando Mario Pannunzio, proprio lui, il direttore dalla vigilanza occhiuta e minuziosa, gli promise che i suoi articoli li avrebbe letti "solo dopo pubblicati"), la collaborazione al "Mondo", dicevamo, iniziata nel 1949, continuò ininterrotta per tredici anni, fino al 1962. Fu la stagione d'oro di Ernesto Rossi, durante la quale egli potè assecondare il genio profondo che lo agitava dentro, quello che lo traeva a tirare per il bavero anche le barbe più venerande, denunciandone le malefatte, irridendone le asinerie, sbugiardandone le falsità. I suoi articoli migliori Ernesto Rossi li raccolse in volumi dai titoli famosissimi, così famosi da diventare patrimonio della lingua comune. Due per tutti: I padroni del vapore (Bari, 1956) e Aria fritta (Bari, 1955). Dal 1962 in avanti svolse la sua attività di pubblicista su "L'Astrolabio" di Ferruccio Parri.

Nel dicembre del 1955 fu tra i fondatori del Partito radicale, inizialmente denominato Partito Radicale dei Democratici e dei Liberali Italiani, insieme a Leo Valiani, Guido Calogero, Francesco Compagna, Giovanni Ferrara, Felice Ippolito, Franco Libonati, Alberto Mondadori, Arrigo Olivetti, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Rosario Romeo, Nina Ruffini, Eugenio Scalfari, Paolo Ungari.

Nel 1966, quando la strada della sua vita andava ormai discendendo, gli fu conferito il premio "Francesco Saverio Nitti", che molto lo confortò e, in parte, lo ripagò di un'esistenza scontrosa che gli era stata assai avara di riconoscimenti accademici. L'anno successivo, il 9 febbraio del 1967, Ernesto Rossi moriva a Roma. Aveva sessantanove anni. Pochi mesi prima, in una lettera a Riccardo Bauer, aveva scritto parole presaghe che vibrano di un'accensione poetica: "se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finchè il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe". E poi: "Io non ho mai avuto paura della morte. Mi è sempre sembrata una funzione naturale, inspiegabile com'è inspiegabile tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po' prima o un po' dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all'eternità, che non riusciamo neppure ad immaginare. Ma ho sempre avuto timore della "cattiva morte". Sia consentito aggiungere che se la "cattiva morte" è di chi
non ha saputo vivere della tranquillità della propria coscienza, è assolutamente da escludere che la morte possa essere stata "cattiva" con Ernesto Rossi.

(a cura di Gaetano Pecora)
 

 

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