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Saggi sul fascismo

Storia della fotografia dell'Istituto Luce

di Stefano Mannucci

 

Nascita e ruolo dell’Istituto Luce.

L’Istituto Nazionale Luce fu istituito da Mussolini, con qualità d’Ente morale di diritto pubblico, con il Regio Decreto legge n. 1985 del 5 novembre 1925[1], pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale il 25 del corrente mese, a sostituire la precedente società anonima L.U.C.E. (L’Unione Cinematografica Educativa), sorta nel 1924 da un’idea di Mussolini, Paulucci De Calboli e De Feo, a raccogliere il progetto del precedente Sindacato Istruzione Cinematografica. Il riconoscimento ufficiale della società anonima Luce era precedente al Regio Decreto, in quanto, già nel luglio del 1925, la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva diramato una circolare ai Ministri della Pubblica Istruzione, dell’Economia Nazionale, delle Colonie e degli Interni, invitandoli a servirsi esclusivamente dell’organizzazione tecnica del Luce, per fini educativi e propagandistici.

Il Luce rappresentò in Italia il primo esempio di organizzazione pubblica e sistematica di educazione, informazione e propaganda attraverso le immagini, rivolte ad una popolazione ancora fortemente colpita dall’analfabetismo (con un tasso del 31% nel 1919, cui andrebbe sommato il dato non quantificabile del semi-analfabetismo di ritorno)[2], e quindi, per certi versi, più facile da plasmare.

L’Istituto Luce rappresentava l’organo tecnico cinematografico dei singoli Ministeri e degli Enti posti sotto il controllo e l’autorità dello Stato, con lo scopo essenziale della “diffusione della cultura popolare e della istruzione generale per mezzo delle visioni cinematografiche, messe in commercio alle minime condizioni di vendita possibile, e distribuite a scopo di beneficenza e propaganda nazionale e patriottica (art. 1).

Il Regio Decreto approvava la convenzione costitutiva, stipulata a Roma il 5 ottobre 1925, firmata fra Mussolini ed una serie di enti, qualificati come “fondatori”, che erano: il Commissariato generale dell’emigrazione, la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, l’Istituto nazionale per le assicurazioni degli infortuni, l’Istituto nazionale assicurazioni, l’Opera Nazionale Combattenti, la Società anonima “Le assicurazioni d’Italia”, l’Opera Nazionale per il Dopolavoro, la Società italiana “Dante Alighieri”. Gli enti fondatori erano elencati sotto la categoria “A” se la loro partecipazione finanziaria raggiungeva la somma di £.300.000, e sotto la categoria “B” se la loro partecipazione era invece inferiore a tale somma[3].

Inizialmente, l’Istituto dipendeva direttamente da Mussolini. L’art.17 del R.D. sanciva, infatti, che l’Istituto era “sottoposto al controllo ed all’autorità del Ministro per gli Affari Esteri”, al quale dovevano essere sottoposti per l’approvazione i regolamenti generali e tecnici.

Lo statuto, inoltre, prevedeva la supervisione diretta di Mussolini sui materiali realizzati, conferendogli anche il potere di annullare qualunque delibera del consiglio di amministrazione, oltre che ratificare l’approvazione riguardo l’ingresso di nuovi enti od istituti all’interno del Luce.

Nel marzo del 1927, contestualmente alla produzione dei primi cinegiornali, proiettati per obbligo in tutti i cinema del paese prima di ogni spettacolo[4], il Luce istituì il Servizio Fotografico, che avrebbe avuto contemporaneamente il compito di ordinare, conservare e completare un Archivio Fotografico Nazionale, e di forgiare e diffondere l’immagine di Mussolini, arrivando a detenere, in pratica, il completo monopolio della ripresa fotografica degli avvenimenti ufficiali.

Nell’affermare che “non esiste un documento oggettivo, innocuo, primario”, Jacques Le Goff ha aggiunto che un documento “è sempre e comunque il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – consapevolmente od inconsapevolmente – quella data immagine di se stesse[5].”

Se accettiamo tale affermazione, possiamo sicuramente sostenere come l’Istituto Luce fosse l’ente del regime fascista a cui era stato demandato il compito di effettuare la “documentazione storica delle imprese e delle opere della Nazione e del Regime[6]”, per costruire così il monumento visivo dell’era fascista.

Se l’architettura doveva lasciare opere e segni evidenti dell’era fascista nelle città, da resistere nel tempo anche dopo un’eventuale caduta del regime, l’Istituto Luce, attraverso le sue fotografie, doveva altresì innalzare monumenti visivi nella memoria collettiva e simultaneamente edificare l’immaginario popolare della nazione.

Per realizzare l’archivio, il Luce iniziò a raccogliere, così, tutto il materiale esistente all’epoca, acquisendo archivi di fotografi d’opere d’arte come il Lombardi Siena o l’intero gabinetto fotografico del ministero della Pubblica Istruzione, rastrellando gli archivi dei fotografi di cronaca, tra cui quello d’Adolfo Porry Pastorel. L’Istituto perpetuava, almeno nelle intenzioni, una tradizione catalografica che era nata con l’unificazione del paese; ma contemporaneamente, effettuò delle scelte selettive, come se si avesse timore di cosa la fotografia potesse rivelare, che influirono sulla raccolta fotografica.

Proprio perché incaricato di visualizzare la storia ufficiale dell’Italia fascista, il Luce, d’altronde, nel corso della sua esistenza, non testimoniò molti avvenimenti attraverso le sue fotografie, per raffigurare il presente ed il passato secondo i dettami del regime, e conseguentemente archiviando e documentando soltanto quegli avvenimenti che fossero stati reputati, appunto, degni dal regime di appartenere alla storia.

La fotografia era così una portatrice indiretta di verità sociali. Tale significato indiretto era causato dall’opera di una censura, per certi versi, positiva, nel senso che vietando il regime la riproduzione fotografica di determinati avvenimenti, si cercava di negare anche l’esistenza degli stessi avvenimenti all’interno della società. Così, dopo l’intervento della censura, non esistendo fotografie di determinate situazioni, si voleva lasciar credere che non esistessero nemmeno tali situazioni.

Attraverso la negazione delle fotografie, dunque, s’intendeva affermare l’esistenza di determinate realtà e verità sociali, consoni alla propria volontà ed alla propria ideologia. Anche in altri casi, il ruolo della fotografia era indiretto, essendo essa chiamata a testimoniare visivamente una didascalia che era il principale messaggio politico.

Intanto, nel corso degli anni, l’Istituto Luce era passato sempre più sotto la vigilanza dell’Ufficio Stampa del Capo del Governo, trasformato prima in Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda, innalzato poi al rango di Ministero per la Stampa e la Propaganda[7], da cui sarebbe sorto infine il successivo Ministero della Cultura Popolare (Minculpop).

Nel 1933, tale ruolo venne presieduto da Galeazzo Ciano, che iniziò ad allargare gradualmente le sfere di competenza dell’allora Ufficio Stampa, creando così i presupposti per le trasformazioni precedentemente delineate, ed attuando un’estensione ed una proliferazione dei controlli di dimensioni considerevoli su tutti i campi della vita culturale.

Cultura e propaganda finirono, dunque, per essere due aspetti di una principale politica unica, volta ad accrescere l’efficacia della dittatura di massa, inserendola nella profondità della vita del paese.

Tali istituti effettuavano una duplice forma di azione, sia effettuando delle vere e proprie commissioni al Luce, affinché venissero realizzati servizi fotografici su determinati argomenti; sia agendo, in secondo tempo, sugli organi di stampa, incidendo direttamente sulla gestione, sulla scelta, sulla collocazione della fotografia, attraverso varie disposizioni o note di servizio.

Il contenuto delle disposizioni del Minculpop assume così una notevole importanza per comprendere il ruolo della fotografia nell’apparato propagandistico del regime fascista, essendo il Minculpop non soltanto il censore di tali immagini fotografiche, ma un vero e proprio committente dei temi ufficiali e dei messaggi visivi che l’Istituto Luce doveva tradurre attraverso la sua rappresentazione fotografica.

E gradualmente che la fascistizzazione delle istituzioni e della stampa si accentuava, la fotografia si vide assegnato l’importante ruolo di costruire il consenso e convogliare l’adesione civile alle scelte politiche di Mussolini ed all’operato del regime fascista, divenendo in molti casi la visualizzazione della politica del PNF.

La fotografia, dunque, fu elevata ad uno strumento diretto di persuasione politica, avendo essa l’importante funzione, attraverso la sua elaborazione e diffusione, di agire sulle coscienze degli individui, cercando di eliminare ogni riserva e capacità critica, per stimolare un’adesione spontanea negli italiani alle tematiche fasciste.

A tal punto, la fotografia doveva racchiudere la realtà dentro un sistema visivo che era ordinato e costruito a priori, attraverso appunto le direttive del Minculpop[8], le quali rappresentavano la premessa ideologica e la finalità operativa appartenenti alle singole fotografie.

La fotografia, inoltre, ampliava il bacino d’utenza del messaggio politico, rendendo universale l’evento riportato ed il conseguente contenuto implicito, che diveniva, tramite la stampa, oggetto di contemplazione collettiva, travalicando i limiti geografici.

Il Servizio Fotografico del Luce, a tal fine, organizzò un sistema di distribuzione delle immagini che fosse il più possibilmente funzionale alle esigenze del regime. Tutte le fotografie “di propaganda o di interesse nazionale” venivano inviate gratuitamente a tutta la stampa nazionale, la quale, però, doveva pagare un canone o sottoscrivere un abbonamento per ricevere le immagini cosiddette di “varietà”. Alla stampa estera, invece, veniva recapitata senza alcuna spesa ogni genere di immagine.        

In tale scansione temporale, essenziale fu il ruolo svolto dalla Mostra della Rivoluzione Fascista. La mostra era costituita da innumerevoli testimonianze, anche a volte diverse fra loro, ma rilegate dal regime in un continuo, che seguiva e spiegava la propria rilettura ideologica della storia nazionale, effettuando così un processo di fascistizzazione della fotografia sociale. Ma la mostra non rappresentò soltanto il culmine raggiunto dalla fotografia come strumento d’appropriazione del passato, e mezzo per costruire una storia secondo la propria concezione ideologica. La mostra cercò, soprattutto, di oggettivare la fotografia nel suo rapporto con la storia medesima. Infatti, nel momento in cui la fotografia era posta accanto ad oggetti reali del passato, quali le cinghie, gli zaini, le lettere, le armi, essa stessa diveniva un oggetto reale ed obiettivo, un prodotto materiale della storia, e non l’effimera visione del mondo da parte di una determinata intenzionalità, donandole così una maggiore forza nel suo rapporto d’oggettività con la storia stessa.        

Una volta assunta e legittimata ad essere specchio della realtà, la fotografia poteva tranquillamente essere utilizzata per un processo di defattualizzazione della realtà stessa. La fotografia avrebbe permesso, così, di ricostruire una realtà confacente ai propri propositi, ma sarebbe stata assunta dalla popolazione, non come luogo di una rappresentazione fittizia, ma come documento oggettivo di una verità sociale esistente. Una realtà ricostruita che rappresentasse un operato del regime fascista impermeabile a critiche ed influenze indesiderate. E non fu un caso che, proprio dopo la Mostra della Rivoluzione Fascista, e con il fiorire della stampa illustrata periodica, iniziarono ad essere emesse disposizioni su come la fotografia dovesse rappresentare i vari avvenimenti del momento, con un andamento ed una sistematicità sempre più gradualmente consistente.

 

Il culto del duce

La fotografia del Luce, inizialmente, aveva il ruolo di forgiare l’immagine di Mussolini ed alimentare il culto del duce all’interno della popolazione, rappresentandolo come un prototipo di speciali virtù, che tutti gli italiani dovevano emulare e possedere.

Un Mussolini solitamente fotografato con inquadrature dal basso, conferendogli così una statura eroica, elevandolo al di sopra degli uomini comuni. Nei ritratti in primo piano, inoltre, si prediligevano le inquadrature che facessero risaltare, sul viso di Mussolini, uno sguardo pensieroso, rivolto quasi verso il futuro, a cercare di conferirgli un senso d’acutezza e profondità, cercando di identificare il suo volto con il progresso e la vittoria.

La fotografia era così uno strumento di socializzazione politica e d’acculturazione monolitica, costituendo inoltre la sintesi visiva di tali processi, con l’intento di effettuare un processo d’interiorizzazione negli italiani dei modelli di comportamento e degli ideali propugnati dal regime fascista ed incarnati nel corpo di Mussolini.

Ma l’immagine che Mussolini ed il regime fascista volevano dare di se, in Italia ed all’estero, subiva cambiamenti ed evoluzioni continue, direttamente conseguenti alle scelte politiche, e destinate a tradursi in altrettante sollecitazioni visive sull’opinione e sulla percezione delle masse.

La polisemia insita nella fotografia era il riflesso diretto della mutabilità della politica del regime fascista, dei diversi messaggi politici che esso voleva edificare nelle coscienze degli italiani. La fotografia doveva adeguarsi a quest’estrema e continua variazione della propaganda, essendo il principale supporto e rappresentante visivo.

Non fu certo un caso se, all’evolversi del sistema da autoritario a totalitario, e soprattutto all’avvicinarsi e al prepararsi del conflitto italo-etiopico, corrispose un’evoluzione della politica iconografica del duce, che sostituì gradualmente il proprio abbigliamento borghese con l’immagine cesarea in divisa militare. Significative, nell’analizzare la militarizzazione dell’iconografia mussoliniana, sono ad esempio le fotografie dei matrimoni dei figli di Mussolini. Se nelle fotografie del matrimonio della figlia Edda, nel 1930, compare un Mussolini in tight e cilindro, durante le cerimonie dei matrimoni dei figli Bruno e Vittorio, rispettivamente avvenuti nell’ottobre del 1936 e nel febbraio del 1937, abbiamo un Mussolini fotografato sempre in divisa, sia mentre assiste allo svolgersi della cerimonia, assieme alla moglie, sia mentre accompagna la sposa nell’ingresso in chiesa.

L’iconografia militare, dopo lo stringersi dell’alleanza italo-tedesca, e soprattutto durante la Seconda Guerra Mondiale, divenne obbligatoria per tutti gli esponenti del regime, a tal punto che spesso il Minculpop vietò la pubblicazione di “fotografie di gerarchi in abito borghese[9].”

L’Istituto, inoltre, doveva cercare di diffondere un’immagine di Mussolini rassicurante ma forte allo stesso tempo. La fotografia ha così testimoniato la molteplicità semantica dell’immagine di Mussolini, non soltanto fra essere dinamico e statuario, ma anche edificandolo nell’icona del condottiero militare della nazione, e contemporaneamente divulgandolo come il paterno protettore della nazione, sempre prodigo a dispensare affetto ed interessamento verso la popolazione.

La fotografia dell’Istituto Luce fu, inoltre, testimonianza ed agente del “mussolinismo”. Riprendendo le folle e le donne che si stringevano attorno a Mussolini, si voleva spingere anche il resto della popolazione a provare tali sentimenti nei suoi confronti. E proprio le immagini testimoni del mussolinismo, ci portano dentro l’altro settore importante in cui operò l’Istituto Luce, cioè la rappresentazione e la costruzione del consenso.

 

L’estetizzazione del consenso.

La fotografia dell’Istituto Luce, per tutto il corso del Ventennio, fu incaricata di essere contemporaneamente testimone ed agente del consenso. Essa, infatti, diffondendo costantemente le immagini di una piena adesione fra la società civile ed il regime fascista, cercava appunto di edificare nell’opinione pubblica un sentimento analogo, e di conseguenza, di ampliare il consenso stesso.

Gli operatori del Luce rappresentarono e documentarono la realtà sociale o quotidiana, a tessere l’immagine di un’Italia i cui ritmi di vita erano scanditi dalla liturgia del partito fascista. L’attenzione dei fotografi era incentrata essenzialmente sugli avvenimenti ufficiali del regime e delle sue organizzazioni, come i sabati fascisti, le manifestazioni ginniche e le esercitazioni premilitari, la befana fascista e le colonie dell’OND, le adunate di piazza e le città in giubilo per le visite di Mussolini.

Fin dall’inizio, il fascismo cercava di alimentare in continuazione la fede nel partito e nel duce attraverso l’invenzione di nuovi segni visivi d’appartenenza, quali il fascio littorio, la camicia nera, il manganello; ma soprattutto attraverso l’istituzione di rituali patriottici, commemorazioni ufficiali, celebrazioni della propria storia e delle proprie principali ricorrenze, marce e cerimonie politiche[10].

La diffusione delle fotografie riguardanti tali eventi aveva lo scopo di dare espressione e rappresentare questa nuova religione dello stato, affinché entrasse sempre più progressivamente a far parte della vita e delle abitudini degli italiani.

Gli operatori del Luce, fotografando le varie parate militari, i discorsi di Mussolini, le adunate oceaniche, da un lato raccontavano l’evidenza del consenso, e dall’altro, come nota con sagacia Bertelli, suggerivano l’assurdità d’ogni eventuale dissenso[11], partecipando così, con le proprie immagini, alla missione della formazione del nuovo popolo.

La fotografia del Luce racchiuse così nel suo universo semantico i temi della propaganda d’integrazione che Ellul e Cannistraro[12], insieme alla propaganda d’agitazione, hanno individuato come fasi della politica fascista. L’Istituto, infatti, doveva cercare di ottenere l’adesione totale e permanente della maggioranza della popolazione a quelle particolari verità sociali che esso rappresentava visivamente.

Proprio per render il più possibile efficiente tale propaganda di immagini, nel 1931 vennero diramate le Direttive per la stampa di Polverelli[13], che oltre a diminuire le ultime residue libertà del giornalismo, costituirono la base di tutte le note di servizio che si sarebbero susseguite negli anni successivi.

Polverelli, fra le varie direttive, sosteneva anche l’esigenza che le fotografie di avvenimenti e panorami italiani dovessero “essere sempre esaminate dal punto di vista dell’effetto politico. Così se si tratta di folle, scartare le fotografie con spazi vuoti; se si tratta di nuove strade, zone monumentali, ecc., scartare quelle che non danno una buona impressione di ordine, di attività, di traffico, ecc.

Nel rappresentare e edificare il consenso della popolazione al regime, così, i fotografi del Luce spesso cercarono di ricercare ed effettuare determinate scelte formalistiche, che portarono ad un processo d’estetizzazione delle masse e del consenso stesso.

Le folle oceaniche delle adunate erano solitamente riprese con inquadrature dall’alto, con posizioni che potevano essere sia laterali sia frontali, cercando appunto  di evitare quegli spazi all’interno della folla che erano sgraditi al Minculpop, per costruire la percezione di un’unità indissolubile nel legame di essa col regime.

L’osservatore della fotografia era così collocato in una prospettiva da cui la massa umana inquadrata riceveva una sorta di effetto di moltiplicazione all’infinito a gremire ogni spazio della piazza.

In altre occasioni, per ampliare visivamente il numero delle persone partecipanti alla manifestazione, la ripresa dall’alto era sostituita da una ripresa dal centro stesso dell’avvenimento, immergendo così totalmente l’osservatore al centro stesso della folla e dell’avvenimento rappresentato.

Durante le manifestazioni ginniche, a volte, gli operatori del Luce si limitavano a fotografare, e per certi versi a testimoniare, le coreografie predisposte dalle varie organizzazioni, che tendevano ad effettuare una politicizzazione dei corpi.

Gli operatori, infatti, fotografavano dall’alto i corpi dei partecipanti alla manifestazione, che attraverso la loro disposizione sul terreno, assumevano solitamente le sembianze di immensi fasci littori o di gigantesche “M” o “DUX”.

La fotografia del Luce doveva solennizzare le manifestazioni del regime, celebrandole appunto come momenti culminanti della vita sociale italiana, in cui le determinate organizzazioni affermavano la propria unità e la propria potenza.

La fotografia del Luce, inoltre, fu uno strumento attraverso cui perpetuare la simbolizzazione di una gioventù che, marciando allineata nel passo romano, cresceva poderosa nel fisico e spartana nell’animo, preparandosi fisicamente, militarmente e spiritualmente per essere pronta a servire la nazione in guerra.

Una gioventù rappresentata dunque agile, tonica, ma soprattutto, attraverso le fotografie degli allineamenti impeccabili e delle coreografie corporali, una gioventù conquistata non solo dagli ideali del regime ma anche dalla sua disciplina e senso dell’ordine.

Anche la fotografia, così, entrò a far parte del disegno pedagogico del regime fascista, volto alla creazione dell’italiano nuovo, cercando di edificare, attraverso le proprie immagini, lo stile di vita fascista nelle mentalità e nelle abitudini comportamentali degli italiani.

La fotografia doveva influenzare gli uomini, visualizzando quali fossero i costumi ed i modelli di comportamento degni di appartenere al nuovo italiano, per conseguire il risultato di produrre un progressivo adattamento degli italiani a tali stili di vita. La fotografia del Luce diveniva così una sorta di pupilla che insegnasse e consentisse agli italiani ad osservare il paese e la realtà quotidiana non con i propri occhi, ma con quelli dello stesso regime fascista.

La fotografia del Luce, soprattutto durante il conflitto etiopico e la Seconda Guerra Mondiale, cercò di rappresentare la mobilitazione di un’intera nazione che, senza alcuna differenza di ceto o classe, accorreva a sostegno del regime e dei suoi programmi bellicisti, cercando così, soprattutto nei momenti di difficoltà operative dell’esercito, di spostare l’attenzione della popolazione dagli eventuali insuccessi militari che si andavano conseguendo.

Ma la fotografia ci consente anche di analizzare la disposizione delle persone all’interno delle manifestazioni indette dal regime. Risalta spesso agli occhi, sia nelle adunate di piazza sia nelle accoglienze ai vari politici, come le prime file della folla fossero sempre costituite dagli schieramenti dell’OND o di altre organizzazioni del PNF, i cui aderenti erano solitamente coloro che innalzavano cartelli o striscioni con sopra impresse scritte di appoggio e di giubilo nei confronti di Mussolini e del regime fascista.

E la stessa metodologia fotografica, che per anni aveva rappresentato il consenso della popolazione al regime, fu utilizzata dagli operatori dell’Istituto Luce, il 26 luglio del 1943, per rappresentare la felicità della popolazione alla fine del regime fascista.

Gli operatori del Luce perpetuarono gli stessi metodi stilistici dell’estetizzazione delle masse per rappresentare le persone che accorrevano per le strade, a gremire le piazze delle città e bruciare i ritratti mussoliniani, fotografandole con riprese dall’alto e dal centro, per edificare l’imponenza delle manifestazioni. E se nel 1936, a Addis Abeba, gli operatori del Luce ripresero una camicia nera salire su una scala per distruggere dalle mura di un edificio il leone imperiale, a simbolizzare così la vittoria ed il culmine del consenso al regime fascista, identica metodologia visiva fu utilizzata per simbolizzare la caduta del regime, fotografando le persone che salivano sulle scale a distruggere i fasci littori dagli edifici di Roma e Venezia.

Pur essendo lo strumento per edificare il monumento visivo dell’Italia fascista, la fotografia del Luce porta più volte in se, in nome di quella dicotomia fra propaganda e sociale propria di ogni immagine fotografica, e della distinzione fra “studium e “punctum” che Barthes[14] intravede in ogni singola immagine, alcuni indizi che, oltre l’aspetto patinato della propaganda, ci lasciano intravedere la realtà sociale di quegli anni.

La fotografia del Luce, ad esempio, ha seguito e testimoniato l’evolversi del ruolo e dell’immagine della donna secondo le esigenze che il regime fascista, e successivamente il conflitto mondiale, le affidava.

Ma nella sua polisemia, la fotografia del Luce ci ha lasciato spesso intravedere gli spiragli di una realtà testimoniata più o meno consciamente dai fotografi.

Una realtà che drammaticamente si ergeva tangibile oltre ed al di fuori della simbologia e dell’intenzionalità della propaganda. Ed ecco così apparire nelle fotografie le divise dell’esercito sporche o rotte, i visi tristi e stanchi dei soldati e dei civili, le città distrutte sullo sfondo delle scritte della propaganda, la tenerezza dei bambini ostentati a vittime della criminalità anglo-americana negli ospedali colpiti, l’assenza di risorse alimentari che non potevano essere compensate dalla proliferazione degli orti di guerra.

Ma ancor di più, la fotografia ha documentato la rottura fra l’intenzionalità del messaggio e la sua ricezione da parte della popolazione.

Tale testimonianza è vivida nelle fotografie scattate dopo la Conferenza di Monaco, che ritraevano la popolazione sorridente per la pace salutare Mussolini, identificandolo come il salvatore della pace ed il garante della sicurezza internazionale, negando e rifiutando così, per certi versi, la ricezione della coreografia fotografica che tendeva ad edificare Mussolini come il condottiero cesareo pronto a guidare la nazione in guerra, e la rappresentazione che per anni il Luce aveva effettuato degli italiani, edificando l’immagine di un popolo che marciando allineato era stato conquistato dagli intenti e dagli ideali bellicisti del regime fascista.

Tuttavia, questi sono discorsi ed analisi che possiamo affrontare noi, a molti anni di distanza da quando quelle fotografie furono prodotte, rileggendo appunto la polisemia della fotografia nella piena conoscenza della differenza fra reale e rappresentato, ed avendo la possibilità di visionare anche ciò che allora fu censurato ed occultato. Per molti italiani di allora, invece, la fotografia del Luce era l’unica immagine diffusa e disponibile sui giornali, e quindi l’unica rappresentazione della realtà che essi potessero percepire al di fuori della realtà stessa. A questo punto, la  fotografia dell’Istituto Luce rimane senz’altro una fonte essenziale nello studio della propaganda visiva del fascismo, essendo essa stata un suo principale supporto.

Attraverso la fotografia dell’Istituto Luce, ci possiamo trasferire negli occhi di chi ha prodotto quella data immagine, svelandone così l’intenzionalità soggiacente alla modulazione creativa, ma ancor più importante, noi possiamo entrare negli occhi di chi quell’immagine l’ha vista poi, riprodotta sui giornali, cercando di percepire la stimolazione di pensiero che la fotografia ha suscitato in lui.

A tal punto, la fotografia si eleva a divenire il trascrittore della percezione visiva, oltre che attestare la valutazione della realtà italiana che il Luce, secondo le direttive del regime, effettuò nel corso della sua esistenza.

 

 Breve Bibliografia

 

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[1] Conservato in RU, anno 1925, volume IX, pag. 8982-8988, presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, sala Emeroteca.

[2] Nel 1921 il tasso degli analfabeti rappresentava circa il 27% della popolazione; nel 1936 sarebbe stato del 21%. (ISTAT, Statistiche storiche, Roma 1976).

[3] Il patrimonio iniziale dell’Istituto era costituito da £ 2.500.000, rappresentato da numerario depositato in conto corrente presso banche, da attività di ogni genere e specie; crediti, merce, macchinario per la presa di cinematografie e per la proiezione, magazzino negativi, magazzino positivi, impianti, avviamenti, ecc. (art.4).

[4] Con il decreto legge n. 1000 del 3 aprile 1926 era resa obbligatoria, in tutti i cinema, la proiezione di uno o più documentari del Luce, prima di ogni spettacolo. Chi non si conformava a questa norma, rischiava la chiusura temporanea della sala, od addirittura la revoca permanente della licenza. I cinematografi furono divisi in quattro categorie, e per ciascuna categoria fu stabilito un canone di noleggio giornaliero da pagare all’Istituto Luce a compenso della fornitura dei film.

[5] Vedi Le Goff  J., “Documento / monumento”, in Enciclopedia, vol. V , Einaudi, Torino 1978, pag.46.

[6] Vedi il R.D. 122 del 24 gennaio 1929, art.3, conservato in RU, Anno 1929, Volume II, pag.1892-1901.

[7] Una legge del settembre 1936 attribuì all’allora Ministero per la Stampa e la Propaganda la giurisdizione di circa sedici istituzioni culturali, fra le quali l’Istituto Luce. Vedi il R.D. del 24 settembre 1936, n. 1834, “Ordinamento del Ministero per la Stampa e la propaganda”, riportato in RU, anno 1936, volume IV, pag.3634-3636. Per uno studio sul ruolo e sull’evoluzione del Minculpop, vedi Cannistraro Philip V, “La fabbrica del consenso”.

[8] Per una raccolta di disposizioni del Minculpop vedi Cesari Maurizio, “La censura nel periodo fascista”; Flora Francesco, “Ritratto di un ventennio. La stampa dell’era fascista”;  Matteini Claudio, “Ordini alla stampa”; Schwarz Angelo, “Fotografie del Duce possibilmente con l’elmetto” in Mignemi Adolfo (a cura di),  “L’Italia s’è desta. Propaganda politica e mezzi di comunicazione di massa fra fascismo e democrazia”.

 [9] Vedi la disposizione del 15 giugno 1941 riportata in Matteini C., “Ordini alla stampa” pag.153 e Mignemi A., “L’Italia s’è desta”, pag.70.

[10] Per uno studio sistematico vedi Gentile E., “Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista”.

[11] Vedi Bertelli Carlo, “La fedeltà incostante”, pp. 177-178 in  Bertelli C., Bollati G. “L’immagine fotografica 1845-1945”.

[12] Vedi Cannistraro P., “La fabbrica del consenso”, pag.70-73.

[13] Conservato in ACS, MCP, Gabinetto, b. 4,  f.15, sf.32.

[14] Secondo Bhartes due elementi sono compresenti all’interno di ogni fotografia: lo studium, che consiste nell’interessamento culturale o personale, proveniente dal soggetto studioso e rivolto verso la fotografia; il punctum, una sorta di ferita provocata da una freccia che parte dalla fotografia e raggiunge il soggetto studioso, a carpire la sua attenzione e disturbare lo studium. Vedi Barthes R., “La camera chiara”.

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