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Dossier: La strage di Marzabotto

Marzabotto, perché l’eccidio rimase impunito

Per la strage pagò solo Reder, gli altri responsabili non furono processati anche se erano noti

Quello che la memoria collettiva indica come «eccidio di Marzabotto» è in realtà costituito da uno stillicidio di stragi, culminato tra il 29 settembre e l'inizio dell'ottobre 1944 nel massacro di diverse centinaia di civili, 189 dei quali erano minori di 12 anni. A partire dall'ultima settimana del maggio 1944 reparti militari germanici misero a ferro e fuoco, in sei grandi rastrellamenti nell'arco di quattro mesi, villaggi e case sparse dell'ampia zona appenninica di Marzabotto, nell'intento di fare terra bruciata attorno ai gruppi partigiani. Quelle operazioni di spietata «guerra ai civili», pur preparate meticolosamente sul piano militare e indirizzate contro nuclei di guerriglieri, si sfilacciavano ogni volta in una sequela di fucilazioni e di violenze contro pacifici contadini, coi tratti dell'ordalia piuttosto che con quelli di un'operazione militare condotta da una tra le più efficienti macchine belliche del ventesimo secolo. La violenza colpì indistintamente vecchi, infanti, donne, sacerdoti. La dimensione di queste uccisioni segnalò Marzabotto alle stesse autorità della Repubblica sociale italiana come evento impossibile da giustificare, nonostante l'alleanza con la Germania. A pochi giorni di distanza dall'ultimo e più grave massacro si tentò un'operazione minimizzatrice da parte del capo della provincia di Bologna, che in un rapporto a Mussolini indicò le vittime dei rastrellamenti in «700 fuorilegge» appartenenti alla brigata partigiana «Lupo». Negata l'esistenza di rappresaglie contro i civili, il funzionario della Rsi ammise, a livello d'ipotesi, che nel corso delle operazioni potessero «essere stati uccisi anche degli abitanti, compresa qualche donna, in quanto molti casolari sparsi nella campagna erano stati trasformati dai banditi in veri e propri fortilizi». Mussolini avrebbe presto inteso, dal rapporto realistico redatto dal segretario comunale di Marzabotto, l'estensione delle violenze, di cui si lamentò con Hitler, senza alcun risultato.
La portata degli eccidi era incerta ancora a fine della guerra, tanto è vero che molti cadaveri furono individuati soltanto nell'estate 1945, parzialmente sepolti sotto le macerie di casolari bruciati dall'esercito occupante. Ancora oggi mancano dati completi sull'entità dei morti.
Il processo per le stragi di Marzabotto si concentrò sulle responsabilità di un comandante di battaglione della sedicesima Panzer Division Reichsführer: il maggiore delle SS Walter Reder, condannato all'ergastolo il 31 ottobre 1951 dal Tribunale militare di Bologna (fu liberato nel gennaio 1985). Rimase in ombra il ruolo determinante di decine e decine di ufficiali e di soldati, i veri protagonisti di quegli eccidi, visto che di operazioni così complesse e ramificate non poteva certamente essere autore il solo Reder. L'identità di una parte dei responsabili era nota alla magistratura militare italiana, nei cui incartamenti si trovavano ad esempio i nominativi di Piepenschneider e Stockinger, indicati dal fascicolo n. 1937 (uno dei tanti atti processuali occultati negli anni Cinquanta dentro il cosiddetto «armadio della vergogna», con finalità di insabbiamento), oggi individuati dalla magistratura tedesca per il sergente Albert Piepenschneider e il caporale Franz Stockinger della sedicesima Panzer Division Reichsführer, sottoposti ad azione penale insieme ad altri loro ex commilitoni. Piepenschneider e Stockinger rastrellarono il 24 giugno nella zona di Marzabotto il mugnaio Tommaso Grilli, il contadino Alberto Raimondi, i coloni Giovanni e Armando Benini - padre e figlio - e li condussero in località Pian di Venola, dove furono fucilati. L'ordine era di lasciare i corpi insepolti, ma l'indomani don Giovanni Fornasini, parroco di Sperticano, ritirò da Marzabotto quattro bare e con l'aiuto di due donne ricompose le salme, trasportandole al cimitero con scarso seguito di cittadini, timorosi di una nuova uccisione in massa. Nella predica il sacerdote pronunziò parole amare e profetiche: «Queste sono le prime quattro vittime innocenti». Tra coloro che sarebbero stati uccisi con modalità analoghe figura lo stesso sacerdote, assassinato il 12 ottobre 1944 a S. Martino di Caprara da un elemento delle SS (il capitano Schmidthuns) cui don Fornasini rinfacciò la responsabilità dell'ennesima strage.
Per la quadruplice fucilazione a Pian di Venola, uno dei tanti episodi che, sommati gli uni agli altri, costituiscono l'«eccidio di Marzabotto», indagò nel 1948 il Tribunale militare di Bologna che tuttavia, accertate le responsabilità di una quindicina di militari tedeschi, non diede seguito all'azione penale, nell'ambito del fenomeno delle «stragi nascoste» per motivi di opportunità politica internazionale. L'incartamento, rinvenuto nel 1994 con altri 694 fascicoli in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi, fu trasmesso il 19 dicembre dello stesso anno alla Procura militare di La Spezia, per la riapertura delle indagini. Sull'episodio indaga pure, come si è detto, la magistratura tedesca. Anche in questo caso, dunque, il filo di sangue delle stragi di Marzabotto scorre sino ai giorni nostri e ancora attende giustizia. Una giustizia, a tanto tempo di distanza e con imputati di età assai avanzata, non più guidata da istanze punitive, bensì sviluppata in una dimensione conoscitiva, per contestualizzare e dare un senso ad eventi così orribili.
L'imminente pellegrinaggio a Marzabotto del presidente della Repubblica federale tedesca, Johannes Rau - accompagnato dal presidente Carlo Azeglio Ciampi - riveste una forte valenza simbolica, che sarebbe riduttivo ridurre al solo gesto - pure importante - delle «scuse di Stato». L'appuntamento di mercoledì prossimo acquisterebbe ulteriore rilievo e prospettiva se, con l'alto patrocinio dei presidenti delle due Repubbliche, si costituisse una commissione di storici italiani e tedeschi che approntasse un'edizione bilingue delle fonti documentarie su Marzabotto, onde chiarire finalmente tempi, dinamiche e dimensioni degli eccidi. Così si ricostituirebbe, tramandata alle comunità mutilate di tanti loro componenti, una memoria storicamente valutativa, fuori da prospettive faziose e vendicative, in una dimensione di riconciliazione tra popoli e di superamento del passato.

Mimmo Franzinelli

(Corriere della Sera, 14 aprile 2002)

 

 

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