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Il libro: gli italiani furono bravi soldati

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di Sergio Romano

A giudicare da una certa storiografia italiana l'unico evento militare della Grande Guerra che ancora meriti di essere ricordato, è Caporetto. I grandi protagonisti del conflitto (Badoglio, Cadorna, Diaz, il duca d'Aosta, Capello, Caviglia) sono scomparsi da molti anni. I «cavalieri di Vittorio Veneto» e i «ragazzi del '99» ci hanno lasciato silenziosamente, uno dopo l'altro. I piccoli monumenti «ai caduti», costruiti nelle piazze di tutti i paesi italiani, hanno smesso di parlare alla gente. Ma sopravvive tenacemente negli studi storici e politici il ricordo della disfatta.
Strappato al contesto della guerra e proiettato continuamente, con una specie di compiacimento masochista, sul grande schermo della coscienza nazionale, Caporetto è diventato simbolo di tutti i vizi italiani, metafora di tutti i disastri nazionali e chiave di volta della storiografia antirisorgimentale. Mentre una generazione fu educata nel ricordo della Vittoria, quelle del secondo dopoguerra sono state allevate nel ricordo della sconfitta. Quanti italiani sanno che la grande offensiva sferrata dalle armate austriache e tedesche il 24 ottobre 1917, alle 2 dopo la mezzanotte, dette il via alla dodicesima battaglia dell'Isonzo? Quanti sanno che le undici battaglie precedenti furono tra le più dure, sanguinose ed eroiche della Grande Guerra? Quanti ricordano il nome dei monti e dei paesi che i due eserciti conquistarono, perdettero e riconquistarono tra il giugno del 1915 e il novembre del 1918? Agli italiani smemorati lo ricorda un giovane storico americano, John R. Schindler, autore di un libro ( Isonzo, il massacro dimenticato della Grande Guerra ), tradotto ora in italiano da Alessandra Di Poi per la Libreria Editrice Goriziana. L'autore è uno storico militare, nello stile e nella tradizione dei migliori studiosi anglo-americani. Le sue considerazioni sulle vicende politiche che precedettero e seguirono la Grande Guerra, in Italia e in Austria, sono il risultato di ricerche serie e diligenti, ma non aggiungono molto a ciò che sapevamo e sono talvolta di seconda mano.
Nella descrizione delle battaglie, invece, Schindler è preciso, vivace, straordinariamente capace di creare suspense e attesa anche quando racconta vicende di cui conosciamo perfettamente l'epilogo. Il suo campo di battaglia è un grande teatro, animato da personaggi e comparse per cui il lettore prova attrazione o ripulsa. Sul proscenio, naturalmente, campeggiano i maggiori comandanti italiani, austriaci e tedeschi, da Cadorna a Boroevic, da Badoglio a Krauss. Ma sul fondo della scena vi sono attori «minori», colti nel momento in cui la loro vita attraversa l'Isonzo o il Carso. Sono il caporale dei bersaglieri Benito Mussolini, amato dagli ufficiali e detestato dai soldati; il tenente Renato Serra, ucciso mentre precede i suoi uomini all'attacco di una posizione nemica; il ventisettenne Scipio Slataper, caduto sulle pendici del Podgora; il capitano americano Fiorello La Guardia, figlio di una ebrea triestina e desideroso di liberare l'«Italia irredenta»: il giovane filosofo Ludwig Wittgenstein, impegnato in combattimento contro un corpo inglese sulla linea del Piave; il tenente Erwin Rommel sulla vetta del Matajur, strappata agli italiani dopo cinquantadue ore di ininterrotta avanzata.
Non è tutto. Schindler non si limita a descrivere i disegni strategici e i movimenti delle truppe, le grandi intuizioni e i calcoli sbagliati.
Nelle battaglie dell’Isonzo e del Piave vi sono, accanto ai piani dello stato maggiore, gli umori e gli animi dei combattenti. Anche se trattati spesso dai loro comandanti con spietata durezza, i soldati hanno forti passioni, odi tenaci e, nei momenti di maggiore entusiasmo, una divorante volontà di vittoria. Per gli italiani l'austriaco è il «nemico ereditario». Per i soldati imperiali, soprattutto austriaci, croati e sloveni, gli italiani sono traditori, felloni, miscredenti. Ecco le parole con cui il tenente generale Alfred Krauss, comandante del I Corpo austriaco, parla alle sue truppe nelle ore che precedono l'inizio della battaglia di Caporetto: «Ricordatevi di questo motto: "Niente quiete né riposo fino alla disfatta degli italiani". Andate con Dio!».
Inserita nel contesto delle grandi battaglie che furono combattute sull’Isonzo, Caporetto diventa un avvenimento più complesso di quanto non risulti dalla storiografia antirisorgimentale. Gli austro-tedeschi ripresero tutti i luoghi che avevano perduto negli anni precedenti (Gorizia, Plava, Monte Santo, il San Michele, il Sabotino, Podgora, Oslavia) e dettero all'Italia un colpo che parve, a tutta prima, mortale: 300.000 prigionieri, 400.000 disertori, 50.000 morti. Ma furono fermati sul Piave e non poterono sfruttare il successo. Nei mesi seguenti la situazione si rovesciò. Mentre Diaz, nuovo comandante supremo, creava con l'aiuto di Badoglio un nuovo esercito e aveva alle spalle un Paese desideroso di riscattare la sconfitta, l'Austria era ormai allo stremo delle sue forze.
Vi fu ancora una offensiva nel giugno 1918, quando l'imperatore Carlo cedette alle pressioni dello stato maggiore germanico e lanciò nuovamente le sue truppe contro il Piave. Ma fallì ed ebbe conseguenze disastrose sul morale e sull'unità dell'impero. Già all'inizio dell'anno vi erano stati scioperi e ammutinamenti a cui il governo aveva cercato di far fronte con una campagna di «istruzione patriottica» . Più tardi, dopo il fallimento dell’offensiva di giugno, la crisi economica divenne sempre più grave.
L'esercito, in particolare, mancava di tutto: cibo, armi, vestiario, assistenza sanitaria. Prevaleva ancora nei reggimenti, nonostante la straordinaria frammentazione etnica dell'impero, un forte sentimento di lealtà dinastica. Ma negli ultimi giorni di ottobre, mentre Diaz finalmente passava all'attacco, la grande macchina militare austro-ungarica cominciò a sgretolarsi. Alcune formazioni ungheresi abbandonarono il fronte e cominciarono un lungo viaggio di ritorno attraverso le Alpi. Alcuni generali cominciarono a chiedersi se il problema più grave, a quel punto, non fosse la restaurazione dell'ordine in patria contro i movimenti nazionali e rivoluzionari che stavano ormai agitando l'impero.
Quando fu firmato l'armistizio di Villa Giusti l'Austria-Ungheria era morta. Sopravvisse tuttavia, per una crudele ironia della storia, nei campi di concentramento. Dei 360.000 soldati catturati dalle truppe italiane 108.000 erano tedeschi, 83.000 cechi e slovacchi, 61.000 slavi del sud, 40.000 polacchi, 32.000 ucraini, 25.000 romeni «e persino 7.000 italiani in uniforme austriaca». Schindler non nasconde una certa simpatia per l'impero sconfitto, ma rende a tutti, con l'equilibrio e il distacco dello storico, l'onore delle armi.


Il libro di John R. Schindler, «Isonzo, il massacro dimenticato della Grande Guerra» (Libreria Editrice Goriziana, pagine 530, euro 19,00)

(Corriere della Sera, 29 luglio 2002)

 

 

 

 

 

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