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I lager tedeschi

a cura di Aldo Pavia e Antonella Tiburzi

 RAVENSBRUECK

Il lager, il cui nome suona in italiano “Ponte dei corvi”, unico campo essenzialmente per donne e bambini, venne ufficialmente aperto il 18 maggio 1938 con la presenza iniziale di 860 prigioniere tedesche e 7 austriache. Costruito con grande fretta da un Kommando di prigionieri di Sachsenhausen, si trovava a circa 80 chilometri da Berlino, in una zona paludosa sulle rive del lago Schwed, nei pressi di Furstenberg.

Le prime deportate erano comuniste e socialdemocratiche tedesche e Testimoni di Geova (Bibelforscherinnen), assegnate rispettivamente al Blocco 1 e al Blocco 3. Poco dopo, il 29 giugno arrivò un trasporto di 440 zingare con i loro bambini. Identificate con il triangolo nero vennero imprigionate nel Blocco 2. La maggior parte di loro morì per malnutrizione e freddo. Subito dopo l’aggressione nazista alla Polonia, il 23 settembre 1939 arrivarono le prime prigioniere polacche.

Alla fine del 1939 risultavano presenti nel lager 1.168 donne. Ad agosto 1940 il loro numero era salito a 4.433. Tra loro Margarete Buber Neumann, una ebrea tedesca, imprigionata da Stalin nel Gulag di Karaganda e consegnata dai sovietici ad Hitler, insieme ad altri antinazisti tedeschi ed austriaci che avevano cercato rifugio in Unione Sovietica. La Buber Neumann, per la sua lunga permanenza a Ravensbrueck (1940 – 1945) è stata una delle fonti principali e maggiormente attendibili per la  conoscenza del lager e della sua storia. Al suo arrivo il campo le apparve, a prima vista, come un luogo persino piacevole: aiuole fiorite, una voliera con due pavoni e un pappagallo, perfino due scimmie che si dondolavano sotto un portico. Ma, appena al di là, nascosta dai pini  vide una costruzione in muratura. Era il Bunker, l’inferno del campo, ben mimetizzato. E che il luogo non fosse idilliaco le veniva ricordato dal muro di cinta e dal filo spinato elettrificato.

La giornata nel lager era scandita dal suono di una sirena. Non un minuto concesso alle prigioniere per un minimo di rapporti personali. Vigeva la disciplina più ferrea e ogni trasgressione alla stessa era punita duramente. Ordine, lavoro, disciplina: questo e niente altro. Dopo l’appello del mattino le deportate, allineate per cinque, seguite dalle sorveglianti urlanti e da cani inferociti, uscivano  per recarsi a lunghe ore di  lavoro massacrante nel bosco. Solo alla sera, e correndo gravissimi rischi, era loro possibile scambiare qualche parola o, come le Testimoni di Geova, leggere e commentare la Bibbia.

Nel 1941, nel mese di giugno, le SS fecero arrivare dal KL Dachau 300 deportati che costruirono, all’interno del campo, lIndustriehof, uno stabilimento per la confezione di divise militari. Questi deportati vennero sistemati in un campo all’esterno del muro perimetrale, con la proibizione assoluta, pena durissime punizioni, di avere contatti con le donne. Lo stabilimento era proprietà delle SS che iniziarono così a trarre un diretto profitto dal lavoro delle prigioniere. Nel mese di agosto scoppiò una epidemia di poliomielite. Le SS lasciarono il campo che venne messo in quarantena. Furono le stesse deportate - 7.935 in quel periodo -  a doversi prendere cura delle compagne.

A dicembre una commissione di medici SS operò una prima selezione. Le malate e le non idonee al lavoro vennero inviate a Buch e a Bernburg per essere eliminate. Per le stesse destinazioni, successivamente, partirono altri dieci “trasporti neri”. Il 24 marzo 1942 vennero inviate ad Auschwitz, nel nuovo campo femminile, 999 prigioniere tedesche e zingare. È proprio nel corso del 1942 che Ravenbrueck vide il suo maggior sviluppo. Si costruirono nuovi capannoni in muratura per ampliare l’ Industriehof, tali da poter sfruttare il lavoro di migliaia di deportate. La Siemens – Halske trasferì una sua filiale in parecchi capannoni appositamente allestiti all’esterno del muro di cinta, sul lato sud del campo, utilizzando abbondantemente la mano d’opera praticamente a “costo zero”.

Il lager si trovò così a contare 32 baracche e più magazzini, un Revier (infermeria o ospedale), caserme, laboratori vari. La ferrovia fu portata fino all’esterno del lager per facilitare le operazioni di carico e scarico delle merci e di quanto necessario alla produzione dei diversi prodotti. Le deportate non furono vittime solo della durezza del lavoro: nel mese di agosto, 75 studentesse liceali polacche vennero sottoposte a esperimenti chirurgici di vivisezione. Nell’aprile 1943   si costruì il forno crematorio. Alla fine dell’anno il campo registrò una presenza di prigioniere pari alla popolazione di una media città: circa 30.000 prigioniere che fornivano mano d’opera non solo alle industrie del campo ma anche ad aziende in località esterne, quali quelle dei sottocampi dei KL Buchenwald, Dachau, Neuengamme, Sachsenhausen.

Migliaia di donne lavoravano nella miniera di sale di Beendorf, a 600 metri sottoterra per produrre pezzi di aeroplano. Quando vennero evacuate verso il KL Neuengamme, dopo un viaggio di 12 giorni su vagoni bestiame, circa 1.000 di loro incontrarono una tragica morte. Nel febbraio 1944 venne effettuata una selezione e 800 donne, tra cui 30 bambine, vennero inviate al KL Lublin- Majdanek, ove la quasi totalità morì di stenti e di fame. In seguito all’evacuazione di quel lager, pochissime di loro tornarono nel luogo da cui erano partite. Sempre più donne da tutti i paesi occupati   venivano deportate a Ravensbrueck. In una situazione di sovraffollamento. Sempre più numerose le prigioniere ma invariate le strutture disponibili. Venne predisposta solo una grande tenda al posto di una baracca mai costruita, in una zona paludosa del campo. Molte le donne che, senza letti e servizio alcuno, morirono sotto quella tenda, dal settembre 1944.

Anche quelle provenienti da Varsavia, a seguito dell’evacuazione della città. A loro i nazisti avevano promesso e garantito ospitalità e sicurezza! Il 30 giugno 1944 arrivarono le prime deportate italiane: 14 donne, tra i sedici e i cinquant’anni, provenienti dalle Carceri Nuove di Torino. Tra loro Lidia Beccaria Rolfi (matricola 44140) e Anna Cherchi (matricola 44145). Dopo quattro giorni di viaggio in carro bestiame fino a Berlino, attraversarono la città in metropolitana e proseguirono per Furstenberg in treno. Poi a piedi, trascinandosi in preda ad una mortale stanchezza con valigie e fagotti, al tramonto del quinto giorno giunsero in luogo assolutamente sconosciuto e imprevedibile. Avviate alla baracca di quarantena 24, vennero assegnate alla Stube A (camerata A).

Subito invise alle altre deportate, in particolare alle russe, alle jugoslave, alle greche che le consideravano fasciste e quindi nemiche. Tutto ciò che videro e subirono fece loro capire di essere arrivate non “a lavorare” come loro era stato detto, bensì in una Babele popolata  di donne vestite a righe, avvolte in stracci, con un numero cucito sul braccio sinistro, con triangoli rossi, verdi, viola o con una stella gialla.  Che parlavano lingue sconosciute e spesso solo a gesti. Di essere piombate in un vero e proprio inferno. Illuminato dalla fiamma del  Krematorium.

All’arrivo delle italiane, ultima delle nazionalità giunta nel lager, le deportate presenti erano 30.849 e le matricolo assegnate 42.158. Dopo di loro altre deportate italiane arrivarono a Ravensbrueck. Un trasporto di 45 donne il 5 agosto, da Verona,  con prigioniere provenienti anche da Fossoli di Carpi. Tra queste deportate, Nella Baroncini  (matricola 49553) con le sorelle Angelina, Iole e la madre Teresa. Il padre, torturato in carcere,  venne deportato nel KL Mauthausen ed eliminato ad Hartheim. Un altro trasporto arrivò l’11 ottobre da Bolzano. Il numero delle deportate è stimato in 110. Tra loro Mirella Stanzione (matricola 77415) con la madre e Bianca Paganini (matricola 77399) con la madre Amelia e la sorella (un fratello sarà assassinato nel KL Flossenburg).

Dalla testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi, superstite del primo gruppo di deportate, si è potuto apprendere che la prima vittima italiana fu la madre di Marianna Murri – anch’essa deportatata a Ravensbrueck da Roma -  morta nel gelido inverno 1944 di polmonite. Altri cinque trasporti arrivarono dall’Italia, da Trieste e da Bolzano. Le deportate italiane arrivarono in un momento affatto particolare, proprio quando il campo era nel caos più totale e estremamente popolato. Vennero destinate a lavori saltuari nei kommandi esterni, alla costruzione del nuovo lager destinato alle operaie della Siemens, a tagliare legna, a costruire terrazzamenti, a spalare carbone, a tirare il rullo spianatore.

Poche ebbero la fortuna di lavorare nello stabilimento della Siemens. Molte finirono nel girone infernale dei sottocampi. Alla luce delle più recenti ricerche, da non ritenersi definitive, condotte da Italo Tibaldi e da Giovanna Massariello Arata, si stimano in oltre  900  - ma furono certamente di più - le deportate italiane nel KL Ravensbrueck. Un centinaio le superstiti. Altre italiane, ebree in particolare ma anche di origine slovena, arrivarono a Ravensbrueck con l’evacuazione di Auschwitz.  Nel dicembre 1944 le matricole assegnate risultano essere 91.748 e le presenze nel campo 43.733.

All’inizio del 1945 anche Ravensbrueck divenne definitivamente un vero e proprio campo di sterminio. Già dal dicembre 1944, le prigioniere più anziane furono selezionate ed inviate allo Jugendlager  (campo di concentramento delle giovani) di Uckermark per essere eliminate.  Mentre deportate russe, polacche e francesi venivano quotidianamente fucilate. Si provvide inoltre a costruire un secondo crematorio e ad allestire una camera a gas, messa subito in funzione.

Alla fine di gennaio 1945, una apposita squadra di SS giunse espressamente da Auschwitz, nel frattempo evacuato. Comandata dal capitano Werner Schwarzhuber, che il 2 agosto 1944 aveva diretto la gassazione degli zingari a Birkenau, aveva tra i suoi componenti il sergente maggiore delle SS Otto Moll, un crudele assassino, tra i più sadici di Auschwitz. Loro compito la più radicale eliminazione delle prigioniere.  A febbraio si contarono 46.473  prigioniere presenti all’appello. Sono solo 37.699 il mese successivo. Il 2 marzo, 2.000 “Nacht und Nebel” (ovvero condannate sulla base dell’omonimo decreto del 1941 che prevedeva la scomparsa dei condannati con modalità assolutamente segrete) vennero inviate al KL Mauthausen. Con loro bambini e donne zingare. 

A metà aprile le deportate presenti erano solo 11.000. Più di 35.000 erano scomparse nell’efferato ingranaggio della macchina della morte, dello sterminio di massa. A Ravensbrueck furono circa 10.000 le vittime assassinate con il gas. Le prime 1.600 nel 1941- 1942, altre circa 6.000 (anche uomini) nel 1945. A questo numero si deve aggiungere quello relativo alle donne cosiddette “pazze”, periodicamente eliminate durante tutto il periodo di attività del lager. La notte del  26 aprile le prigioniere, con l’eccezione di alcune centinaia di malate gravi, dovettero affrontare l’evacuazione.

Più ombre che esseri umani, vennero fatte marciare per 200 chilometri verso occidente, senza una meta precisa, in mezzo alla guerra, tra combattimenti e colonne di civili tedeschi in fuga. Un colpo di fucile alla nuca era il destino di quelle che si fermavano, o stremate dalla fatica si lasciavano cadere a terra. In parte le deportate ancora in grado di marciare vennero liberate dai Russi nei pressi di Schwerin, in parte dagli Americani. Il KL Ravensbrueck venne  liberato dalla 49a unità della 2a Armata Sovietica del fronte bielorusso il 30 aprile 1945.

Tra le poche deportate ancora in vita, Maria Massariello Arata.

Lasciata nel campo perché malata, così ha raccontato i momenti della liberazione:

“Ad un certo punto nella Lagerplatz vedo prigioniere che sventolano fazzoletti e gettano urla felici. Fermo la mia attenzione nella direzione di mira e vedo tra i pini, sul terrapieno che altre volte era stato luogo della nostra tortura, di snervante lavoro, una fila di uomini a cavallo: erano i Russi, i nostri salvatori”.

Dopo la liberazione le deportate italiane rimasero in Germania abbandonate a se stesse. Solo dopo quattro lunghi mesi riuscirono a essere rimpatriate.

 

 

 

Le sopravvissute guardano il campo bruciare

 

Il kinderzimmer

Bambini c’erano anche a Buchenwald ed in altri campi, ma gli apparati di sicurezza del Reich avevano decretato che nei lager femminili non dovevano esserci assolutamente donne incinte e ancor meno nascite. A Ravensbrueck le donne tedesche non ebree venivano fatte partorire in luoghi esterni al lager. In tutti gli altri casi i medici delle SS procuravano aborti, anche in presenza di gravidanze avanzate e senza alcuna osservanza di norme igieniche,  oppure strangolavano o annegavano i neonati. Si verificarono nascite clandestine fino all’autunno del 1944, senza possibilità alcuna di sopravvivenza per i neonati.

Alla fine di settembre 1944, nella baracca 11, destinata alle ammalate, venne allestito il Kinderzimmer, la camera dei bambini di Ravensbrueck. Era una lunga stanzetta, con una finestra sul fondo, un lavandino ed una stufa. Due erano i letti a castello e sui quattro pagliericci venivano distesi i neonati. I malati più gravi venivano messi in due ceste. Alla fine di settembre del 1944, la deportata francese Marie-Josè Chombart de Lauwe, studentessa in medicina, venne incaricata dalle SS di occuparsi dei neonati. Questo ciò che le toccò vedere:

“I bimbi sono molto sporchi, perché possiamo cambiarli molto raramente. Assumono in fretta l’aspetto di vecchi.  Ogni giorno ce ne arrivano di nuovi, poiché numerosi convogli di donne provenienti dai campi e dalle prigioni evacuati a causa dell’avanzata degli alleati si riversano nel campo. In mezzo a loro si trovano delle donne incinte che partoriscono in una stanza del Revier, in condizioni disumane. I neonati sono portati subito al Kinderzimmer, vestiti con un camicino, un pannolino ed avvolti in uno scialle. Hanno solo un pannolino di ricambio”.

Per scaldare il Kinderzimmer venivano fornite solo due mattonelle di carbone ogni giorno e ai neonati veniva data la possibilità di una poppata prima che le madri, giunte dalle loro baracche, dovessero farvi ritorno per l’appello mattutino. Se una madre non aveva latte veniva somministrato un intruglio con latte mescolato a “schlei” una specie di semola, ben poco accettabile e assimilabile dalle piccole creature. Quasi tutti i bambini morivano prima di aver raggiunto i tre mesi di età. Non vi era disponibilità di pannolini e le madri  “organizzavano” panni e stracci, con la solidarietà delle deportate, per poter cambiare e asciugare i neonati.

Nel gennaio 1945, bambini e madri vennero trasferiti alla baracca 32 da dove, il 27 febbraio, vennero inviati al KL Bergen-Belsen, con un  convoglio a dir poco bestiale. Madri, neonati, donne incinte, circa 2.000 esseri umani vennero stipati su dei carri in attesa alla stazione di Fuerstenberg e avviati ad un viaggio allucinante durato due giorni e tre notti. Alla stazione di Celle le SS schiacciarono a colpi di pala i corpicini dei bambini morti nel frattempo. Liliane Rozenberg, sopravvissuta di quel trasporto, ha testimoniato che, una volta trasferite su dei camion a causa dei bombardamenti alla linea ferroviaria:

La mamma era stata incaricata di spostare tutto ciò che restava sui vagoni. È un particolare atroce. Quello che doveva trasferire erano dei cadaveri di bambini. Ha dovuto prendere questi cadaveri e chiuderli negli scatoloni, poi mettere questi ultimi sul pianale dei camion “.

 

Il registro delle nascite e delle morti dei bambini venivano annotate nel  Geburtenbuch”, recuperato da una deportata al momento della liberazione del lager. Esso contiene una lista di 509 nomi di madri che hanno dato alla luce ad un figlio tra il 19 settembre 1944 e il 22 aprile 1945.  Non volendo considerare i 39 nomi di cui alle prime pagine mancanti del registro, basandosi sui dati certi è corretto affermare che il 75% dei bambini nati nel periodo indicato è deceduto. Percentuale ancora più alta prendendo in considerazione i bambini assassinati durante il trasporto a Bergen-Belsen. Fu l’Oberschwester (infermiera capo) Elizabeth Marschall a organizzare i trasporti   per sgombrare il campo dai piccoli, indesiderati ospiti. Nel gennaio 1950, nel corso del processo a Rastadt, il comandante del campo affermò che tutto ciò che aveva fatto ed era stato commesso nei confronti dei bambini, era stato in osservanza agli ordini ricevuti dai suoi superiori. Tuttavia, quando gli fu contestato di aver fatto sterilizzare ragazzine e zingare dichiarò di non aver nulla di cui rimproverarsi. Al contrario si vantò di aver messo in atto qualcosa di inestimabile per la specie umana: l’aver sterilizzato anche degli uomini. Ma che diamine. Erano zingari!

 

UCKERMARK

 “ IL CAMPO DEI GIOVANI”

  

 

Ogni due o tre settimane il comandante del KZ Ravensbrueck, Suhren e i medici delle SS Schwarzhuber e Pflaum selezionavano le donne malate e deboli, inadatte al lavoro, per il “trasporto a Mittweida”.

Tutte le donne prigioniere dovevano spogliarsi dei loro poveri e laceri indumenti, lasciare ogni cosa e correre nude davanti alle guardie e ai dottori delle SS.

Tutte  quelle che avevano i piedi gonfi, piagati o erano semplicemente troppo deboli per correre venivano selezionate per il “ricovero” a Uckermark.

Questo “ricovero”, nei fatti, consisteva nell’essere imprigionate in una baracca senza cibo o medicine, fino al sopraggiungere della morte.

La maggior parte delle deportate selezionate non arrivò mai fino al “campo dei giovani” di Uckermark , poiché venivano gassate in camion speciali trasformati in camere a gas mobili. Il tubo di scappamento di questi camion era direttamente connesso con la parte posteriore del camion, appositamente attrezzata e sigillata. Una volta messo in moto il motore e avviato il camion, le prigioniere venivano assassinate con il monossido di carbonio in poco più di 15 minuti. Meno del tempo necessario per percorrere il breve tratto di strada tra Ravensbrueck e Uckermark.

Le prigioniere chiamavano questi camion “…….”

“Mittweida” era il nome in codice con cui i nazisti indicavano azioni di gassazione.