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LA MEMORIA DELLA GUERRA:
L’ESPERIENZA DEGLI INTERNATI MILITARI ITALIANI (IMI)

di Luga Gorgolini (Osservatorio MQ- 2010)

 

Giorgio Rochat ha più volte ricordato la grande difficoltà con cui le diverse prigionie di guerra vengono generalmente ricordate dal paese, dalla forze armate e dagli stessi reduci; in effetti, la prigionia di guerra “è difficile da raccontare e ancor più da celebrare”: “non ha momenti eroici, ne vicende gloriose, né medaglie al valore” (1). Limitatamente a quanto accadde in Italia nell’immediato dopoguerra, Rochat ha però osservato che le cause della rimozione dell’esperienza della prigionia patita da centinaia di migliaia di soldati italiani andavano ricercate anche in alcuni elementi precipui del contesto nazionale italiano. A partire dal fatto che i reduci provenienti dai numerosi campi di prigionia e di internamento dislocati in tutti i continenti, “erano troppi e troppo diversi” (2). Ai 10.000 che rientrarono dalla Russia, si sommavano infatti, i circa 600.000 che provenivano dai campi di prigionia degli Alleati e i circa 650.000 che erano sopravissuti ai lager tedeschi. Il tentativo di affrontare i molteplici problemi e le diverse aspirazioni che animavano questa massa di ex combattenti, avrebbe necessariamente richiesto un riesame collettivo di alcuni passaggi salienti della storia più recente della nazione, puntando l’attenzione soprattutto sulle pesanti responsabilità che investivano una parte importante dei vertici istituzionali e militari: dall’adesione al fascismo, al sostegno dato alla partecipazione alla guerra, ai comportamenti tenuti nel periodo immediatamente successivo all’8 settembre del 1943. Le diverse e pesanti eredità derivanti dai molteplici fallimenti del regime fascista e le profonde lacerazioni causate dalla guerra civile, spinsero la classe dirigente ad accantonare ogni tentazione di riesame critico della guerra fascista, optando per la scelta più “semplice”: “una rimozione complessiva corretta da riconoscimenti e celebrazioni ritardate, indifferenziate e sottotono” (3).
D’altra parte, anche tra le fila della stessa popolazione civile, l’orientamento psicologico prevalente era caratterizzato dalla volontà di chiudere con gli anni della guerra che aveva seminato lutti e distruzioni a piene mani. A partire dall’estate del 1943, l’Italia era diventata un sorta di “terra di nessuno”, un “inferno congiunto di stragi naziste e bombardamenti alleati”, dove “non c’era né cielo da vedere né terra per camminare” (4) . “La mancanza di fronti militari più o meno stabili sul terreno e fissi nel tempo”, ha osservato Ernesto Galli della Loggia, “spezzando la rigidità spaziale della guerra ne spezzò anche, per così dire, l’imputazione sessuale, rigidamente circoscritta agli uomini. Dal 1939 al ’45 la guerra non corrispose ad alcun luogo separato nel quale si affrontassero gruppi contrapposti di maschi, ma fu un evento totale che impregnò da cima a fondo la quotidianità di ciascuno” (5).
Nel corso della guerra dunque, era venuta meno la distinzione tra soldato e civile, “fronte” e “società” erano diventati “omogenei” (6); nel’Italia del ’45, dove l’ “ombra della guerra” era ancora chiaramente percepibile, in buona sostanza anche i civili si sentivano “reduci” della guerra ed erano poco inclini a riservare agli ex combattenti che rientravano, riconoscimenti particolari e corsie preferenziali nella ricerca di una occupazione. Al di fuori della cerchia familiare e della propria rete associativa, le rivendicazioni dei reduci venivano vissute con un certo grado di fastidio all’interno di un paese in ginocchio, affollato di povera gente destinata a fare i conti con una quotidianità caratterizzata da tessere annonarie, sfollamento, case sventrate da bombardamenti, coabitazioni forzate, energia elettrica razionata, scarsità di acqua potabile, una mobilità ridotta ai minimi termini e soprattutto da mancanza di lavoro. “Più di 1.300.000 – le parole sono di Caludio Sommaruga, ex internato militare – reduci da tutte le prigionie, in tutti i continenti, si riversavano, nel 1945-1947, in un’Italia postfascista, indifferente, stanca di sentir parlare di guerra, in bilico tra l’antifascismo popolare della Resistenza, l’anticomunismo strumentalizzato della “guerra fredda” e l’opportunismo di chi stava a guardare. Si onorano i pochi superstiti della deportazione politica e razziale nei Lager di Hitler e nei campi di prigionia di Stalin, che non avevano avuto scelte da compiere, vittime di un tragico destino. Gli ex internati, volontari nei Lager, invece non facevano notizia” (7).
In effetti, solo la memoria della prigionia di Russia conobbe un certo grado di interesse e di diffusione, in ragione, soprattutto, di una strumentalizzazione politica strettamente connessa al clima di tensione ideologica prodotto dall’avvio della guerra fredda. Le numerose testimonianze pubblicate nel dopoguerra, in prevalenza redatte da ufficiali, presentavano, infatti, un tratto fortemente unilaterale, caratterizzato molto spesso da una dura contrapposizione nei confronti del nemico carceriere. Solo in seguito alla pubblicazione delle testimonianze dei reduci cuneesi, quasi tutti appartenenti alla truppa, raccolte da Nuto Revelli, la guerra e la prigionia in Russia vennero raccontati in modo differente: in quelle testimonianze infatti la guerra era soprattutto sinonimo di “obbedienza, sofferenza e sacrificio”, e la prigionia non era rappresentata come una frattura dell’esperienza bellica, bensì come la continuazione di quella sofferenza. “I soldati raccontano quanto hanno vissuto, senza generalizzazioni e senza pregiudizi verso i russi, con i quali hanno spesso avuto rapporti da contadini e contadini” (8). Dall’altra parte, invece, le memorie dei soldati fatti prigionieri dagli Alleati e dei soldati imprigionati da tedeschi nelle ore e nei giorni successivi all’ambigua dichiarazione radiofonica di Badoglio, venne largamente rimossa. Se nel caso dei primi è possibile ipotizzare come causa dell’oblio della loro esperienza di prigionia, l’assenza di “dimensioni collettive drammatiche” – all’interno dei campi degli Alleati, i prigionieri ricevettero un trattamento in buona misura corretto, in linea con quanto prescritto dalle convenzioni internazionali – le ragioni della rimozione della tragedia vissuta dagli Imi appaiono più diversificate.
Non c’è dubbio che l’indifferenza e l’ostilità che gli Imi sperimentarono sulla propria pelle, al pari degli altri reduci delle diverse prigionie, una volta rientrati in Patria, ebbero un ruolo determinante nel convincere la quasi totalità di loro a rimuovere il trauma vissuto, rifugiandosi nel silenzio e concentrando i propri sforzi nel tentativo di ricostruire una propria identità sociale all’interno di una comunità nazionale, in cui i riferimenti culturali e il sistema di valori dominanti erano profondamente diversi da quelli che avevano caratterizzato l’Italia fascista. Ma la rimozione del “trauma del reticolato”, sostenuta in molti casi anche dalla convinzione dell’inutilità del sacrificio vissuto durante il “calvario coraggioso e ripetuto” cui si erano consapevolmente sottoposti, finì con l’alimentare la scarsa o nulla attenzione manifestata dagli “altri”: “la stampa, l’opinione pubblica, la scuola, la generazione dei figli” (9).
Dato questo quadro di incomprensioni e disillusioni che seguirono il rientro in patria degli internati militari, e le reticenze, molto spesso strumentali, con cui la loro vicenda venne ripercorsa dalla classe dirigente di allora, la memoria e la storia di quella esperienza finirono, inevitabilmente, per essere quasi dimenticate, nonostante i tentativi generosi messi in atto dalle associazioni che raggruppavano gli ex internati. A partire dalla Anei, l’Associazione nazionale ex internati, nata negli Oflag di Sandbostel e Wietzendorf e costituitasi legalmente in Italia nel 1946 (ufficialmente riconosciuta come Ente morale nell’aprile del 1948), che “intraprese, oltre all’attività di assistenza e di cura della memoria dei caduti, un’opera sistematica di ricerca e di raccolta di documenti” (10).
Contestualmente, di pari passo con la perdita della memoria pubblica delle vicende, si è manifestata anche quella della memoria storica (11). É stato scritto che la disattenzione dovuta alla vicenda degli Imi, relegata “in una sorta di limbo della memoria”, fu dovuta anche “a decenni di celebrazioni liturgiche” di un’idea di Resistenza e Liberazione spesso limitata alla sola lotta partigiana “cui si è finito per assegnare un ruolo di principale o addirittura unico rappresentante, o di finale sintesi dell’intera storia nazionale” (12). Per moti versi, “nella società italiana del dopoguerra le formazioni partigiane godevano di un prestigio in qualche modo paragonabile a quello di cui avevano goduto i reduci della Prima guerra mondiale, gli internati nei campi tedeschi non erano che il simbolo della tutt’altro che dimenticata disfatta dell’8 settembre”; d’altra parte, mentre i partigiani si sentivano vittoriosi e rivendicavano con forza la loro guerra e la loro sofferenza, sorretti da associazioni con “dichiarati programmi di rinnovamento politico-sociale” (13), gli internati militari si sentivano sconfitti, incapaci di proporsi al Paese come modello (14). Come osserverà in seguito, Carlo De Luca, segretario dell’Anei “il termine stesso di “internati” non evoca[va] particolari situazioni di eroismo” (15).
Al contrario, una volta rientrati casa, gli internati sopravissuti ai lager, si trovarono addirittura nella condizione di doversi difendere dall’accusa di collaborazionismo che alcuni settori dell’opinione pubblica avevano precedentemente sollevato: “in patria molti credevano che gli internati avessero soltanto evitato i rischi di un nuovo fronte di guerra, consegnandosi ai tedeschi e lavorando per loro” (16). Con amarezza, un ex internato militare, ricorderà in seguito: “per i tedeschi eravamo “badogliani”, per i fascisti “traditori”, per i partigiani “dei vili” che avevano ceduto le armi ai tedeschi offrendosi di lavorare nelle fabbriche della Germania in cambio della vita” (17).
Fortemente influenzati dall’esperienza della Resistenza, a lungo ripercorsa seguendo l’interpretazione fondata sull’opposizione fascismo-antifascismo, gli stessi “liberalprogressisti e comunisti non hanno saputo collocare in modo sufficientemente chiaro la sorte degli Imi nel contesto di una lotta di liberazione antifascista che ha costituito il fondamento legittimante della Repubblica e ha caratterizzato per decenni la cultura politica e la coscienza collettiva del paese” (18). Come ha recentemente affermato Claudio Pavone, la preferenza che la storiografia resistenziale ha accordato per molto tempo alle “grandi interpretazioni politiche” ha finito con il produrre sviste e disattenzioni di cui sono rimasti vittima tra gli altri, anche soldati italiani internati in Germania ai quali per molti anni non è stata dedicata l’attenzione che “meritavano” (19). All’interno della voluminosa Storia della resistenza italiana redatta da Roberto Battaglia e apparsa per la prima volta a metà degli Cinquanta, alla vicenda degli Imi viene dedicata solo mezza pagina. Lo stesso Alessandro Natta, ex internato militare e personalità di spicco del partito comunista italiano, intervenendo nel maggio del 1991 al convegno fiorentino dedicato agli internati militari e ai prigionieri di guerra durante l’ultimo conflitto mondiale, ha ricordato che nel 1954 la casa editrice del suo partito aveva rifiutato la pubblicazione di una sua riflessione-testimonianza dedicata all’esperienza di internamento vissuta in Germania (20).
Gli stessi elenchi bibliografici che raccolgono le testimonianze e gli sudi sull’interamento prodotti nel periodo compreso tra l’immediato dopo guerra e i primi anni Ottanta del secolo scorso, testimoniano con efficacia la rimozione della vicenda degli Imi. Come ha rilevato chi per primo si è occupato di mettere mano ad una rassegna bibliografica sistematica di questi documenti, la maggior parte delle pubblicazioni apparse nei decenni appena indicati, sono, specie nel periodo dell’immediato dopoguerra, testimonianze autobiografiche redatte da ufficiali, medici o cappellani militari; le testimonianze dei soldati che vengono edite in forma integrale o parziale, all’interno di volumi antologici, sono in numero sensibilmente minore, quasi marginali. Si tratta nel complesso di testimonianze soggettive, memorie e diari, che riescono a beneficiare di una distribuzione circoscritta, generalmente limitata ai soli circuiti delle associazioni dei reduci: per molto tempo, l’editoria dell’internamento militare “è di fatto ignorata dai grandi editori e dai librai ed è scarsamente presente nelle biblioteche. Si sviluppa per lo più a carico degli autori o delle associazioni, appoggiandosi a piccoli editori o tipografie prestanome, con scarse sponsorizzazioni, tirature limitate (poche centinaia di copie)” (21). Altro elemento che a metà degli anni Ottanta emergeva da questo primo “bilancio”, era dato dal sostanziale disinteresse manifestato dalla storiografia italiana per queste storie; un vuoto storiografico in cui si inseriva l’opera di alcuni studiosi, in qualche caso ex internati o riconducili al loro ambiente, che, salvo rare eccezioni, si presentava prevalentemente deludente, con il limite di fondo dato dalla “rinuncia allo sfruttamento degli archivi italiani e soprattutto tedeschi” (22) e dall’appiattimento sulla memorialistica come unica fonte. Negli stessi manuali storici in uso nelle scuole medie inferiori e superiori questo importante episodio della storia contemporanea, risultava di fatto trascurato, e rispetto alle pagine dedicate alla Resistenza in Italia, praticamente del tutto assente: un silenzio che viene fatto risalire alle “difficoltà di carattere politico” che avevano per molti anni influenzato rapporti tra internati e partigiani (23).
La situazione sopradescritta muta di segno tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, in ragione di un progressivo venir meno di quegli elementi che avevano determinato la rimozione della memoria soggettiva, della memoria pubblica e della memoria storica relative a quella pagina di storia.
L’ “omertà” e l’ “isolamento” degli internati cominciarono a “smagliarsi” in coincidenza del mutamento subito dal quadro politico e del pensionamento degli stessi reduci, i quali, in quel frangente della loro esperienza biografica, “avevano meno rimozioni, più contatti con gli altri e tempo disponibile per recuperare la memoria”; “dagli anni ’80, la massa dei reduci, nel frattempo anagraficamente dimezzatasi, riscoprì, anche ai fini pensionistici (riconoscimento degli anni di guerra) il passato rimosso, sbloccandosi in parte come testimoniano la memorialistica tardiva, i saggi e i convegni storici (dal 1984), la costituzione tardiva di nuove associazioni di reduci” (24). La loro uscita allo scoperto fu in qualche modo favorita dalla ripresa del dibattito europeo attorno al tema dei risarcimenti economici per coloro che erano stati costretti a lavorare nelle imprese tedesche nel corso dell’ultimo conflitto mondiale.
Un ruolo importante fu giocato anche dall’attenuazione delle “grandi interpretazioni storiche” che per interi decenni avevano condizionato la storiografia resistenziale, producendo sviste e silenzi di cui, come ricordato, erano rimasti vittima gli stessi soldati italiani internati in Germania dopo l’8 settembre del 1943. Il “no” pronunciato dalla gran parte degli Imi venne progressivamente rivalutato in ragione delle conseguenze che il loro comportamento determinò a più livelli durante il conflitto. A partire da quello militare, in ragione del fatto che il loro rifiuto privò Mussolini della possibilità di poter dotare la Repubblica sociale italiana di un vero esercito. La loro scelta, inoltre, ebbe anche ripercussioni sul piano politico interno italiano, dando un contributo diretto alla Resistenza nazionale: la vicenda di questi soldati, fatti prigionieri dopo l’annuncio dell’armistizio, internati per volontà del governo tedesco, di cui il governo repubblicano fascista era formalmente alleato, e costantemente costretti ad avanzare ai propri familiari richieste di cibo e di vestiario, finì per amplificare la delegittimazione del governo di Mussolini agli occhi di ampi settori dell’opinione pubblica nazionale. Inoltre, dalla resistenza degli Imi “derivò anche un significativo contributo al “riscatto italiano” dal fascismo e dalla guerra di aggressione, grazie al quale il paese, nel dopoguerra, poté presentarsi tra le nazioni democratiche, vincitrici sul nazifascismo” (25). Nella seconda metà degli anni Ottanta, si assiste così sul piano storiografico ad un inclusione degli Imi tra le fila di coloro che parteciparono al movimento resistenziale, inteso in una dimensione più ampia rispetto ai decenni precedenti, e articolato su quattro fronti: i soldati e gli ufficiali nei campi di internamento militare e i politici e gli ebrei nei campi di concentramento e sterminio; i partigiani italiani all’estero; i soldati dell’esercito nella campagna d’Italia e infine il movimento partigiano (26).
Contestualmente, si sono susseguiti diversi riconoscimenti del valore della resistenza degli Imi, sempre più frequenti e autorevoli e, soprattutto, diversamente dalle dichiarazioni rilasciate nei decenni precedenti, destinati ad incidere in modo significativo non solo tra le fila degli “addetti ai lavori” ma all’interno dell’intera opinione pubblica. Nel febbraio del 1993, partecipando alla presentazione del diario di un ex internato militare, Arrigo Boldrini, figura storica del movimento partigiano e in quel momento presidente dell’Anpi, si chiedeva: “Cosa ha significato questa presa di posizione dei 600.000 nei campi di concentramento? È una valutazione che deve farci pensare anche per quel che riguarda la partecipazione alla Lotta di Liberazione. 600.000 nei campi di concentramento, con parenti e amici nel territorio nazionale, forse 9-10 milioni: questa considerazione dà alla Lotta di Liberazione un segno straordinario […]. Ebbene, se non ci fosse stata quella componente così larga, così partecipata – io lo chiamo un referendum popolare senza comizi, senza manifestazioni – come si sarebbe ricucita l’Italia, quale sarebbe stato il ruolo di riscossa dell’Esercito Italiano, quale l’apporto del movimento partigiano, quale fu l’impegno di questa tacita partecipazione indiretta per la costituzione dei Comitati di Liberazione Nazionali? […] Dai campi di concentramento viene fuori un altro filone incredibile, che è la resistenza degli italiani all’estero […] Ma non è forse vero che nei campi di concentramento qualcuno ha buttato giù le prime righe della Costituzione italiana: la libertà, i diritti umani, la pace? Come li abbia scritti non lo so, ma li abbiamo recepiti nella Costituzione” (27). È all’interno di questo rinnovato clima politico e, come vedremo tra breve, storiografico, che le memorie dell’internamento subìto da Alessandro Natta, la cui stampa nel 1954 era stata rifiutata perché “editorialmente” non opportuna, nel 1996 vengono pubblicate, con il celebre titolo di “L’altra resistenza” dalla casa editrice Einaudi, riscuotendo un grande successo. Negli ultimi dieci anni, si è assistito ad altri due interventi dall’alto valore simbolico che hanno visto protagonisti gli ultimi due presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Il primo nel marzo del 2001 si recò a Cefalonia e rese omaggio ai martiri della divisione Acqui, trucidati dalle truppe tedesche nei giorni successivi all’annuncio dell’armistizio, pronunciando queste parole: “Decideste così, consapevolmente, il vostro destino. Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l’esistenza. Su queste fondamenta risorse l’Italia. Questa signor Presidente della Repubblica Ellenica, è l’essenza della vicenda di Cefalonia nel settembre 1943 […] la loro scelta consapevole fu il primo atto della resistenza, di un’Italia libera dal fascismo”. Il 25 aprile del 2007, ancora a Cefalonia, Giorgio Napolitano dichiarava: “La maturità delle motivazioni ideali e politiche che caratterizzarono la Resistenza in Italia sarebbe venuta più tardi, ma a Cefalonia si manifestò un impulso nobilissimo e destinato a dare i suoi frutti. Si può ben cogliere un forte legame ideale fra quell’impulso e la successiva maturazione dello spirito della Resistenza. Molto si continua a scrivere e a discutere sul clima che si creò in seno alla Divisione Acqui in quei terribili giorni. Ma non c’è polemica storiografica o pubblicistica che possa oscurare l’eroismo e il martirio delle migliaia di militari italiani che scelsero di battersi, caddero in combattimento, furono barbaramente trucidati. Anche qui si creò la premessa essenziale per la costruzione di una nuova Italia democratica” (28).
Sul piano prettamente storiografico, una inedita stagione di studi riservati all’internamento militare prese il via nel 1985, in coincidenza dunque del 40° anniversario della conclusione della seconda guerra mondiale, con il convegno dell’Anei di Firenze che ebbe il merito di favorire una ripresa dell’interesse per gli Imi ed un rilancio della loro memorialistica, con particolare riferimento a quella prodotta dai soldati, come detto fortemente minoritaria nei decenni precedenti (29). Una attenzione per le testimonianze soggettive che a ben guardare si inserisce all’interno di una “congiuntura storiografica” particolarmente favorevole al rinnovamento del panorama degli studi sull’vento-guerra, come è testimoniato dal convegno internazionale di studi svoltosi a Rovereto, sempre nel 1985, e dedicato alla prima guerra mondiale (“La Grande Guerra. Esperienza, memoria, immagini”) (30) ; un rinnovamento che si è esplicato, per quel che riguarda lo studio della Grande Guerra, attraverso la raccolta sistematica e l’analisi di fonti in precedenza scarsamente utilizzate, se non ignorate, quali ad esempio le testimonianze autobiografiche (lettere, diari e memorie) prodotte sia dai soldati al fronte sia dai loro familiari.
Altro caposaldo di questa nuova fase della ricerca sugli internati, è rappresentato dal convegno del 1991, in cui l’analisi riguardò anche “la condizione più generale dei prigionieri di guerra di altri paesi belligeranti caduti in mano delle forze tedesche per poter meglio definire, appunto nel rapporto comparativo, le caratteristiche dell’internamento nell’economia più generale del trattamento che l’apparato militare tedesco riservò alla forze italiane catturate dopo l’armistizio” (31). Nello stesso anno, inoltre, vennero pubblicati da parte dell’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito i risultati dell’approfondito lavoro di indagine storica condotto dallo studioso tedesco Gerhard Schreiber, attraverso il recupero di un ampio materiale documentario rintracciato presso gli archivi tedeschi, efficacemente intrecciato con il contenuto dei non altrettanto numerosi documenti conservati presso gli archivi nazionali italiani (32). Successivamente, un’ulteriore definizione e sistemazione storiografica della vicenda in oggetto si avrà grazie all’impegno di Gabriele Hammermann, autrice di uno studio specificatamente dedicato alle condizioni di vita e di lavoro sofferte dagli Imi nel corso del loro internamento (33). Accanto alle diverse sezioni dell’Associazione nazionale ex deportati, anche gli istituti storici della Resistenza hanno riservato a questa storia alcuni momenti di riflessione ed iniziative editoriali di valore, a conferma di quanto si è ricordato in precedenza sull’accettazione di una rinnovata dimensione del fenomeno resistenziale che si fa strada in quel decennio. Ricordiamo tra gli altri, i seguenti volumi: Istituto storico della Resistenza in Piemonte (cur.), Una storia di tutti: prigionieri, internati deportati italiani nella seconda guerra mondiale (atti del convegno internazionale svoltosi a Torino il 2-3-4 novembre del 1987), 1987; A. Bendotti e E. Valtulina (cur.), Internati, prigionieri, reduci : la deportazione militare italiana durante la seconda guerra mondiale, Istituto bergamasco per la storia della resistenza e dell’età contemporanea, Bergamo, 1999, e l’opera curata Adolfo Mignemi che documenta l’esistenza quotidiana degli ufficiali all’interno dei lager, prendendo in esame le immagini fotografiche furtivamente realizzate dagli stessi militari italiani (34). Non sono mancati, inoltre, progetti di ricerca finalizzati ad indagare le diverse situazioni locali, attingendo dalla memoria diretta dei protagonisti e, più recentemente, dal contenuto dei documenti conservati presso gli archivi dei distretti militari (35).
La “svolta” verificatasi nel corso degli anni Ottanta, trova conferma anche sul piano quantitativo in rapporto al numero complessivo di pubblicazioni apparse dal 1985 in avanti; la rassegna bibliografica curata da Claudio Sommaruga nel 2001 mostra che poco meno della metà dei circa 650 titoli apparsi dal 1945 al 2000, si riferiscono a pubblicazioni editate proprio nei quindici anni successivi al 1984. Pur in assenza di una bibliografia completa sull’argomento che dia conto con puntualità di quanto è stato pubblicato nel corso dell’ultimo decennio, la consultazione del database del sistema bibliotecario nazionale testimonia la costante attenzione che a più livelli è stata riservata all’esperienza degli Imi, rafforzata di recente anche dall’istituzione del giorno della memoria, “in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”, dando conto tra l’altro di un sensibile miglioramento della collocazione editoriale di questi pubblicazioni che conoscono dunque una maggiore diffusione rispetto a quanto avveniva precedentemente e confermando la prevalenza di ricerche che vanno oltre il contesto nazionale per prendere in esame il contesto locale, molto spesso nel tentativo di mettere al sicuro i ricordi degli “ultimi testimoni”.
Quest’ultimo aspetto rinvia per l’appunto ai vuoti di memoria che decenni di silenzi privati e pubblici hanno prodotto e che la fortunata stagione di riconoscimenti pubblici e studi storici appena ripercorsa, è riuscita solo in parte a colmare: il tempo trascorso, infatti, ha favorito la dispersione e la perdita definitiva di testimonianze biografiche su quel frangente della storia nazionale. Si è detto sopra del ruolo svolto dall’Anei in difesa dell’onore degli internati e dello sforzo che questa associazione ha svolto nel lavoro di salvaguardia delle memorie di quegli eventi; un impegno importante, ma che ha potuto poco contro l’oblio allora indotto dalla classe dirigente, l’indifferenza degli storici e la vergogna degli stessi internati militari.
È stato calcolato che nel 1995, l’Anei associava circa 15.000 reduci su un totale di 150.000 superstiti (36), ma gli ultimi due decenni hanno visto, come è ovvio, una progressiva riduzione del tasso di vitalità registrato nelle attività associative e di studio: “l’Anei è un’associazione istituzionalmente senescente – le parole sono di Claudio Sommaruga – , con soci non rinnovabili e una carica iniziale destinata fatalmente all’esaurimento, senza prospettive di evoluzione ma, semmai, di involuzione. I suoi compiti dovrebbero ora concentrarsi sul “riordino delle carte di famiglia”, come i buoni padri e i nonni, per la salvaguardia del patrimonio etico e storico dell’internamento, per il ricordo dei caduti “non per caso”, per la difesa dei valori nei quali hanno creduto e per i quali hanno lottato, perché “ció che è stato non i ripeta” e contro i revisionismo e i “ritorni di fiamma”. Ma tutto questo è sempre più difficile, nel poco tempo che resta e col troppo tempo perduto” (37).
In questo senso, il sussulto degli anni Ottanta che ha dato il via ad una fase di ricerca finalmente scientificamente fondata, rompendo l’isolamento politico dei reduci dell’internamento, ha prodotto sul piano del recupero della memoria risultati inferiori rispetto quelli potenzialmente possibili. Se si sommano le testimonianze edite con quelle conservate nei diversi archivi (38) ci si trova di fronte ad un numero di testimonianze che costituiscono solo una minima parte di una grande mole di documenti soggettivi redatti nel corso dell’internamento o nei decenni successivi, inconsapevolmente o distrattamente custoditi in migliaia di archivi familiari.
In effetti, l’impegno profuso in progetti di ricerca locali volti a registrare le testimonianze orali dei reduci ancora in vita, non ha registrato uno sforzo altrettanto deciso sul piano della ricerca sistematica di testimonianze soggettive scritte, specie di quelle redatte nel corso dell’internamento. Eppure si tratta di una mole sterminata di documenti che con pazienza potrebbero riemergere. Una prova recente sull’esistenza di questi giacimenti di documenti è stata fornita da Mario Avagliano e Marco Palmieri, ricercatori del Centro studi della Resistenza dell’Anpi di Roma-Lazio, i quali negli ultimi due anni hanno attraversato l’Italia, bussando alla porta di tanti reduci ancora in vita o dei loro discendenti, seguendo un metodo empirico che ricorda molto da vicino l’esperienza condotta a suo tempo da Nuto Revelli e riscontrando l’esistenza di decine di diari e centinaia di lettere, a volte veri e propri epistolari. Testimonianze inedite che assumono la valenza di “fonti storiche dirette”, documenti che “essendo coevi e possedendo quindi un grado di attendibilità di gran lunga superiore a quello delle memorie successive, servono ad approfondire quali furono le condizioni di prigionia e di lavoro forzato subite dagli Imi. Si tratta di fonti storiche che, sebbene condizionate dalla visione parziale e dall’esperienza individuale, una volta incrociate e confrontate tra loro, prendendo in considerazione un adeguato campione, come avviene in questa ricerca, restituiscono informazioni importanti sulla vicenda degli Imi” (39).
Come si è detto sopra, da alcuni anni gli istituti di storia della Resistenza e/o dell’età contemporanea stanno sviluppando progetti di ricerca incentrati sull’analisi dei documenti conservati presso gli archivi dei distretti militari, arrivando tra l’altro a formulare elenchi di Imi su base provinciale. Come nel caso dell’Istituto di storia contemporanea della provincia di Pesaro e Urbino che attraverso la costruzione di un apposito database sta procedendo alla individuazione degli Imi ancora in vita o dei loro discendenti allo scopo di rintracciare documenti autobiografici da raccogliere in un apposito fondo documentario, specificatamente dedicato all’internamento militare. Esperienze simili in altre province potrebbero portare ad una verifica sistematica delle testimonianze ancora esistenti, incrementando in modo sensibile la quantità e la qualità stessa, in termini di contenuti, dei documenti da mettere a disposizione del ricercatori.

©Luca Gorgolini, “La memoria della guerra: l’esperienza degli internati militari italiani (IMI)”,
in www.laboratoriodistoriasociale.eu — osservatorioMQ (tutti i diritti riservati)

 

1 G. Rochat, Introduzione, in C. Sommaruga, Per non dimenticare. Bibliografia ragionata della deportazione e dell’internamento dei militari italiani nel Terzo Reich (1943-45) , A.n.e.i, Brescia, p. 5; Idem, La società dei lager. Elementi generali della prigionia di guerra e peculiarità delle vicende italiane nella seconda guerra mondiale, in N. Labanca (cur.), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), atti del convegno internazionale di studi storici su «Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945) fra sterminio e sfruttamento» (Firenze, 23-24 maggio 1991), Le Lettere, Firenze, 1992, pp. 137-138.
2 G. Rochat, La prigionia di guerra, in M. Isnenghi, (cur.), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 391.
3 Ivi, p. 391.
4 G. Crainz, L’ombra della guerra: 1945. L’Italia, Donzelli, Roma, 2007, pp. 13-17.
5 E. Galli della Loggia, Una guerra «femminile»? Ipotesi sul mutamento dell’ideologia e dell’immaginario occidentali tra il 1939 e il 1945, in A. Bravo (cur.), Donne e uomini nelle guerra mondiali, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 5.
6 A. Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 22
7 C. Sommaruga, L’internamento: memoria, rimozione e azioni dei reduci e degli “altri”, in C. Sommaruga (cur.), Dopo il lager. La memoria della prigionia e dell’internamento nei reduci e negli “altri”, Guaisco, Napoli, 1995, p. 89.
8 G. Rochat, La prigionia di guerra, cit., p. 392
9 C. Sommaruga, Introduzione, ricordare cosa, come, perché, in C. Sommaruga (cur.), Dopo il lager. La memoria della prigionia e dell’internamento nei reduci e negli “altri”, cit., p. 33.
10 A. Bistarelli, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, cit., p. 140.
11 G. Procacci, Gli internati militari italiani. Le testimonianze degli IMI della provincia di Modena, in G. Procacci e L. Bertuccelli (cur.), Deportazione e internamento militare in Germania. La provincia di Modena, Edizioni Unicopli, Milano, 2001, p. 16.
12 M. Avagliano e M. Palmieri, Introduzione a M. Avagliano e M. Calmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945, Einaudi, Torino, 2009, pp. LVII-LVIII.
13 G. Rochat, Memorialistica e storiografia sull’internamento, in N. Della Santa (cur.), I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Atti del convegno di studi storici promosso a Firenze il 14 e 15 novembre 1985 dall’Associazione Nazionale Ex Internati nel 40° anniversario della liberazione, Giunti, Firenze, 1986, p. 25.
14 G. Rochat, Gli IMI nella storiografia e nella opinione pubblica. Il caso «Leopoli», in Guisco (cur.), Schiavi allo sbaraglio. Gli Internati Militari Italiani nei Lager tedeschi di detenzione, punizione e sterminio. Riflessioni e confronti, Atti della giornata di studio 5° Raduno Nazionale Guisco, Napoli, 7 ottobre 1988, L’arciere, Cuneo, 1990, p. 45.
15 C. Sommaruga, L’internamento: memoria, rimozione e azioni dei reduci e degli “altri”, p. 88.
16 Ivi, p. 92.
17 Ivi, p. 98
18 G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania. 1943-1945, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 12-13.
19 C. Pavone e A. Ballone, La Resistenza: un percorso storiografico, in E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi (cur.), Dizionario della resistenza, Eianudi, Torino, 2006, vol. II, Luoghi, formazioni, protagonisti, p. 705.
20 E. Collotti, Introduzione a A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, Torino, 1996, p. V.
21 C. Sommaruga, La memoria degli Imi, in C. Sommaruga, Per non dimenticare, Bibliografia ragionata della deportazione e dell’internamento dei militari italiani nel Terzo Reich (1943-45), p. 7.
22 G. Rochat, Memorialistica e storiografia sull’internamento, p. 27.
23 L. Cajani, Gli internati militari italiani in mano tedesca (1943-1945), in C. Sommaruga (cur.), Dopo il lager, cit., pp. 123-142.
24 C. Sommaruga, L’internamento: memoria, rimozione e azioni dei reduci e degli “altri”, cit., p. 102.
25 M. Avagliano e M. Palmieri, Introduzione, cit., p. LIII.
26 E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi, Introduzione, in E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi (cur.), Dizionario della resistenza, Eianudi, Torino, 2006, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, p. XXIII.
27 Brano citato, in C. Sommaruga, L’internamento: memoria, rimozione e azioni dei reduci e degli “altri”, cit., pp. 100-101.
28 Brani riportati sul sito web http://www.cefaloniacorfu1943.net (ultima consultazione: 12 marzo 2010).
29 N. Della Santa (cur.), I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Atti del convegno di studi storici promosso a Firenze il 14 e 15 novembre 1985 dall’Associazione Nazionale Ex Internati nel 40° anniversario della liberazione, Giunti, Firenze, 1986.
30 D. Leoni e C. Zadra (cur.), La grande guerra: esperienza, memoria, immagini, Il Mulino, Bologna, 1986.
31 E. Collotti, La guerra nazista come guerra di sterminio, in N. Labanca (cur.), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista, 1939-1945, cit., pp. 3-4.
32 Gerhard, Schreiber, I militari italiani nei campi di concentramento del terzo reich 1943-1945, Ufficio storico SME, Roma, 1992.
33 G. Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania. 1943-1945, cit..
34 A. Mignemi (cur.), Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania, Bollati Boringhieri, Torino, 2005
35 Tra gli altri, si segnalano: Anei, Resistenza senz’armi. Un capitolo di storia italiana dalle testimonianze di militari toscani internati nei Lager nazisti, Le Monnier, Firenze,
1988, A. Bendotti, G. Bertacchi, M. Pelliccioli e E. Valtulina (cur.), Prigionieri in Germania. La memoria degli internati militari, Il filo di Arianna, Bergamo 1990, N. Labanca (cur.), La memoria del ritorno. Il rimpatrio degli internati militari italiani, 1945-1946, Giuntina, Firenze, 2000, G. Procacci e L. Bertuccelli (cur.), Deportazione e internamento militare in Germania. La provincia di Modena, Unicopli, Milano, 2001, R. Ropa, Prigionieri del terzo reich. Storia e memoria dei militari bolognesi internati nella Germania nazista, Clueb, Bologna, 2009, A. Bartolini e E. Malvezzi (cur.), Gli ultimi testimoni. Storie e ricordi degli internati militari nei lager nazisti, Polistampa, Firenze, 2009.
36 C. Sommaruga, L’internamento: memoria, rimozione e azioni dei reduci e degli “altri”, cit., p. 83.
37 Ivi, pp. 95-96.
38 Fondazione Archivio Diaristico Nazionale (Pieve Santo Stefano), Archivio di Stato di Bolzano, Laboratorio di storia sociale - “Memoria del quotidiano” (Univ. di Bologna, sede di Rimini), Archivi degli istituti storici che aderiscono alla rete nazionale dell’Insmli (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione), Associazione nazionale ex internati (Anei) (Roma), Schiavi di Hitler. Museo virtuale delle deportazione, c/o Istituto di Storia Contemporanea “Pier Amato Perretta” (Como), A.N.E.I. Museo dell’internamento (Padova), Fondazione archivio nazionale ricordo progresso c/o Associazione nazionale dei reduci della prigionia (Anrp) (Roma). Per ulteriori informazioni, consulta la sezione “Archivi”.
39 M. Avagliano e M. Palmieri, Introduzione, cit., p. LXI.

 

 

 

 

 

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