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I campi italiani 1940-1943

pallanimred.gif (323 byte) Renicci di Anghiari (luglio 1942-settembre 1943)

a cura di Stefania Berizzi, Simone Duranti, Valeria Galimi e Valentina Piattelli

Il campo di concentramento di Renicci di Anghiari, nella frazione di Motina in provincia di Arezzo fu ufficialmente costituito nell’ottobre 1943 per ospitare internati slavi, per lo più deportati dalla Slovenia e dalla Croazia, raccolti qualche mese dopo l’invasione di tali regioni da parte delle truppe italiane. Esso restò in funzione fino al settembre 1943, quando la notizia dell’armistizio fece fuggire gli uomini di guardia, e dopo di essi, i prigionieri. Dell’esistenza del campo, che tra quelli costruiti in Italia durante il regime fascista, si distinse per la gravità delle condizioni di vita e l’alta mortalità degli internati, pare che non siano rimaste tracce.

Il campo di Renicci è pertanto un luogo privo di memoria: non esiste difatti nessun complesso museale che ne ricordi la vita o la funzione, ma neppure vi è presente una lapide o un cippo. Sono rimasti solo alcuni edifici in muratura, che sono stati mantenuti e non distrutti come tutto il resto ed adibiti ad altra funzione. Se il campo è privo di una memoria visibile, esso non gode neppure della cosiddetta mémoire savante, non esistendo studi approfonditi su tale argomento, mentre esistono d’altro canto una serie di pubblicazioni su un altri campi fascisti per slavi. Su Renicci vi sono soltanto studi a carattere locale, opuscoli spesso privi di valore storico oppure l'intervento di Giorgio Sacchetti ad un convegno sulla "Guerra di sterminio e la resistenza", tenuto ad Arezzo, che è focalizzato a ricostruire l'esperienza dei deportati anarchici provenienti dall'isola di Ventotene giunti a Renicci dal luglio 1943, e che permette solo di trarre una visione parziale del fenomeno del campo di Renicci.

Lo scopo della presente comunicazione, e soprattutto del lavoro che il gruppo si è proposto di intraprendere, è duplice; da una parte, vi è il tentativo di ricostruire l’esistenza e la funzione del campo di Renicci, all’interno del sistema concentrazionario fascista, arricchendo le informazioni desunte dalla documentazione ufficiale relativamente scarsa (Archivi locali della provincia di Arezzo, Archivio Centrale dello Stato) con testimonianze di ex-internati sopravvissuti. Obiettivo non secondario e parallelo permane quello di favorire la memoria pubblica, attualmente quasi inesistente, intorno all’esistenza stessa del campo e alla storia delle deportazioni fasciste. Sarebbe infine importante che fosse posta nel campo stesso una testimonianza "visibile" in memoria delle persone ex internate a Renicci.

Il conflitto di competenza per l’amministrazione del campo.

La principale difficoltà per la ricostruzione delle vicende concernenti il campo di Renicci, - dalle condizioni materiali al flusso degli internati- , consiste nel fatto che la documentazione prodotta negli anni in questione e conservata in loco, fu distrutta, subito dopo la liberazione del campo, dai prigionieri stessi, per timore di possibili rappresaglie. D’altra parte, non è presente, fra le carte del Ministero degli Interni -come per la maggior parte dei campi di internamento fascisti, un dossier completo relativo a Renicci, dal momento che esso fu amministrato dalle autorità militari e quindi sotto la giurisdizione dello Stato Maggiore del R.Esercito, i cui archivi non sono aperti alla consultazione.

Dal gennaio 1943 al settembre dello stesso anno si svolse una fitta corrispondenza tra il Ministero degli Interni e il Ministero della Guerra, con l’intervento della Presidenza del Consiglio, sulla sistemazione degli internati civili sloveni e sulla conseguente competenza dell’amministrazione dei campi di Renicci, Arbe, Gonars, Padova, Treviso in cui vi erano raccolte circa 20 mila persone. In una nota del febbraio "il Comando supremo ha fatto rilevare che trattasi di una questione che andrebbe sollecitamente risolta anche perché della definitiva sistemazione dei campi dipende il graduale miglioramento delle condizioni degli internati, cosa che ha evidenti riflessi politici". Da parte del Sottosegretariato di Stato fu in seguito deciso di affidare l’amministrazione di tali campi all’amministrazione civile, poiché "al provvedimento della cessione sono connessi importanti problemi di carattere politico, assistenziale e propagandistico la cui soluzione è, d’altra parte, di esclusiva competenza dell’autorità civile".

In una comunicazione dell’aprile 1943 si poteva leggere:

[..] si rende noto che il duce ha sancito i seguenti criteri relativi all’argomento in oggetto: - l’autorità militare e l’autorità civile possono entrambe e con piena indipendenza disporre l’internamento delle persone pericolose, in conseguenza delle rispettive azioni svolte a tutela dell’ordine pubblico; [...]

- il Comando Superiore Forze Armate Slovenia-Dalmazia conserverà il governo dei campi di concentramento dislocati nei territori annessi e del campo di Visco: gli altri campi di concentramento saranno assunti dal Ministero dell’interno".

In risposta, il Ministero degli Interni comunicò di essere impossibilitato non solo di assumere "la gestione dei campi di internamento civili sloveni [...], ma anche i futuri sviluppi della esistente organizzazione", con la costruzione di nuovi campi ai quali far affluire "gli internati civili sloveni che saranno, in seguito ad operazioni di polizia, rastrellati dalle Autorità militari", a causa delle difficoltà di reperire il materiale necessario per la loro costruzione e loro funzionamento. Difatti il passaggio di competenze fra le due amministrazioni non si verificò mai.

Descrizione del campo.

Il campo di concentramento di Renicci si estendeva su un’area di 17,5 ettari ed era suddiviso in tre settori a pianta quadrata (il III mai completato) non comunicanti fra loro. I settori erano divisi da un corridoio centrale dove si trovava una cappella per le funzioni religiose e una camera di disinfestazione a gas. Ogni settore era munito di una doppia recinzione a rete e griglie di filo spinato. Il perimetro del campo era poi intervallato da garitte distanti 50-60 metri l’una dall’altra.

Ogni settore del campo doveva presentare lo stesso numero di strutture: 12 baracche in foratini ricoperti di bandoni metallici, 1 baracca- convegno per i.c., 1 spaccio di distribuzione, 1 camera di punizione per i.c., 1 edificio per attività di barbiere, sarto e calzolaio per i.c., 1 cucina e dispensa, 1 infermeria per i.c., 1 infermeria per i.c., 1 infermeria e bagni per i.c. in isolamento.

Adiacenti il III settore, mai completato, si trovavano un magazzino, le due baracche per la guarnigione, l’edificio per il comando del settore ed un altro adibito a residenza dell’ufficiale di picchetto, la cucina e il corpo di guardia.

Nell’area antistante il campo, quella che si domina dalla strada che da Anghiari porta al campo di Renicci, si trovano tuttora le strutture per l’amministrazione: la villa del comandante, attualmente abitata, l’infermeria, gli alloggi degli ufficiali e quello per il nucleo di carabinieri. Fra gli edifici ancora visibili vi sono anche la camera mortuaria ed il magazzino automezzi, ora integrati con le abitazioni dei proprietari attuali.

La storia del campo autunno 1942-primavera 1943.

Dal luglio del 1942, parte degli internati civili sloveni e croati dei campi del Nord-Est d’Italia (Chiesanuova, Monigo, Gonars) vennero inviati in altri campi, per far posto ai nuovi internati che stavano arrivando dalle zone occupate della Jugoslavia, in particolare dalla "Provincia di Lubiana". La maggior parte fu trasferita nel grande campo di Arbe, capace di detenere 20.000 persone, mentre i restanti, tutti uomini, furono trasferiti nel campo di Renicci. Proprio nel luglio del 1942 l’Impresa Arch. G. Berni & Figli di Firenze venne incaricata dal Genio Militare di Firenze della costruzione urgente di un nuovo "campo di concentramento per prigionieri di guerra in località Renicci, frazione Motina di Anghiari". A fine ottobre del 1942, il campo, contrassegnato con il numero 97, cominciò a ricevere i primi internati, 1350 persone, e quello che era nato come un campo per prigionieri di guerra, venne "adibito alla per internati civili amministrati dall’autorità militare". Alla fine dei lavori, il campo avrebbe dovuto avere una capienza di 9.000 persone. Dopo il primo scaglione, proveniente dai campi del Nord Est, il campo di Renicci divenne dall’inizio del 1943 una delle mete di deportazione per i convogli di internati provenienti dai presidi militari di Slovenia e Dalmazia.

Fin dall’inizio le condizioni di vita furono assai precarie, le baracche non erano ancora state completate e la maggior parte degli internati fu costretta a dormire in tende per tutto l’inverno.

Il campo [...] fu approntanto in breve tempo, anche perché i fascisti si accontentarono di costruire il recinto, senza preoccuparsi di come avrebbero vissuto all’intenro i 5000 intenrati qui trasferiti. Furono allestite delle cucine provvisorie e per i militari furono costruite delle baracche; gli internati furono sistemati invece in tende a gruppi di 15-20, ognuno di essi ricevette una piccola coperta militare che sarebbe più esatto chiamare straccio più che coperta"

Quando, all’inizio di novembre, si verificò il primo decesso, si pose il problema della sepoltura degli internati. Dopo aver saputo dal Comandante del Campo che vi sarebbe stata "una non lieve percentuale di morti", fu il pievano di Micciano stesso a chiedere al Podestà di Anghiari di provvedere con una soluzione duratura "ai futuri inevitabili seppellimenti" concendendo il permesso di riutilizzare un vecchio cimitero. Nel diario il pievano Don Giglioni scriveva:

Altra novità, ma questa assai triste, è che nei confini della mia parrocchia il Governo ha fatto costruire un campo di concentramento. Vi sono internati 4500 croati e slavi. La nostra truppa è costituita da 500 militari. Date le pessime condizioni fisiche inc ui si trovano gli itnernati per avere insistito in una guerra impossibile contro l’Italia, ogni gionro ne muore uno o due. I primi furono seppelliti nel cimitero parrocchiale, ma dietro mio interessamento presso il comune di Anghiari fu riadattato il vecchio camposanto.

Attualmente le spoglie dei 446 caduti jugoslavi sono state raccolte dal sig. Goretti stesso in un sacrario a San Sepolcro. Di questi soltanto 106 sono morti a Renicci e una quarantina negli ospedali vicini; gli altri sono partigiani jugoslavi uccisi dopo l’8 settembre che erano stati internati in gran parte a Renicci, ma anche in altri campi dell'Italia centrale.

La maggior parte dei decessi sembra fosse dovuta alle pessime condizioni alimentari e igienico-sanitarie, come raccontanto due ex internati:

Ci nurivano molto male, una minestra di poca verdura con cinque maccaroni per lopiù. Le condizioni igieniche erano terribili. L’acqua corrente non c’era le latrine semplicissime erano all’aperto, soltanto un tetto ci proteggeva dalla pioggia.

Il freddo dell’inverno e la scarsità del vitto resero dura la vita al campo; eravamo pieni di pidocchi di cui ci liberammo a fatica soltanto nella primavera quando la temperatura si fece più mite e cominciarono a costruire le baracche. In questo periodo morirono di fame e di dissenteria 114 persone.

Si è conservato un documento dell’Unione Fascista Commercianti - Ufficio Distribuzione Generi Alimentari che rimetteva all’E.I.C.A., Cooperativa di Consumo Operaia di Sansepolcro, l’assegnazione per gli internati di 50.000 buoni per pasta per mese di febbraio. Poiché il numero degli internati a quel mese era di 2261 persone, si deve desumere che essi non ricevessero neanche una razione a testa al giorno, come evidenziato anche dalle testimonianze degli internati stessi. Inoltre gli internati furono utilizzati come manodopera per la costruzione e l’ingrandimento del campo stesso e poi, dopo il marzo del 1943, anche per la sistemazione idraulica dell’alveo del Tevere in una zona distante sei chilometri nel comune di Pieve Santo Stefano.

Nonostante il perdurare di tali condizioni di vita, le autorità centrali avrebbero voluto costruire ulteriori campi di concentramento nella provincia. Le autorità locali si espressero negativamente data la presenza nella provincia di numerosi sfollati e di due grandi campi di concentramento, Renicci e Laterina, quest’ultimo per prigionieri di guerra alleati.

Estate 1943: l’arrivo dei internati politici italiani.

Quando, agli inizi di luglio, fu predisposto lo sfollamento degli internati italiani delle isole e del Sud Italia, gran parte di questi venne inviata proprio nel campo di Renicci, tanto che divenne necessario aumentare il numero di carabinieri di guardia, fino ad arrivare a 2 ufficiali e 50 fra sottoufficiali e militi. Infatti gli internati del provenienti dal Sud Italia erano sottoposti all’autorità di polizia, ed anche nel campo vennero sistemati in un settore a parte, il secondo, separati dagli slavi.

"Questo [campo] era stato fino ad allora uno dei peggiori del genere. I prigionieri erano in massima parte partigiani jugoslavi e con essi erano centinaia di minorenni e ragazzi di pochi anni. Il regime alimentare era stato sempre scarso e pessimo; centinaia di internati, specialmente bambini e ragazzi, erano morti a causa del pessimo trattamento. [...] Dopo alcuni giorni di dure schermaglie il comandante del campo, colonnello Pistone, decise di togliere il divieto di intercomunicazione fra i prigionieri dei vari raggi ed ai ragazzi fu raddoppiata la razione alimentare che era costituita da qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere, che provocava epidemie di coliti e dissenteria.

Il contingente più numeroso arrivato a Renicci nell’estate del 1943 risultò essere quello proveniente da Ventotene, 800 internati, seguirono poi altri arrivi da Ponza (541) e Ustica (171). Si trattava prevalentemente di montenegrini e albanesi, di cui una parte ufficiali e sottoufficiali dell’ex esercito jugoslavo, di alcuni greci e di un gruppo consistente di anarchici italiani e di qualche antifascista trattenuto soltanto a causa del cognome straniero (ad esempio Giorgio Jaksetich e Giuseppe Srebrnich). A causa di questi arrivi, alla fine di luglio la popolazione del campo era arrivata a 3620 internati.

E’ proprio dell’estate del 1943 uno dei documenti più interessanti: la relazione dell’Ispettore Speciale della VI Zona e la relazione del comandante del campo allegata. La prima parte, datata 5 agosto 1943, è la positiva relazione dell’Ispettore militare sul campo di Renicci,

"comandato da circa un anno dal Colonnello di Fanteria Giuseppe Pistone, che con rigida disciplina e la rigorosa osservanza dei regolamenti fa tutto funzionare nel modo più perfetto".

Il colonnello Giuseppe Pistone era già stato comandante del campo di Chiesanuova, presso Padova, ed è stato definito come uno dei criminali di guerra "responsabili del trattamento disumano degli internati". La relazione dell’Ispettore doveva avere lo scopo di verificare la possibilità di inviare nel campo altri internati.

"In conclusione, si può affermare, che il campo per la sua ubicazione in località isolata e lontano da centri abitati; per essere ben recintato da reticolati di ferro; per la rigida fermezza del Comandante e per ogni altra considerazione offre tutte le garanzie per potervi ospitare elementi particolarmente pericolosi."

Infatti in quel mese era in costruzione un terzo settore del campo capace di accogliere altri 3.000 internati ed erano stati approvati i progetti per la costruzione di un quarto settore, tanto che la capienza definitiva sarebbe arrivata a circa 10.000 internati.

Nella relazione del comandante del campo, Giuseppe Pistone, allegata a quella dell’Ispettore, vengono esposti i suoi timori per la propaganda comunista e per i possibili progetti di ribellione o evasione che si stavano diffondendo fra gli slavi a causa soprattutto, a suo dire, dell’arrivo degli internati slavi provenienti da Ustica: circa 400 ufficiali e sottoufficiali dell’esercito jugoslavo. Poi si sofferma più a lungo sugli internati italiani provenienti da Ustica, quasi tutti anarchici, dei quali egli dice:

"sentono invece la grave ora che attraversa la Patria, e reagiscono offesi all’atteggiamento degli Slavi, alla loro certezza nella vittoria inglese nonché ai loro propositi di futura vendetta contro gli italiani. Mantengono atteggiamento serio, ispirato a fiducia nei destini della Patria."

Vi sono però delle eccezioni come Gigante, che "ha abiurato la patria" ed alcuni anarchici per il quali il Pistone dice di essere ricorso a misure di rigore quali la camicia di forza, l’internamento in ospedale psichiatrico e la denuncia al Tribunale Militare per atti di ribellione e per offese. Il resto della relazione è tutto teso alla scoperta di attività comuniste nel campo, in particolare di un’attività di soccorso tramite l’analisi della provenienza dei vaglia arrivati agli internati.

Il 10 settembre 1943, secondo quanto riferito dal Maresciallo Tronci al Ministero degli Interni, le truppe di stanza al campo aprirono il fuoco sugli internati per "ristabilire l’ordine" dopo che questi avevano cominciato a cantare l’inno rivoluzionario russo, ferendone quattro. E’ il preludio alla fuga dal campo avvenuta pochi giorni dopo; il 15 settembre il nuovo prefetto Soldaini manda un telegramma al Ministero dell’Interno sulla situazione dell’ordine pubblico:

"Ieri evasero da campo concentramento Renicci internati civili circa quattromila avendo ufficiali e truppa abbandonato loro posto. Comando tedesco sta ora compiendo azione polizia contro evasi alcuni dei quali armati".

L’ultimo documento che faccia riferimento a Renicci prima della liberazione è la relazione sulla situazione politica economica della Provincia del 10 marzo 1944, firmata dal Questore:

"Renitenti si aggirano sulle montagne della provincia ed in unione ad evasi stranieri dai campi di concentramento hanno costituito bande armate che commettono talvolta reati."

Infatti gli ex internati si unirono in parte alle bande partigiane locali, ma formarono anche un battaglione autonomo di soli slavi che operava nella zona, il battaglione Dusan.