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Prima dei lager: gli Einsatzgruppen

a cura di Aldo Pavia e Antonella Tiburzi

 

pallanimred.gif (323 byte) L'ECCIDIO DI BABI YAR

Nonostante l’ordine di Stalin di “tenerla a tutti i costi”, Kiev, capitale dell’Ucraina, cadde il 19 settembre 1941. I camion tedeschi si riversarono per le vie della città e subito la popolazione venne obbligata a distruggere le barricate che bloccavano i principali viali. Subito, però, si mosse anche la resistenza. Il 20 settembre saltò in aria il castello in cui si era stabilito il quartier generale della Wehrmacht. Dopo quattro giorni stessa sorte toccò al quartier generale del comandante di campo dell’esercito. Due esplosioni ed un incendio lo rasero al suolo.

Per giorni le esplosioni si succedettero. Nonostante i tedeschi avessero isolato il centro della città, le vie principale erano preda delle fiamme.

Il 17 settembre, Paul Blobel, al comando dell’Einsatzkommando 4, rinforzato da ausiliari ucraini e da due commandos della polizia del Sud, era partito alla volta di Kiev, dove una sua avanguardia di 50 uomini era entrata con il XXIX corpo d’armata, conquistatore della capitale ucraina. Blobel arrivò il 24 e subito inoltrò un rapporto, via radio, a Berlino nel quale rendeva conto della situazione in città e del ritrovamento di numerosissime mine e di non meno di 1.000 libbre di dinamite. In un successivo messaggio denunciò la presenza di squadre di sabotatori. Che, guarda caso, erano per la maggior parte ebrei.

Precisando:

“ Com’è stato dimostrato, gli ebrei hanno avuto un ruolo preminente. Si dice che qui ne vivano 150.000. Non è ancora stato possibile verificare la cifra. Durante la prima azione sono stati compiuti 1.600 arresti e sono state prese misure per arrestare tutti gli ebrei. Si prevede l’esecuzione di almeno 50.000 ebrei”.

Si potrebbe quindi pensare che la carneficina che Blobel mise in atto a Kiev sia stata una rappresaglia. Non fu così e la rappresaglia fornì la solita copertura allo sterminio programmato da Hitler e da Himmler. Anche se Kiev non fosse bruciata, anche se nessuna mina fosse scoppiata, gli ebrei sarebbero stati eliminati comunque. Mentre Blobel inviava il suo radiomessaggio, l’Einsatzgruppe D stava assassinando 22.467 ebrei e comunisti a Nikolaev, vicino a Odessa.

Il 28 settembre venne affissa un’ordinanza con la quale veniva fatto obbligo agli ebrei di presentarsi alle ore 8 del 29 settembre, all’angolo di via Melnikovsky ( per l’esattezza si trattava di via Melnikov) e via Dokturov ( per la precisione, via Degtjarev), portando con sé documenti, denaro, valori, biancheria e vestiti pesanti.

La mancata osservanza dell’ordine comportava la fucilazione immediata. Stessa sorte a chi fosse entrato nelle case lasciate vuote dagli ebrei, o ne avesse asportato oggetti, quale che fosse il tipo degli stessi.

Intanto si era fatta correre la voce, soprattutto dalla polizia ucraina, che gli ebrei sarebbero stati “reinsediati”.

Il 29, un lunedì freddo e piovoso, gli ebrei cominciarono ad arrivare nel luogo convenuto quando ancora era buio. La maggior parte degli ebrei non sapeva dei massacri messi in atto dai nazisti e perciò erano convinti di venire deportati, anche perché il luogo indicato dall’ordinanza si trovava vicino ai binari della stazione Lukyanovka. Erano per lo più poveri vecchi, malati, infermi, oltre a molte donne e bambini. I più giovani erano stati arruolati nell’Armata Rossa, mentre chi aveva possibilità finanziarie era già fuggito. Come era stato ordinato, portavano con sé fagotti, valige di cartone, borse in cui avevano riposto, in particolare, cibo per il viaggio.

Le vie intorno al luogo del raduno erano bloccate, vi era una grande confusione:

gente con fagotti rozzamente legati, mamme con bambini in braccio e  carrozzelle, carri e carretti. La folla faceva qualche passo in avanti e poi era costretta a fermarsi, per poi fare qualche altro passo. Via Melnikov costeggiava il cimitero ebraico, dopo il quale si apriva un precipizio, lungo circa 1.500 metri, che scendeva verso il fiume Dnepr. Questo vallone si chiamava Babi Yar che, in ucraino, vuole dire la gola di Babushka (la nonna). Una gola che avrebbe potuto inghiottire tutta la popolazione di Kiev. Luogo ideale per l’Einsatzkommando e per l’eccidio che si apprestava a commettere.

Anatolii Kuznetsov, un ragazzino di dodici anni, testimone di quanto accadde quella mattina, ne ha lasciato questa descrizione:

“ Il precipizio era enorme, quasi maestoso: profondo e ampio, come una gola montana. Anche gridando, si faceva fatica a sentirsi da un lato all’altro. Attraversava tre quartieri di Kiev […] ed era circondato da cimiteri, boschi e orti. Sul fondo scorreva un ruscello dalle acque limpide. Aveva pareti ripide, in taluni punti addirittura a strapiombo; le frane erano frequenti”.

Ad attendere gli ebrei, presso il cimitero, l’Einsatzkommando 4, la milizia ucraina e due reparti della polizia del Sud.

Trovarono anche una barriera di filo spinato e di ostacoli anticarro, presidiati dai poliziotti ucraini, nella loro divisa nera. Uno di loro dava secchi ordini agli ebrei che vagavano confusi, mentre i bambini piangevano e si sentivano raffiche di armi da fuoco giungere da lontano.

Gli ucraini contavano trenta-quaranta persone alla volta e, dopo che avevano lasciato i loro beni su un lato della strada, in una pila che andava sempre più aumentando, li accompagnavano al di là dello sbarramento, dove era stato allestito, all’aperto, un vero e proprio ufficio, con tanto di scrivanie. Qui gli ufficiali dell’Einsarzgruppe C si impadronivano dei gioielli e dei documenti, gettando subito via i documenti, per loro assolutamente privi di valore.

Alle loro spalle, due file di soldati con i cani presidiavano uno stretto passaggio.

Cosa aspettasse gli ebrei in quel corridoio, ce ne ha lasciato testimonianza Dina Mironovna Pronicheva, una dei pochi scampati all’eccidio, grazie al suo cognome ucraino:

 “ Era molto stretto, un metro e venti, un metro e cinquanta. I soldati erano allineati spalla contro spalla, avevano le maniche arrotolate e ognuno brandiva un manganello o una mazza. Una granicola di colpi scendeva su tutti quelli che lo percorrevano. Era impossibili evitarli o scappare. Colpi brutali, che facevano subito sanguinare, percuotevano le teste, le spalle, le schiene. I soldati continuavano a urlare:”shnell, shnell! Svelto, svelto” ridendo a crepapelle, come a uno spettacolo del circo. Tutti cominciarono a gridare e le donne a piangere. […] Alcuni caddero a terra. E subito i cani li azzannarono”.

 Dopo quell’infernale strettoia, gli ebrei si trovavano su di un prato, circondati dalla milizia ucraina. Con urla, spintoni, calci, botte e pugni, venivano fatti spogliare nella la massima fretta. Chi si ribellava all’ordine finiva per grondare sangue.

Alla fine del prato c’era uno strapiombo che terminava nel letto sabbioso del torrente. I tedeschi avevano fatto scavare dei sentieri nei fianchi del precipizio ed i prigionieri dovevano percorrerli per scendere in fondo.

Ad una parte del massacro assistette anche un camionista tedesco, un certo Hofer, che ebbe a raccontare:

 

“Appena denudati, gli ebrei venivano portati dentro [Babi Yar]. Venivano incanalati attraverso due o tre stretti varchi, che conducevano in fondo alla gola. Non appena arrivavano giù, gli agenti della Schutzpolizei li afferravano e li costringevano a stendersi sugli ebrei già fucilati. Avveniva tutto molto in fretta. I corpi erano letteralmente a strati. Un tiratore della polizia avanzava sparando con una mitraglietta al collo di ciascuna delle persone distese. Le vittime arrivavano così sconvolte dalla scena orripilante da non avere più nessuna forza di volontà. […] Appena ne aveva ammazzato uno, il tiratore, camminando sul corpo dei fucilati, procedeva verso il successivo, che nel frattempo si era steso a terra, e gli sparava. Andò avanti così, ininterrottamente, senza nessuna distinzione fra uomini, donne e bambini. I bambini restavano con le madri e venivano uccisi con loro. […] Davanti a ciascun ingresso della voragine c’era un “impacchettatore”. Gli impacchettatori erano poliziotti e avevano il compito di sistemare ogni nuova vittima sopra una delle precedenti, per cui al tiratore non restava che sparare un colpo mentre passava”.

Partecipò al massacro anche Kurt Werner, membro del Sonderkommando 4. Ecco come descrisse la tecnica del comandante Blobel:

“ Gli ebrei dovevano stendersi a faccia in giù accanto alle pareti della gola. In basso c’erano tre squadre di tiratori, di circa dodici uomini ciascuna. A ognuna delle tre squadre veniva portato un gruppo di ebrei nello stesso momento. I gruppi successivi dovevano stendersi sui morti. I tiratori stavano alle spalle degli ebrei e li uccidevano con un Genickshuss (colpo alla nuca). Ho ancora negli occhi il terrore assoluto degli ebrei quando, affacciandosi sulla conca, scorgevano i cadaveri. Molti gridavano di spavento.[…] Mi è toccato restare per l’intera mattinata in fondo alla gola. Per un po’ ho dovuto sparare ininterrottamente”.

Solo alla fine della giornata arrivò Blobel. Non appena vide il gruppetto di una cinquantina di persone cui era stata risparmiata la vita, si infuriò e diede ordine che anche quelle poche vite venissero eliminate. Tra loro vi era la Pronicheva.

Colpita non mortalmente, cadde sopra i morti, rimanendo immobile. Sotto di sé e tutto intorno sentiva lamenti, ansimi e singhiozzi. Molti dei fucilati non erano ancora morti. Mentre gli assassini giravano tra le montagne di cadaveri per finire chi ancora respirava, la Pronicheva premette la faccia nella terra, cercando di rimanere immobile. Sentì che i tedeschi gettavano sabbia sui corpi delle vittime. Poi, allontanatisi i tedeschi, strisciò nella gola e riuscì ad allontanarsi da Babi Yar.

Quando, dopo due giorni, la strage ebbe fine, i tedeschi ricoprirono in qualche modo i cadaveri e fecero saltare, con la dinamite, le pareti della gola.

Poi si diedero, per parecchi giorni, a dividersi ciò che avevano depredato alle vittime.

Gli indumenti, che riempirono interi camion, furono regalati all’amministrazione comunale di Kiev, per essere distribuiti ai bisognosi, nonché alla NSV a beneficio dei “nativi tedeschi”. 

Blobel, nel suo rapporto si vantò del fatto che gli ebrei, fino all’ultimo avessero creduto di essere deportati.

All’Aktion di Babi Yar gli Einsatzgruppen, dedicarono freddamente poche righe dei loro rapporti:

“Il Sonderkommando 4a in collaborazione con lo stato maggiore del gruppo e due commando del reggimento Sud di polizia ha fucilato, tra il 29 e il 30 settembre 1941, 33.771 ebrei a Kiev”.

Lo stermino a Kiev e a Babi Yar proseguì per tutto il 1942. Vicino al precipizio i tedeschi costruirono un campo di concentramento.

Il medico tedesco Wilhelm Gustav Schuppe, venne inviato presso l’Istituto di Patologia di Kiev, con il compito di eliminare “la vita indegna della vita”, nell’ambito dell’Operazione 14f13. Aiutato da una decina di medici e da SS travestite da infermieri, riuscì ad eliminare non meno di 100.000 persone, tra il settembre 1941 e il marzo 1942. Ebrei, zingari, turcomanni (mussulmani-sunniti di lingua turca), i cui corpi, non disponendo di un crematorio, venivano gettati nella voragine di Babi Yar.

Portato in processo, nel dopoguerra, Schuppe stimò che il suo commando avesse eliminato più di 500 vittime per ogni giorno di attività.