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Bibliografia sulla storia della Repubblica italiana

a cura di Mario Avagliano

AA.VV., L’Italia dalla liberazione alla repubblica (Atti del Convegno internazionale, Firenze, 26-28 marzo 1976), collana Insmli, Milano, Feltrinelli, sd.

AA.VV., Storia dell’Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1994-1997

Giorgio Bocca, Storia della Repubblica Italiana, Rizzoli Editore, Milano 1981

Giampiero Carocci, Storia dell’Italia dall’unità a oggi, Milano, Feltrinelli, 1975

Valerio Castronovo e altri, L’Italia contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976

Camillo Daneo, La politica economica della ricostruzione 1945-1949, Torino, Einaudi, 1975

Marcello Flores e altri, Gli anni della Costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Milano, Feltrinelli, 1983

Antonio Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla liberazione al potere Dc, Bari, Laterza, 1975

Paul Ginsborg, L’Italia dal dopoguerra ad oggi, 2 vol., Torino, Einaudi, 1989

Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992

Massimo Legnani, Restaurazione padronale e lotta politica in Italia 1945-1948, “Rivista di storia contemporanea”, gennaio 1974

Aurelio Lepre, Prima storia della prima repubblica, Bologna, Il Mulino, 1994

Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica - L'Italia dal 1945 al 1998, Bologna, Il Mulino, 1999

Denis MacSmith, Storia dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1997

Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia del Novecento - Un viaggio lucido e disincantato attraverso il Ventesimo secolo, Ed. RCS Libri, Milano 2000

Enzo Piscitelli e altri, L’Italia 1945-48. Le origini della repubblica, Torino, Giappichelli, 1974

Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti, Bologna, Il Mulino, 1990

Stuart Woolf e altri, Italia 1943-1950. La ricostruzione, Bari, Laterza, 1974

Sergio Zavoli, C'era una volta la prima Repubblica - Cinquant'anni della nostra vita, Arnoldo Mondatori Editore, collezione Oscar, Milano 1999

 

pallanimred.gif (323 byte) Bibliografia del '68

pallanimred.gif (323 byte) Bibliografia del Movimento del '77 a cura di Sébastien Croquet (Université des sciences humaines d'Aix en Provence)

pallanimred.gif (323 byte) Bibliografia del terrorismo

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Gli storici e l’Italia repubblicana

a cura di Nicola Tranfaglia

Il tema è "Gli storici e l’Italia repubblicana", cioè come gli storici, non solo italiani, hanno affrontato il problema della storia dell’Italia repubblicana. In fondo, una riflessione che ho avuto modo di fare spesso parlando con i miei studenti, è che noi parliamo del fascismo come di un’epoca lunghissima, che ha segnato la storia d’Italia, e poi tendiamo a dedicare meno attenzione alla storia dell’Italia repubblicana che, in termini di durata, finora è più del doppio dell’esperienza fascista. Questo succede sempre quando si tratta di periodi vicini, che ci hanno visto testimoni e a volte persino attori delle cose che sono successe.

Gli storici hanno sempre bisogno di usare in qualche modo il senno di poi, e il senno di poi è difficile da usare per descrivere un’esperienza come quella repubblicana, che è ancora aperta. Si parla moltissimo, per esempio, sui mezzi di comunicazione di massa di prima e di seconda Repubblica, ma quello che è certo è che fino a oggi noi apparteniamo a una fase storica che è caratterizzata dalla Costituzione repubblicana del 1948. Non esiste una nuova Costituzione e, d’altra parte, non è detto che mutamenti nella Costituzione significhino di per sè una fase completamente diversa. Quella che stiamo vivendo è perciò un’esperienza ancora aperta e, a mio avviso, più aperta di quanto si possa intuire.

Prima di tutto ci si deve chiedere perché così tardi gli storici abbiano proposto agli italiani dei lavori di sintesi approfonditi sull’Italia repubblicana. Perché così tardi si è incominciato a offrire delle interpretazioni, seppure su una parte non ancora conclusa della storia dell’Italia repubblicana. Le ragioni sono varie. Prima di tutto, a mio avviso, c’è stata a lungo fra gli storici una mancanza di consapevolezza critica, che è durata fino alla fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, sull’influenza decisiva per la storia dell’Italia repubblicana esercitata da quello che un gruppo di storici, che ha ideato e in gran parte scritto la "Storia dell’Italia repubblicana" pubblicata da Einaudi, ha definito come il rapporto tra nazionale e internazionale. C’è stata una mancata consapevolezza critica del fatto che la storia dell’Italia repubblicana, almeno fino a pochi anni fa, è stata potentemente influenzata da questo rapporto: ciò significa considerare il peso della guerra fredda in Italia, la divisione del mondo in due blocchi, la sovranità limitata di cui ha potuto godere l’Italia, un paese che è stato un avamposto di frontiera del blocco filo americano, cioè di una delle due parti. Nello stesso tempo l’Italia è stata la sede del Partito comunista più forte dell’Europa occidentale. In questa compresenza di tali fattori c’è una delle ragioni della difficoltà di interpretazione e di mancata consapevolezza critica.

Un secondo elemento è l’accumularsi di una quantità imponente di misteri e di zone oscure (la mafia, le società segrete, la P2, le stragi, i terrorismi, il cosiddetto "governo invisibile", come l’ha definito Norberto Bobbio, che è sempre stato attento a quello visibile).

Poi ci sono stati motivi che sono interni alla stessa disciplina "storia contemporanea", che hanno influito su questo ritardo: innanzi tutto, metterei l’arretratezza della nostra Università, che fino alla metà degli anni Settanta ha ospitato esclusivamente cattedre di Storia del Risorgimento, un Risorgimento infinito, che durava praticamente dagli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento, fino alla seconda guerra mondiale. Non a caso, quando uscì una delle prime opere collettive sulla Resistenza, fu intitolata appunto "Il secondo Risorgimento". Non si riusciva a uscire dall’ottica di un Risorgimento che si espandeva sempre di più: l’età contemporanea non esisteva. Il primo concorso di storia contemporanea è del 1972 e assegna soltanto tre posti; bisogna aspettare quattro anni perché comincino a espandersi in Italia gli insegnamenti di storia contemporanea.

Un altro elemento credo che sia stato la scarsa apertura dei contemporaneisti italiani alla storia economica e sociale. Non è un caso che le prime opere dedicate all’Italia repubblicana, quelle di Norman Kogan e di Giuseppe Mammarella uscite tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, non furono altro che cronache ragionate della vita politica e parlamentare italiana: entrambe non uscivano, come avrebbe detto Pasolini, dal Palazzo, e raccontavano che cosa si faceva all’interno dei partiti e del Parlamento. Intendiamoci, i partiti erano molto importanti in quegli anni; però il fatto di non mettere il naso fuori, di usare esclusivamente le fonti ufficiali, di non parlare della vita sociale italiana, contribuisce a dare vita a un’immagine deformata. Entrambi gli autori, nettamente anticomunisti, davano del Pci un’immagine che corrispondeva alla vita dei gruppi dirigenti e non a quello che il Pci era a livello di società: non consideravano le cooperative, le associazioni, i modelli di vita, di cultura e di famiglia che erano propri della sinistra comunista in Italia. Quindi l’immagine che davano era deformata e, lo stesso avveniva per il maggior partito di governo : la Dc. Si parlava solo dei capi democristiani, del rapporto tra i gruppi dirigenti e la Chiesa, che certo era molto importante, ma non esauriva la capacità di consenso che la Dc aveva attraverso un’organizzazione capillare, in parte ecclesiastica, in parte laica, nella società italiana.

Negli anni Settanta, si trovano inoltre delle sintesi interessanti sulla storia repubblicana in volumi che si ponevano però il problema di ricostruire l’intera storia dell’Italia unita. In particolare, si tratta della Storia dell’Italia unita di Denis MacSmith, pubblicata da Laterza, di cui proprio in questi giorni è uscita l’edizione che porta il racconto fino al 1997, e della Storia dell’Italia dall’unità a oggi di Giampiero Carocci, pubblicata da Feltrinelli. In entrambe c’erano delle pagine interessanti, nel senso che proponevano un’interpretazione: la prima era un’interpretazione che chiamerei democratico - radicale, la seconda la definirei comunista - riformista. Per esempio, nell’opera di Carocci, che ebbe un grande successo a metà degli anni Settanta, è molto significativo il confronto che l’autore fa tra Giolitti e Moro. Carocci sostiene che Moro è una sorta di Giolitti nuovo, un Giolitti che media tra le forze politiche, cercando di aprire alla sinistra, ma mantenendo il potere del centro. In altri termini: riforme sì, ma molto trasformismo. Con MacSmith e Carocci siamo poi di fronte a due studiosi che sono specialisti dell’Ottocento e del fascismo e che quindi non vedono una serie di problemi, soprattutto economici e sociali, che sono nati o che hanno avuto una particolare accelerazione dopo il 1945. Questo è un loro difetto.

Fino alla metà degli anni Ottanta, ci si trova di fronte a studi parziali, che illuminano aspetti significativi della storia dell’Italia repubblicana, che diventeranno in qualche caso dei classici, ma che non superano la prima parte del periodo considerato. Vorrei citare inoltre, tra i tanti, la Storia del dopoguerra dalla Liberazione al potere Dc di Antonio Gambino, che analizza in maniera molto significativa e ben documentata il triennio che segue la Liberazione, dal ‘45 al ‘48; è questo il periodo che detta le coordinate dell’affermazione della Dc come partito centrale di governo, fatto che resterà significativo fino alla metà degli anni Settanta, quando si apre la grande crisi politica dell’Italia repubblicana.

Solo a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta si hanno delle sintesi della storia dell’Italia repubblicana che prendono atto sia di quel rapporto nazionale/internazionale di cui si diceva, sia della necessità di innovare rispetto alla storiografia precedente e di porre come perno del discorso la lunga esperienza della "democrazia dei partiti", come dirà Pietro Scoppola, che ha costituito il centro dell’Italia repubblicana.

Prima di parlare di queste opere, è utile accennare alla periodizzazione che mano a mano si è affermata tra gli storici: mentre nelle opere scritte negli anni Sessanta e Settanta, la periodizzazione era molto incerta e a volte indicava con la fine degli anni Settanta il termine dell’esperienza repubblicana, con la storiografia successiva si hanno delle periodizzazioni che diventano sempre più simili, pur nella differenza delle interpretazioni. Oggi, la maggior parte degli storici concorda su un primo periodo che si può definire di ricostruzione e di costruzione della democrazia repubblicana, che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Cinquanta (è il periodo in cui si delinea la realizzazione di buona parte del dettato della Costituzione repubblicana, che per i primi anni, come dicono i giuristi, era stata congelata, non attuata: è del 1956 l’inizio di attività della Corte Costituzionale, mentre è del 1958 l’inizio dell’attività del Csm. Dal punto di vista economico e produttivo si pongono le basi del futuro "boom" economico e si ricostruisce sulle rovine della seconda guerra mondiale); il secondo periodo si può definire come gli anni del miracolo economico (1958-1964) e del centrosinistra (dalla fine degli anni Cinquanta al Sessantotto); un terzo periodo è quello della contestazione (ribellione studentesca e lotte sociali) e del compromesso storico (la strategia d’incontro con la Dc, lanciata da Berlinguer dopo il colpo di stato della Cia e delle destre in Cile, che si realizzerà poi con i governi di unità nazionale alla metà degli anni Settanta); un quarto periodo, è detto della crisi della Repubblica (si apre con il fallimento del compromesso storico, prosegue con i governi di pentapartito e arriva fino al vero crollo del sistema dei partiti nei primi anni Novanta); un quinto periodo non lo possiamo ancora definire perché è in corso, e lo si può dire della transizione, ma non sappiamo verso che cosa e quanto durerà.

Questa periodizzazione emerge dalle opere più significative pubblicate a partire dalla fine degli anni Ottanta, fino a tutti gli anni Novanta.

La prima che va segnalata è senza dubbio la Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi dell’inglese Paul Ginsborg, pubblicata nel 1988 da Einaudi. Ginsborg, che ha scelto di vivere e insegnare in Italia, ha studiato a fondo anche la Venezia di Daniele Manin e la lotta italiana per l’unificazione nazionale della metà dell’Ottocento. Il libro di Ginsborg precede di pochi mesi il crollo del muro di Berlino e forse anche per questo ottiene in Italia grande successo.

Se si va ad analizzare le ragioni del successo della sintesi di Ginsborg (un volume di circa 800 pagine), si nota prima di tutto una scrittura limpida e piacevole, anglosassone (gli storici italiani scrivono troppo spesso per gli altri storici e non per i lettori). La seconda ragione è un’attenzione inconsueta, per la contemporaneistica italiana, per la storia della società e delle masse popolari; un’altra ragione è l’interpretazione non ideologica che Ginsborg dà del ruolo decisivo svolto dai partiti storici della sinistra, e dal Pci in particolare, nell’affermazione della democrazia italiana, pur senza omettere gli aspetti positivi dei governi centristi e di centrosinistra negli anni Cinquanta e Sessanta. Il libro di Ginsborg ha questo equilibrio storiografico, a mio avviso molto apprezzabile: da un lato, non dà dei partiti della sinistra e in particolare del Pci quell’immagine ideologica che avevano dato Kogan e Mammarella, e intuisce come questi partiti fossero espressione della società civile e fossero radicati nelle masse popolari; dall’altro, mette in evidenza gli aspetti positivi dell’opera di governo della Dc e dei partiti laici minori. Per Ginsborg, negli anni Cinquanta c’è stata sì discriminazione politica nelle fabbriche e nello Stato contro i militanti della sinistra, ma si dà atto dei meriti dei partiti di governo per aver guidato il paese nella preparazione del miracolo economico.

Ginsborg fa scoprire ai lettori, secondo una prospettiva non trionfalistica, ma di sicuro ottimistica e legata a una difesa netta del paradigma antifascista, le grandi trasformazioni che hanno condotto l’Italia a diventare, dopo gli anni Sessanta, una grande potenza industriale, senza mancare di mettere in evidenza contraddizioni e problemi irrisolti dell’Italia degli anni Settanta e Ottanta. L’autore insiste a ragione sul ruolo centrale che hanno avuto istituzioni come quella familiare e come i sindacati dei lavoratori; ricostruisce episodi e vicende del tutto assenti nelle precedenti sintesi storiche.

Le nuove generazioni, come ho potuto osservare adottandolo nei miei corsi universitari, trovano nella narrazione punti di riferimento che mancavano sugli anni Cinquanta, con le loro ombre e le loro luci, sul miracolo economico, sul divario tra nord e sud, sul grandissimo fenomeno (trascurato in precedenza dagli storici) delle migrazioni interne, sulle riforme promesse e poi non realizzate negli anni Sessanta, su quelle riforme decise a livello legislativo, ma poi boicottate dalla burocrazia e da quei blocchi di potere conservatori e reazionari presenti nella società italiana.

Tra le critiche che possiamo muovere al libro di Ginsborg (non c’è studio, per quanto riuscito, che non faccia poi nascere delle critiche, com’è ovvio), c’è da una parte un’attenzione non sempre costante alla politica (ci sono delle parti del libro in cui si perde un po’ la trama della vita politica), e dall’altra il fatto che la storia proceda serrata fino agli anni Settanta, ma poi diventi più vaga e perda un certo mordente quando tratta dell’ultimo decennio, a proposito dei pur importanti anni Ottanta.

Questa è comunque la prima opera che pone sul terreno dell’approfondimento e dello sforzo interpretativo la storia dell’Italia repubblicana.

Due anni dopo, nel 1990, quando il muro di Berlino è crollato e l’Urss sta per cedere il passo alla disgregazione, uno tra i migliori storici del filone storico - democratico, Pietro Scoppola, pubblica il frutto delle sue lezioni universitarie con il titolo La Repubblica dei partiti, presso Il Mulino. Il sottotitolo dell’opera di Scoppola ne chiarisce il centro e gli obiettivi: "Profilo storico della democrazia in Italia. 1945 - 1990". L’autore non si propone, a differenza di Ginsborg, di narrare criticamente l’ultimo cinquantennio, bensì di offrire un saggio interpretativo sulla parabola della democrazia dei partiti, che è stata al centro dell’Italia repubblicana. Non si parla ancora di prima e di seconda Repubblica, come si inizierà a fare a partire dal 1992, ma leggendo le pagine chiare e in un certo senso didascaliche di Coppola, si ha la netta sensazione di come, agli inizi degli anni Novanta, stia per avere inizio la disgregazione di quel sistema dei partiti che ha retto l’Italia nei quasi cinque decenni successivi alla Liberazione.

Scoppola assume come propria la distinzione fra i tre grandi partiti popolari che hanno costruito la democrazia in Italia, la Dc, il Pci e il Psi, e le altre forze politiche minoritarie d’élite o anti-sistema, come il Movimento sociale e i monarchici a destra, o i gruppi extraparlamentari a sinistra. Egli giustifica senza esitazioni l’esclusione dal governo del Pci, legato all’Urss, fino al compromesso storico tra Moro e Berlinguer, esalta il ruolo del centrismo degasperiano e anche la graduale apertura a sinistra promossa prima da parte di Fanfani e poi da Moro e Zaccagnini; sono notevoli le pagine che Scoppola dedica alla forte eredità del fascismo nell’Italia repubblicana, essendo il primo a sottolineare questo punto, che altri storici in precedenza non avevano messo in luce: molte delle contraddizioni nell’opera di riforma, sia dei centristi, sia del centrosinistra, sono dovute al peso della dittatura e del fascismo.

Anche notevoli sono le pagine sull’edificazione e sull’attuazione conflittuale della Costituzione, sulle contraddizioni dello sviluppo capitalistico negli anni Settanta e Ottanta. Egli nota, per esempio, che la Dc ha guidato lo sviluppo economico pur non avendo una propria teoria economica e che a tal fine ha utilizzato gli economisti liberali e liberisti; questo spiega il fatto che poi, negli anni Settanta, la Chiesa cattolica, prima così legata alla Dc, critichi a fondo il modello economico costruito nei decenni precedenti. Non si tratta infatti di un modello né cattolico, né solidaristico, bensì liberale e liberista. C’è una ragione che spiega questo fatto: gli economisti cattolici solidaristi erano stati tutti fascisti, a cominciare da Fanfani e De Maria, per cui erano impresentabili nell’immediato dopoguerra. La Dc è stata così obbligata ad appoggiarsi agli economisti liberali antifascisti o per lo meno non fascisti.

Scoppola dedica delle pagine molto interessanti sul particolare welfare creato in Italia dai governi centristi e di centrosinistra. E, infine, critica a ragione la politica del pentapartito repubblicano e socialista negli anni Ottanta.

Naturalmente non ci troviamo di fronte a una vera storia dell’Italia repubblicana, come si era visto con il libro di Paul Ginsborg, ma di fronte a un libro utile a comprendere gli aspetti politico - culturali della vicenda italiana, e a un punto di vista importante per il filone di pensiero che rappresenta, il cattolicesimo democratico nell’Italia contemporanea.

L’anno ancora successivo, nel 1991, la storiografia italiana registra l’uscita di un’opera che si colloca accanto a quella di Paul Ginsborg, tra quelle che possiamo ora definire fondamentali sull’ultimo cinquantennio. E’ la Storia dell’Italia repubblicana scritta da Silvio Lanaro e pubblicata da Marsilio. Lanaro è uno storico attento alla storia sociale e culturale, ma anche a quella politica e religiosa, è uno storico veneto che ha studiato l’influenza della Chiesa cattolica nella sua regione, che è stata a lungo la regione bianca per eccellenza.

Anche l’opera di Lanaro ha un successo notevole, sia nelle librerie, sia nelle Università; come Ginsborg coniuga narrazione e giudizio critico e come lo storico inglese dà grande spazio alla grande trasformazione sociale, economica e culturale degli anni Cinquanta, proponendo un giudizio molto più duro sul Sessantotto e sulle lotte sociali degli anni Settanta, e difendendo al contrario il decennio socialista degli anni Ottanta, il che, francamente, sul piano storiografico, è più discutibile. Quando ci si è allontanati dal decennio craxiano si sono infatti visti meglio quegli aspetti negativi che, quando Lanaro ha scritto, erano forse meno evidenti.

Le conclusioni di Lanaro si racchiudono nell’interrogativo finale: è possibile che l’Italia, che ha pagato sempre prezzi assai alti per diventare un paese normale, possa diventarlo ora che è una potenza ricca e industriale, senza più la guerra fredda?

Lanaro si segnala per una scrittura brillante, anche se qualche volta complessa, per l’acume di molte intuizioni e osservazioni, per l’attenzione alla società italiana vista nel quotidiano, nel sociale, nella vita economica. Queste sono tutte qualità dell’opera che la rendono, come quella di Ginsborg, uno dei testi fondamentali sull’Italia repubblicana.

Nel 1993, è uno storico che è stato a lungo comunista come Aurelio Lepre a scrivere per Il Mulino la Prima storia della prima repubblica, che successivamente con la seconda edizione arriva fino al 1994; Lepre sceglie una strada diversa da Ginsborg e da Lanaro, quella di una sintesi che procede per grandi nodi e in verità con qualche schematismo, cercando di tracciare, con notevoli capacità narrative, le vicende essenziali del cinquantennio. Leggendo il libro di Lepre si è colpiti dal fatto che ormai le periodizzazioni diventano nette e accettate dagli storici: il 1992 diventa l’anno della caduta del sistema politico repubblicano e l’inizio di una lunga transizione tuttora in corso. Lepre è attento a proporre un racconto preciso degli avvenimenti politici e istituzionali, oltre che di quelli economici, e dipana una serie di problemi interpretativi che ritornano soprattutto nell’ultimo ventennio; su questo ventennio non utilizza però una ricca letteratura che è disponibile e questo si può considerare un difetto dell’opera.

Dal punto di vista interpretativo il lavoro si riallaccia per certi versi alla Storia critica della repubblica, che un altro storico comunista, Enzo Santarelli, pubblicherà un anno dopo presso Feltrinelli e che passerà pressoché inosservata a livello critico. L’opera di Santarelli e quella di Lepre sono ambedue delle storie politiche di buon livello, caratterizzate dalla consapevolezza del tramonto repubblicano e dalla necessità di rivedere alcuni giudizi da lungo tempo depositati soprattutto a sinistra.

Arriviamo al 1994, l’anno in cui per la prima volta una coalizione di centrodestra, che comprende solo una parte dei cattolici, ottiene il potere soprattutto per gli errori della sinistra. In quell’anno comincia a uscire un’opera collettiva che vale la pena di discutere: è il primo volume della Storia dell’Italia repubblicana pubblicata da Einaudi, che si conclude tre anni dopo, nel 1997, e che è composta di tre volumi divisi in cinque tomi. In questo caso ci troviamo di fronte a un’opera scritta da un gruppo di autori e da un comitato scientifico composto da cinque storici, che pubblica in tre anni circa cinquemila pagine. Il comitato scientifico si riunisce alla Fondazione Gramsci e alla rivista "Studi storici" e comprende, oltre al sottoscritto, Franco Barbagallo, lo scomparso Franco De Felice, Luisa Mangoni, Giuseppe Barone, Giorgio Mori, Mario Girossi e Giovanni Bruno. L’impronta è quella di una storiografia che potremmo definire democratico - gramsciana, con la caratteristica di puntare molto sul già citato nesso nazionale/internazionale, sulle caratteristiche della divisione in due (nord-sud) del paese, sul problema del rapporto comunismo/anticomunismo e fascismo/antifascismo.

L’impostazione si distacca dalle precedenti opere e tende a un affresco variegato sull’ultimo cinquantennio, dedicando saggi approfonditi ai problemi della politica, dell’economia, della cultura e delle istituzioni. Naturalmente, come tutte le opere collettive, non è espressione di un’interpretazione strettamente unitaria, anche se gli autori si riconoscono nel filone che ho citato all’inizio. Nel complesso fornisce una grande miniera di dati e di interpretazioni molto aggiornate sull’Italia dal 1943 a oggi.

Vorrei, per concludere, sottolineare da una parte i problemi aperti che la storiografia successiva avrà davanti e dall’altra alcune peculiarità del cammino che abbiamo già percorso. Tra i problemi aperti, il principale resta quello delle istituzioni politiche e dell’economia, ma anche in questo campo ci sono ancora molti aspetti da chiarire e da appronfondire, perché ci sono archivi importanti chiusi o dispersi (penso ai servizi segreti, alla chiesa, agli archivi americani e sovietici, a quelli dei partiti; per esempio, io ho fatto parte di una commissione nazionale che ha trattato il problema del passaggio dell’archivio privato di Aldo Moro all’archivio di Stato, per cui ho visto l’indice di questo archivio e posso dire che è molto importante sulla storia politica italiana. Vi è però una clausola in base alla quale l’archivio sarà consultabile solo fra ottanta anni).

C’è ancora molto da fare per costruire biografie significative di politici, sindacalisti, uomini e donne di cultura; c’è da compiere un’integrazione che ancora manca tra i risultati della storia locale e di quella nazionale: il nostro è un paese che non si può raccontare da Roma soltanto, ma bisogna raccontarlo nella sua complessa realtà. Ci vorrebbero gruppi di ricercatori che utilizzassero le ricerche locali per dare un’immagine complessiva della storia nazionale nel periodo repubblicano.

Inoltre, su settori importanti della nostra società (penso alle associazioni, alla scuola, alla Chiesa, all’esercito, alla polizia), non si segnalano ancora lavori scientifici, ma soltanto una pubblicistica anche ampia, ma non di rado superficiale.

Credo di poter concludere affermando che molto lavoro è stato fatto, ma molto resta ancora da fare e io mi auguro che lo facciano le nuove generazioni che vorranno dedicarsi alla ricerca storica sull’Italia contemporanea.

 

(Intervento del 18 novembre 1997 per il corso di aggiornamento "Storia dell’Italia repubblicana: dalla ricostruzione al boom economico", organizzato dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Asti)

 

 

   

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