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Gianni Brera

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Nato l'8 settembre del 1919 a San Zenone Po, in provincia di Pavia, da Carlo e da Marietta Ghisoni. Antifascista, collaborò attivamente alla Resistenza. E' stato il più famoso giornalista sportivo italiano. Ha lavorato per testate quali "Il Guerin Sportivo", "Il Giorno", "Il Giornale", "la Repubblica". Scrittore truccato da cronista, utilizzó la giovanile frequentazione della letteratura quale tecnica per affrettare i tempi del giornalismo. Inventó così un linguaggio nuovo, colorato ed espressivo. Possedeva il gusto del ritratto proprio al narratore e la fantasia ludica del poeta. Fu un infaticabile inventore di neologismi. Scrisse molti libri, sullo sport e sulla sua terra. Amava la caccia, il buon vino e la gastronomia doc. E' morto, in un incidente stradale, il 19 dicembre 1992 a Codogno, nella sua Padania: aveva 73 anni.

 

Un giornalista in guerra

a cura di Paolo Brera   

Nel 1940 il ventenne Gianni Brera - anzi, Giovanni Brera di Carlo e Marietta Ghisoni, come si diceva allora - frequenta Scienze politiche a Pavia. Brera, che è povero e si dichiara apertamente di sinistra, si paga l'università e studia con serietà. Ma scoppia la guerra, e lo studente che aveva fatto sport e giornalismo anche per non diventare avanguardista [chi gioca a calcio, la domenica è assente giustificato dalle cerimonie fasciste] è costretto a trasformarsi in ufficiale e poi in paracadutista. Anche da parà Brera non scorda la sua vocazione di giornalista.
Scrive, dapprincipio, per alcuni giornali di provincia: è facile trovare simili collaborazioni, perché intorno al paracadutismo palpita un alone romantico fatto di ardimento e alta tecnologia. Lo sport non è vecchio, e recenti sono anche i folgoranti successi bellici dei parà tedeschi. Con questi articoli Gianni arrotonda il soldo, finché non gli viene affidato l'Ufficio stampa della Scuola di paracadutismo. Insieme a questo incarico, professionalmente molto significativo, vengono collaborazioni giornalistiche mai neppure sognate prima: a ventidue anni, Brera scrive quelli che lui chiama "pezzettacci" di terza pagina su quotidiani come il Popolo d'Italia e il Resto del Carlino, che non sono gli ultimi della lista. Non c'è male, per il figlio di un sarto e barbiere di paese.
Però sono giornali fascisti. E il padre Carlo, già segretario della sezione socialista del suo comune, ai primi exploit del figlio sul Popolo d'Italia si lamenta che avrebbe avuto più caro scrivesse sul Corriere della Sera. Ribatte ironico e amaro Gianni: "Non sapevo che avessimo un cugino monsignore!". La stampa esplicitamente fascista infatti è l'unica che offra qualche spiraglio alla mobilità sociale di coloro che escono dalle classi subalterne. Di queste collaborazioni, che più tardi lo metteranno nei guai, Gioànn Brera coglie molto bene il solo aspetto professionale. "Giuro che non mi accorsi di aver mai scritto su un giornale fascista. Scrivevo su giornali italiani: ecco tutto. Parlavo regolarmente male di Garibaldi e non respingevo a fine mese i piccoli assegni che da Garibaldi mi venivano", scrive alla fine della guerra. Fra il 1942 e il 1943 le operazioni militari vanno maluccio: nel regio esercito si respira aria di fronda, anche e soprattutto nei corpi d'élite come i parà, e Brera c'è dentro fino al collo. In quei due anni nella sua vita avvengono diverse cose: muoiono la madre e il padre, lui si laurea e si sposa. E va nella capitale come redattore capo di Folgore, la rivista dei paracadutisti. A Roma fa, secondo le parole che userà alla fine della guerra in una memoria, "il vero e proprio comunista in bluff. Il teorico, il poveraccio che non era in contatto con nessuno". Parla di Marx all'affittacamere napoletano presso cui è a pensione, nonché agli amici che costui si porta in casa per ascoltare "un dottore". "Smania" [sempre parole sue] con i collaboratori e con i colleghi della redazione. Non è a Roma, Gianni, nei giorni dell'estate 1943 in cui nuove sconfitte preannunciano l'armistizio. Si trova invece a Pavia, dove fa i documenti per sposarsi, e intano prende contatti in ambienti antifascisti. Colloquia con Vico Zampieri, "meraviglioso miscuglio di intelligenza, di corruzione e di abulia: nobile decaduto e aristocratico nelle pretese. uno di quelli che non fanno bagni in pubblico per non dimostrare a tutti che non posseggono sapone a casa". Zampieri gli parla di comunismo. Brera, lui è perplesso. Gli oppositori del regime non hanno certo in tasca una tessera: impossibile controllare le credenziali di chi si presenta come comunista o come esponente di Giustizia e Libertà. Infine però Brera salta il fosso, e accetta di collaborare. Poi di corsa a Milano, a sposarsi, non in chiesa ma solo in Comune. E' l'8 luglio. Due giorni più tardi la notizia dello sbarco degli Alleati in Sicilia raggiunge i due sposi a Venezia, dove hanno deciso di trascorrere la prima parte del loro viaggio di nozze. In capo a qualche giorno, la prima furibonda lite coniugale: la neo-moglie Rina vuole far tappa sul Garda, che non ha mai visto, mentre Gianni preme per tornare in fretta a Milano: ormai, dice, il fascismo deve cadere, e lui avanza ancora qualche soldo dal Popolo d'Italia. Sono le "quattro paghe per il lesso" che ricorrono tanto spesso nelle pagine di Brera. A Milano i due sposi non si fermano: la licenza matrimoniale finisce, bisogna tornare alla redazione. "Agosto a Roma", nota Brera: "un amico del pigionante mi propone di andar a Frascati dove già ha lavorato' un centinaio di compagni: ma hanno bisogno di istruzione. Mi vien da piangere: ho l'impressione di aver venduto fumo, finora: trovassi un vero comunista, tra tutti i chiacchieroni di Roma! Nessuno trovo: ci do dentro a lavorare per il lesso. Quando avrei un indirizzo, datomi da Zampieri: Carlo Borelli, fermo posta, Roma, debbo scappare per l'armistizio". Il viaggio per ferrovia, in terza classe, segna il passaggio e una situazione completamente diversa. L'8 settembre, giorno nel quale Gianni compie ventiquattro anni, i coniugi Brera sono a San Zenone, il paesello natio di entrambi.
Il 9 settembre, fuga verso Pavia: dove Zampieri, interpellato sul da farsi, allarga le braccia. Il 10, fuga da Pavia. A Milano, sul mezzogiorno del 10,in abiti civili, scarpe da lancio e la 6, 35 in tasca, Gianni Brera partecipa con il fratello Franco alla sparatoria della stazione Centrale, uno dei primi atti di resistenza contro i tedeschi. Insieme catturano un soldato della Wehrmacht, e lo consegnano ad altri estemporanei ribelli. Pugni e calci. Ma, racconta Brera, "non volli lo uccidessero". Tali sono i tempi. Segue qualche mese di clandestinità. Brera si nasconde, a Milano presso la suocera, a Valbrona dalla cognata. Di tanto in tanto va a Pavia, a trovare Zampieri, l'unico traballante contatto che abbia con le organizzazioni clandestine. Zamp [così lo schiama Brera, ed è uno dei primi soprannomi che conia] è il più delle volte sbronzo. Gianni freme e scalpita per entrare in contatto con qualcuno del Partito comunista, verso il quale inclinano le sue idee: senz'altro, consente Zamp: "e si beve, e quando si è bevuto bisogna portarlo a casa, Zampieri". Lo smarrimento, in quei giorni, è generale. Molti sentono il bisogno di fare qualcosa, di opporsi all'invasione del Paese e alla rinascita del fascismo, che si era giocato tutto il suo consenso politico in tre anni di guerra senza onore e senza vittorie. Ma le organizzazioni clandestine sono tutt'altro che onnipresenti, i parolai e perfino i criminali sono frammisti ai veri esponenti dell'antifascismo militante. Il minimo errore di valutazione può costarti il carcere, se non la vita. Nello stesso tempo, il gran rimescolamento di carte della Repubblica proclamata da Mussolini crea situazioni nuove. Non è affatto evidente per tutti che le preoccupazioni sociali del fascismo repubblicano siano, in fin dei conti, solo il belletto di un regime il cui unico vero interesse è proseguire la guerra a fianco della Germania; e neppure si può dire evidente l'indegnità morale del nazismo. Gli inglesi non sono meno razzisti dei tedeschi, né si dimostrano meno spietati nei loro raid aerei: dei campi di sterminio non si sa ancora nulla. Le informazioni sgradite al regime circolano in maniera sotterranea, dunque sono spesso distorte, sicché le decisioni che sulla loro scorta si prendono sono, spesso, discutibili. Il 15 febbraio 1944 arriva a San Zenone un'auto carica di fascisti: cercano proprio lui. Portano via il fratello Franco, che promette di rintracciare Gianni a Pavia. Quando batte alla sua porta, e sono le cinque di mattina, la mente di Gianni corre subito al peggio: pensa che Zampieri sia stato arrestato e lo abbia tirato in causa. Non è così. Poco dopo, infatti, Gianni viene a sapere che "Zamp" non è in galera, bensì a letto con una stomatite. Entra dunque nelle Federazione fascista con ben altro animo: viene ricevuto dal federale Musselli, e se ne sente chiedere informazioni su un suo ex collega di Folgore, Bruzzese, il quale deve aver fatto il suo nome per le referenze. Musselli è cordiale. Domanda a Gianni della sua attività, e lui - inghiottendo saliva - dice che campa di collaborazioni e "si prepara letterariamente". Il figlio del sarto è vestito male, molto male, con un abito che era già suo ai tempi del liceo. Il federale gli domanda perché non è con loro. "Sarei senz'altro con voi", replica Gianni, "se oltre al dirizzone sinistro foste anche anticlericali eccetera". Ci vuole del coraggio per pronunciare parole come queste in una federazione del Fascio.
Musselli, che proviene da una famiglia di contadini, gli dice allora che anche lui combatte "i signori", che questo è il momento buono per lottare, che le idee di Gianni sono le sue e che, se Gianni vuole, gli dà da fare il giornale del Fascio pavese, Il popolo repubblicano. L'idea lo entusiasma addirittura, e insiste molto perché lui accetti. Ma Gianni si schernisce. Musselli scuote il capo: "Pensaci bene, e dammi una risposta in giornata". Gianni schizza via, a incontrare Zamp. Lo trova a letto. Ma quando gli racconta ridendo verde quel che è successo, Zampieri si leva dal letto sui gomiti, e con grande stupore di Gianni gli dice: "Accetta!". "Sei pazzo?" "Accetta, Vengo anch'io. Tu capo redattore, io capocronista, e assumiamo tutti i vecchi compagni". "E l'iscrizione al Fascio?". "Noi presentiamo una lista di redazione "afascista": se Musselli accetta, bene, se non accetta, al diavolo! Ma tu devi andare da Musselli con la lista". La lista "afascista" viene compilata, e il federale la approva senza batter ciglio. Come si trova in serpa, Brera sbarazza i fascisti dalla redazione, chiama i vecchi compagni giornalisti, convoca un Filippini a sostituire Zampieri malato, e fa salire da San Zenone il "compagno Mario Brera" [non suo parente], di cui ricorda lettere dalla Russia che, per essere scritte da un contadino, gli sono parse splendide. Come cronista, il contadino Mario si distingue senz'altro: e secondo quanto scriverà poi Gianni, dà "un esempio a tutti gli incerti di San Zenone [che vedessero come i comunisti sapevano allogare la gente!".
"Allogare" significa, in buon italiano e in dialetto lombardo, "mettere a posto": ed è un concetto tremendamente importante in una ambiente contadino. Mario lavora bene anche come oppositore clandestino del regime. A differenza dell'altro Brera rimarrà al Popolo repubblicano, e in più di un'occasione passerà ai partigiani preziose dritte sui rastrellamenti. La permanenza dell'ex parà al giornale fascista diviene tragica di giorno in giorno. Gianni Brera non è uomo da tenere per sé quello che pensa, e questo tratto di carattere non è darwinianamente molto propizio alla sopravvivenza nelle condizioni del 1944. "Un lancio col paracadute", si sfogherà a guerra finita, "non è tanto deleterio, per il morale di un uomo, quanto il passare dalla portineria presidiata dai bravi dei gerarchi pavesi estremisti". Il fascismo aveva sempre perseguitato gli oppositori, ma finché era durata la pace la persecuzione era stata tutto sommato blanda. A differenza del Pnf del periodo monarchico, adagiato sì in un regime da operetta ma comunque dotato del tipo di autorità che Bertrand Russell chiama "potere tradizionale", il Fascio repubblicano è un potere recente, senza una grande legittimazione: deve, inoltre, compiacere i padroni venuti dal Nord. Lotta per la vita o per la morte: di conseguenza, adotta metodi repressivi molto duri. E ad ogni chilometro in avanti compiuto dagli eserciti alleati risponde con un giro in più della vite della repressione. Già dopo il primo numero della nuova gestione, del resto, il Duce, letto il "Processo a Mussolini" del neodirettore, ordinerà a Musselli di sbancare la redazione. Così va a finire che Brera firma il giornale pavese per una sola uscita. Poco dopo anche Musselli viene rimosso. Brera, che resta in termini cordiali con lui, gli propone di metterlo in contatto con un partito antifascista. Musselli lo fa cercare dal suo segretario Ribolzi: sospenda immediatamente ogni approccio con i partiti antifascisti, e stia molto in guardia, perché è vigilato da presso. Non ci vuole proprio nulla d'altro per indurre infine Brera a scappare verso il confine di Chiasso. La Svizzera ha una posizione di neutralità alla quale tiene più che al cioccolato e alla sua Costituzione. Hitler non l'ha invasa, né mai la invaderà, perché l'esercito della Confederazione è armato fino ai denti e perché certe particolarità della sua legislazione bancaria possono tornare utili al regime nazionalsocialista. Ma è un continuo evolvere sul filo del rasoio. In concreto, ciò significa che le autorità di Berna vagliano con molta pignoleria tutte le domande di residenza o di asilo politico, e sorvegliano da vicino i fuoriusciti. Brera varca il confine con le uniche referenze del giornale repubblichino che ha fatto. Non inventa frottole: consegna i giornali, e dice: "Vedete un po' se credete ch'io possa restare in Italia". E' accolto. Cominciano mesi difficili. Mancano i soldi, mancano le prospettive. Gianni spazza i locali di un'osteria per guadagnarsi da vivere, e spera di poter fare qualcosa, ma per intanto nulla può fare. Lo scioglimento di questa situazione da Deserto dei Tartari arriva all'improvviso. L'organizzazione clandestina comunista si mette in contatto con lui in estate. In capo a pochi giorni, Brera parte per l'Ossola, dove si è nel frattempo organizzato un movimento di resistenza armata destinato a passare alla storia. La Resistenza partigiana non fu quel movimento idillico, con il bianco tutto da una parte e dall'altra, si fa per dire, tutto il nero, qual che è stato spesso dipinto nel dopoguerra attingendo a pieni pennelli alla tavolozza del mito. Per anni Gianni Brera ha accarezzato il progetto di scrivere un libro intitolato Nel bosco degli eroi, nel quale descrivere quegli anni così com'erano stati nella realtà. Il titolo è una salace allusione al luogo dove si attuavano le imprese eroiche, più che ad eroi adatto ad altre categorie di persone, dette appunto "imboscati". Perfino un dissacratore per vocazione come Brera, però, esitò sempre di fronte a un'operazione del genere: tanto più che la connessa mostra di cinismo, praticamente obbligatoria per giustificare una simile angolazione narrativa, avrebbe finito per essere unilaterale. Brera non intese mai sottovalutare il significato della Resistenza, che considerava, nonostante il suo programmatico scetticismo, uno dei rari momenti della storia italiana in cui il popolo aveva fatto per davvero la storia, anziché farsi passivamente muovere da essa. Di ciò che Gianni Brera vide della Resistenza restano certe sue narrazioni orali, pochissime righe pubblicate, e una manciata di note manoscritte che forse preparavano il lavoro che non vide mai la luce: è impossibile datarle con esattezza, ma risalgono forse ai tardi anni Quaranta o dei primi Cinquanta. E rimane, ovviamente, il fatto incontrovertibile che Brera in montagna ci andò davvero, e davvero, in più occasioni, rischiò la vita. Diversi repubblichini sono convinti, nel 1943-'44, di salvare l'onore dell'Italia, che dovrebbe finire la guerra dalla stessa parte in cui l'aveva iniziata. Per i partigiani il problema è lo stesso, la soluzione è opposta: si tratta di riscattare il Paese, scaraventato suo malgrado in un conflitto in cui si trova dalla parte sbagliata. Da un lato e dall'altro della displuviale sono presenti anche motivazioni di tutt'altro genere, non idealistiche, che a volte perfino nell'animo dei singoli convivono con quelle più nobili. Ragioni e torti saranno poi dipanati dallo svolgimento successivo degli eventi. Fedeli all'alleato i fascisti lo sono fino al punto da assentire alle spietate rappresaglie della Wehrmacht contro la popolazione civile del loro stesso Paese.
Molti, di fronte a questo, cambieranno bandiera; altri lo faranno solo quando non sarà più possibile dubitare della sconfitta: altri ancora vorranno farlo, ma non ne avranno mai l'opportunità. L'arrivo di Gianni Brera tra i partigiani coincide con l'inizio dell'avventura della Repubblica dell'Ossola, un tentativo [rivelatosi poi effimero] di creare una zona liberata. Nel 1975, con il distacco dato dall'età e dal tempo trascorso, Brera - che è già "Gianni Brera" - darà un giudizio ragionato e non troppo inclemente sull'esperienza: "Lavorando ad allestire il nuovo reparto", scrive, "non ho potuto seguire molto da vicino le vicende politiche della Repubblica dell'Ossola. Gente di fede e buona volontà vi lavorava a scoprire la democrazia ed esercitarla secondo giustizia. Il solo errore di cui sono al corrente riguarda l'atteggiamento militare. La piccola repubblica ambiva a trasformare la guerra partigiana, fino a quel momento assai positiva, in vera e propria guerra fra eserciti. Era un'illusione rivelatasi ben presto assai pericolosa. Non pochi reparti consistevano sulla carta. Di altre divisioni sentivo i garibaldini parlare con disprezzo". L'offensiva delle truppe tedesche e fasciste si conclude, nell'arco di un paio di settimane, con la rotta delle forze partigiane. Brera sfugge agli inseguitori in modo romanzesco.
Insieme all'intendente di brigata "Moretto" [Enrico Rovelli], al commissario politico "Tanzi" [Goliardo Tilferi], a "Ivan" [Aristide Landini] e al resto del Comando della X Brigata, si trova sul Colmine verso Mozzio. I fascisti li bombardano da Varzo con i mortai, ma non riescono a impedire che i magazzini siano trasportati in luogo sicuro. Brera e gli altri si disimpegnano quindi verso il Sistella, all'Alpe Sencio, dove già sta nevicando fitto. Riescono a non espatriare, e non perdono quindi le armi. In tutta la zona ripresa dai fascisti i partigiani sono respinti verso il sommo dei monti, dove, peraltro, non è possibile starli troppo a inseguire. Certo, ad angariarli provvede il generale inverno, e quasi 4000 saranno costretti a fuggire il freddo e la fame sconfinando in Svizzera, dove vengono disarmati e, spesso, internati in campi di concentramento. In territorio italiano, la riorganizzazione è lunga e penosa.
Brera, nel frattempo, ha magistralmente eseguito un felice ripiegamento tattico - quello che nel gergo dei partigiani, come ricorda lui in un suo taccuino, si chiama "fugone". La fine del 1944 lo rivede a Milano, a disposizione delle strutture clandestine della Resistenza ma, per le difficoltà del momento, praticamente fuori contatto. A Milano Gianni dovrebbe avere un figlio di 45 giorni. Vi trova, invece, solo una culla vuota: il primogenito Franco è morto improvvisamente di polmonite qualche giorno prima, senza che il padre l'abbia nemmeno visto. Come nel 43, bisogna dividere il cucinino della suocera, e per di più nascondersi, perché i tempi sono ancora più duri.
Nel frattempo, diverse cose sono successe che lo riguardano. A sua insaputa, il vecchio compagno di università e di paracadutismo Sandro Chiodi [nome di battaglia: "Mario Mariani"], divenuto tenente delle brigate Garibaldi, ha scritto al comandante di Brera, Aldo Aniasi detto "Iso", una lettera datata 1 dicembre 1944, il cui contenuto è molto inquietante. Scrive Chiodi: Caro Iso, Un compagno di Omegna mi informa che presso la tua formazione si trova un ex-giornalista di nome Gianni noto sotto lo pseudonimo di Gian del Po, già giornalista presso la redazione del Guerin Meschino, della Gazzetta dello Sport, del Popolo d'Italia e del famigerato Popolo Repubblicano di Pavia del quale fu direttore per qualche mese e sul quale scrisse ogni infamia contro di noi. A Pavia conservo i numeri più significativi. E' stato anche uno degli elementi che mi hanno, con la delazione, portato in carcere ove rimasi 3 mesi. Era stato mio compagno di università e di studi nonché di naia.
Quando ho saputo che ora milita fra le tue file ho sentito un tonfo [sic] al cuore. Quello è veramente un mago del doppio giuoco o - quanto mai - la più sudicia delle banderuole.
Desidero interrogarlo perché deve rispondere di tutte le volgarità che ha scritto sul sangue martire dei nostri caduti.
Ti prego di non dirgli nulla di quanto ti scrivo e di non dirgli di me. Invialo qui accompagnato senza che nulla sospetti. Lo sottoporremo a giudizio davanti al comando unico.
Se anche qualcuno lo vorrà salvare dal nostro giusto piombo, dovrà lasciare la formazione, diffidato di passare a qualsiasi altro gruppo. Ti dico questo perché si tenga subito conto, ante-fine guerra, di quella epurazione che sarà la base per un ristabilimento morale e politico della nostra terra.
Ti abbraccio, tuo Mariani.
Aldo Aniasi, il futuro sindaco di Milano risponde tre giorni dopo con una lettera che mostra di prendere in seria considerazione le accuse.
II Divisione d'Assalto Garibaldi Comando Prot. n. 178 Sede Il 4 dicembre 1944 AL TENENTE MARIANI OGGETTO: Gianni Del Palus Carissimo Mariani, Quel Gianni di cui mi parli era effettivamente un nostro partigiano effettivo alla X Brigata.
Lo vidi per l'ultima volta il 10 ottobre scorso a Varzo. Mie impressioni di allora erano che fosse un ragazzo intelligente ma molto ambizioso; certamente molto corrotto moralmente dalla propaganda fascista.
I precedenti di cui ero a conoscenza erano i seguenti: Direttore del giornale "Popolo repubblicano di Pavia" sino al giugno del 1944. Rifugiatosi in Svizzera e rientrato nell'Ossola a metà di settembre. Egli si mostrava veramente pentito della sua attività precedente e pronto ad espiare le sue colpe. Il tenente Trevisani di cui non conosco il suo [sic] vero nome [comandante di un nostro battaglione] mi diceva di conoscere personalmente essendo un suo compaesano. Egli lo considerava solamente un illuso. Da quanto tu mi dici mi sembra invece sia un criminale.
Con lettera odierna comunico al comando della X Brigata di stanza nella Valle Antigorio e di Vedro il suo trasferimento all'Ufficio Stampa e Propaganda della Divisione adducendo come motivo le sue qualità giornalistiche.
In questo modo egli non si accorgerà certamente di niente.
Appena arriverà lo farò trarre in arresto e te lo comunicherò senz'altro onde poter istruire un processo a suo carico. Ti includeremo quale membro del Collegio giudicante. [...] Gradisci i miei più cordiali saluti Garibaldini ed un abbraccio. Iso.
Passano altri cinque giorni e "Mario Mariani" scrive ancora, come comandante della Brigata "Quarna", ad "Iso", affrontando diverse questioni collegate alla difficile situazione sul campo [la data è il 9 dicembre]. Un post-scriptum autografo recita così: Caro Iso, colgo l'occasione per salutarti. Risolta la questione Nonio - Arola. Comunicami quanto seguirà alla tua disposizione circa il Gianni del Po. Ti prego di non fargli sapere nulla di me fino a quando io lo vedrò. Il Trevisani deve essere l'ex tenente dei paracadutisti Commissioni di Pavia. E' ottimo elemento che è sempre stato, a differenza del Gianni, coerente. A presto e saluti cari a Verdi. Ti abbraccio, Mariani Aniasi però non dà più credito alle accuse: e non solo perché ha parlato a favore di Brera il rispettatissimo capo partigiano Giulio Seniga ["Nino"]. Il fatto è che la situazione generale è profondamente cambiata. La portata della sconfitta subita dai partigiani è ormai chiara. Simili circostanze mettono a nudo la tempra degli uomini, in tutti i sensi. Il comportamento di Brera durante l'attacco fascista, comportamento del quale grazie al ripristino delle comunicazioni adesso "Iso" è pienamente informato, non è stato certamente quello di un doppiogiochista.
Così Aniasi rispedisce l'accusato a Milano e, per liberarsi delle insistenze di "Mariani", gli manda una lettera datata 18 dicembre 1944, prot. n. 378, con il seguente contenuto [in parte menzognero]: OGGETTO: Gianni Del Palus.
Caro Mariani, Il Comando della X Brigata mi ha comunicato che il famigerato Gianni è sconfinato in territorio elvetico in seguito alle ultime operazioni di rastrellamento in quella zona.
Pure Trevisani [Commissioni] è sconfinato.
sono in corso pratiche per ottenere il rimpatrio dei migliori elementi. Potremo richiedere il rientro anche di Gianni in modo tale da poterlo giudicare prima della fine della guerra.
Gradisci i migliori saluti ed auguri. Iso.
Perché Chiodi se la prende tanto con Gianni Brera?
La loro conoscenza non era recentissima: entrambi avevano frequentato l'università a Pavia, per poi ritrovarsi sotto le armi e, più tardi, alla Federazione fascista di Pavia: qui Chiosi era segretario del federale nel periodo in cui Brera dirigeva il Popolo Repubblicano. Il loro rapporto era sempre stato conflittuale, a volte con risvolti boccacceschi: una ragazza passata dalle braccia di Chiodi a quelle di Gianni, un'altra da Chiodi stesso destituita dal ruolo di fidanzata ufficiale dopo l'avvertimento, da parte di Gianni e di altri commilitoni, che la medesima aveva passato qualche tempo in una casa di corrigende per prostituzione giovanile.
L'episodio di Pavia cui si riferisce Chiodi nella lettera può essere chiarito: effettivamente Brera, in un articolo sul giornale fascista scritto durante la detenzione del futuro esponente partigiano, l'aveva definito "uno sbandato" e l'aveva anche messo un po' in ridicolo: ma è abbastanza ovvio che per un prigioniero l'essere ritenuto un po' ridicolo era ben più sicuro che essere ritenuto, invece, molto capace e dunque pericoloso.
In tempo di pace, sgarbi del genere di questi causano più risate che lacrime. In tempo di guerra, come si vede, potevano portare dritto davanti a un tribunale rivoluzionario e magari alla fucilazione.
Nell'Ossola e altrove i partigiani emisero ed eseguirono diverse condanne a morte: nella più parte dei casi, contro persone che si erano macchiate di comportamenti criminali: una, in particolare, ai danni di un partigiano colpevole di aver rubato a un civile la tessera del tabacco. Un'infrazione che diremmo lieve, noi che viviamo da cinquant'anni in tempo di pace; ma che nelle condizioni date indeboliva il vitale rapporto delle unità della Resistenza con la popolazione civile, e dava esca alla propaganda fascista sulle "attività criminali" dei partigiani.
Tanto possono influire le circostanze sulla valutazione dei fatti.
In ogni caso, Chiodi non insisterà con le accuse. Nel dopoguerra non si farà più vivo con Brera, che all'apprendere da "Iso" del suo comportamento passato gli ha scritto [senza poi spedirla mai] una lunga lettera di sfogo. Undici cartelle, datate Omegna 26 giugno 1945, redatte di furia tra le 23.30 e le 3.30 del giorno successivo, in uno stile che non è davvero quello del Gianni Brera che conosciamo, neppure nella versione acerbissima dei suoi vent'anni. Sono righe che traducono una forte emozione e anche, con una certa verisimiglianza, qualche bicchiere serotino. E sono preziose per due constatazioni. "Non odio nessuno", scrive Brera mentre esprime il suo profondo dispiacere per quanto è venuto a sapere: ed è vero. E nella chiosa osserva: "L'epoca dei volontariati è finitissima. Incomincia l'era dei discorsi". Chiodi, da rivoluzionario tornato avvocato, si fa democristiano e scompare dalla vista, lasciando in eredità a Brera una lezione di vita.
La sconfitta nell'Ossola non era definitiva. Coloro che si sono rifugiati in Svizzera, sfuggendo come possono all'occhiuta e non simpatetica sorveglianza delle autorità elvetiche, rientrano in Italia e spesso riprendono il loro posto nella lotta.
Altri se ne aggiungono.
Brera è a Milano, e solo all'inizio di marzo del 1945 rientra in contatto con l'organizzazione clandestina ed è finalmente assegnato, in qualità di aiutante maggiore, alla 83ma Brigata "Comoli". Riprende la macchina da scrivere sulle ginocchia e dà corpo, dice lui, "a nuovi cumuli di scartoffie". Ma trova anche il tempo di tradurre tre commedie di Molière, e di scrivere un'introduzione che verrà pubblicata, insieme alle traduzioni, nel 1947. Le sue ambizioni letterarie non si arrestano qui.
"Scriverò un libro", si augura nel già citato rendiconto dell'estate 1945, "sugli aiutanti maggiori delle Brigate Garibaldine, dove il commissario aveva preoccupazioni politiche e il comandante sapeva far la propria firma solo con la rincorsa.
Scriverò un libro, spero, sui molti fugoni con la macchina da scrivere in una mano e nell'altra il mitra".
In aprile l'attività partigiana riprende alla grande. Per noi che sappiamo come andarono a finire le cose, l'aprile del 1945 appare come l'antivigilia della Liberazione. Ma per chi allora stava in montagna la vista sul futuro non poteva assolutamente essere così limpida. In quello scorcio di guerra Mussolini parla di "armi segrete": nessuno ci crede... però, non si può mai sapere! [Le armi c'erano davvero, ma non arrivarono in tempo, come si è appreso dopo]. E quanto a lungo riusciranno a resistere, tedeschi e fascisti, all'avanzata delle forze alleate? Nessuno può saperlo. Sicché la conclusione della guerra seguita ad apparire remota. E fra chi pure la presagisce vicina, nessuno certo si augura la fine del protagonista di Remarque in All'Ovest nulla di nuovo, ucciso in una giornata tranquilla, una delle ultime della Grande guerra. La paura, fra i combattenti della Resistenza, aumenta. Ma attaccare bisogna, se si vuole riabilitare l'Italia.
E i partigiani attaccano. E' ancora Brera a raccontare: "Al primo dimoiare delle nevi più basse, i resti del mio reparto venivano assegnati alla 83ma Comoli; altre nostre formazioni che erano scese in pianura si sono unite alla 10ma Gastaldi. Ogni giorno recavano tangibili disturbi alle SS e ai reparti fascisti.
Non più pretenziose aggressioni in massa, bensì agili operazioni a sorpresa. Un continuo stillicidio di perdite allarmava e frustrava i comandi nemici. La gente aveva imparato da noi a non subire gratuite rappresaglie. Quando veniva interrogata, rispondeva di aver visto effettivamente dei partigiani: andavano nella tale direzione [quella opposta alla verità], erano molto numerosi e muniti di armi automatiche diverse da quelle tedesche e italiane. Queste informazioni in apparenza candide giovavano ad accrescere la psicosi di accerchiamento e di agguato che già soffrivano i tedeschi e i loro miserevoli alleati italiani." La sera del 6 aprile Gianni si trova a Valpiana, presso Villadossola, insieme ad altri membri della "Volante Alpina", fra cui il commissario "Edoardo" [Gino Vermicelli], l'addetto stampa "Martello" [Vittorio Lovatto], il comandante "Rizz" [Serafino Zani]. Improvvisamente, l'allarme: i tedeschi hanno circondato l'edificio. bisogna tentare una sortita [leggi, ancora una volta: fugone]. I partigiani escono sparando all'impazzata: ma più di loro sparano, con le loro "Maschinenpistolen", le SS, che mirano alle ombre dei garibaldini in fuga precipitosa giù per il pendio. Nessuna direzione è libera da nemici, o se una lo è, non è quella presa da Gianni. I lampi delle armi compaiono d'improvviso a pochi metri da lui, i proiettili fanno schizzare pezzi di granito proprio vicino al suo viso, quasi accecandolo. Un'altra SS lo insegue con alcune raffiche senza riuscire a centrarlo: quando Gianni s'immagina di rispondere al fuoco, tre o quattro saette si accendono a un palmo dai suoi occhi, e una di esse gli incide "un vezzoso gradino sul naso, proprio sopra l'attaccatura del setto di cartilagine". Con lucida freddezza ["della quale tuttora stupisco", scrive nel 1975], Gianni rimette la sicura allo Sten e si salva scendendo a capovolte un intero costone di ronchi. Quando la sua corsa si ferma, ad alcune centinaia di metri, ha sangue dappertutto e non riesce ad aprire un occhio, che suppone perduto.
Non è così. Ha corso un grande rischio, ma "somme toute", la ferita è leggera. Gli è venuto molto buono l'addestramento da paracadutista, che permette di fare salti acrobatici e di arrivare al suolo senza frangersi le ossa e senza fare troppo rumore.
La macchina militare tedesca rivela già cospicui sintomi di dissoluzione. Dalla valle Antrona, il comando della "comoli" si trasferisce vicino a Crodo, nei pressi di Maglioggio. Il 23 aprile, Gianni si reca a Crodo con il dottor Fido per controllare lo stato dei telefoni: cadono in un agguato: ma tanto lui quanto il medico riescono miracolosamente a sottrarsi alla cattura [o peggio]. Una raffica di mitragliatrice però gli bucherella i calzoni e bruciacchia in modo bizzarro il fazzoletto, che esce dalla tasca costellato di fori. A Gianni, solo un graffio.
L'operazione più importante, perché volta a impedire una distruzione e non a provocarla, è il romanzesco salvataggio della galleria del Sempione e di alcune centrali idroelettriche dal piano tedesco di sabotaggio con seicento quintali di tritolo.
L'esplosivo è ammassato a Varzo, in Val Diveria: viene disperso per i campi e bruciato senza provocare danni. A informare del successo l'ufficio Stampa e propaganda del Clnai è proprio il partigiano "Gianni": "Vi faremo pervenire a giorni notizie... forse sensazionali. Non posso parlare di quel che bolle in pentola! Salute, accontentatevi dei bollettini, alquanto magri, e della notizia del tritolo. Tenete presente che tutte le linee ferroviarie sono state sabotate, che i tedeschi hanno vagoni di esplosivo disseminati lungo le strade ferrate: e non li possono prendere! La bud - dicono a Milano - bolle! Saluti patriottici.
Gianni - Aiutante maggiore della "Comoli". L'euforia è evidente. E quanto comprensibile! Gianni è appena scampato alla morte, con gran spreco di indumenti rovinati dalle pallottole. Per di più è fine aprile ed è già in vista la Liberazione.
Per i partigiani è suonata l'ora di calare in pianura. I tedeschi ormai si ritirano dai monti: secondo le norme della guerriglia, imparate nel dolore, le forze della Resistenza badano a contrastarli limitando al minimo i propri danni. In molti si danno prigionieri, accolti fin troppo bene dai partigiani. In un'occasione, Gianni arriva in un posto di guardia e vede due tedeschi insieme ai partigiani, senza una particolare sorveglianza. "Was machen Sie hier?!" gli domanda con stupefatto cipiglio. "Wir sind Kriegsgefangene", siamo prigionieri di guerra, rispondono i due, impauriti. "Das hoffe ich schon!" [Lo spero bene!] ribatte Gianni, e ordina agli altri partigiani di esercitare una maggiore vigilanza. La guerra non è ancora finita.
La "Comoli" entra in Domodossola il 24 aprile: il 25, Brera e "Catilina" fanno uscire il primo numero non clandestino de l' Unità. ["Catilina" è da identificare con il monzese Attilio Bonacina, detto anche "Attilio Pianta"]. Brera scrive un editoriale intitolato "Per sempre", fa il pastone delle ultime esaltanti notizie dalla pianura, e dedica un elzeviro alla contadina che si è messa a piangere perché lo i il 25 aprile come data della Liberazione: non lo fu per l'intero nord Italia. Solo il 29, pieni di scabbia e di pidocchi, i partigiani si presentano al punto di raduno milanese fissato in viale Certosa. Di qui muovono per le vie della città i camion carichi di uomini della Resistenza che sanciscono, con la lugubre coda di qualche cecchino fascista che ancora spara dai tetti, la fine di un incubo. Fra loro, naturalmente, c'è anche Gianni Brera.
Proprio su un camion partigiano lo scorge, a Porta Ticinese, la moglie Rina. Lui pure la avvista: scende dal camion, la abbraccia, la bacia, le dà qualche scatoletta di carne e del caffè: poi risale sul camion, promettendo "Dopo arrivo!". La sera stessa è a casa da lei. Gianni Brera rivisiterà in seguito le vicende d'Italia con lo storico anticonformista Fabio Cusin: siamo una nazione, dirà insieme a lui, in cui le liberazioni sono endemiche: e i padroni di prima non possono mai aspettarsi grazie presso i servi di quelli che vengono dopo. La violenza del "dopo" è vile; quella durante la battaglia è una necessità spiacevole.
A questa necessità, in ogni modo, il Gioann riesce benissimo a sottrarsi, nonostante la sua carriera da paracadutista. Per lanciarsi da ottocento e più metri appesi a pochi ettogrammi di seta solo il coraggio è indispensabile, non la ferocia: Brera, come l'altro pavese Italo Pietra, si vanterà per tutta la vita di aver attraversato la guerra senza mai sparare addosso a un altro essere umano, né da tenente paracadutista né da ufficiale partigiano nell'Ossola.
Chiuso il periodo della Liberazione, occorre adesso pensare alla ricostruzione. In termini personali, Gianni Brera deve ora decidere che cosa fare in campo professionale. A dire il vero, ha già un'offerta di lavoro: il Partito comunista lo vuole alla direzione di un quotidiano che sta per nascere a Novara.
Alla fine la risposta di Gianni è no. Alla politica non si sente votato: e neppure ai pochi soldi che la stampa di partito sarebbe in grado di dargli per il suo lavoro. Bruno Roghi gli offre un posto alla Gazzetta dello Sport. In fondo, è quello che sempre ha voluto fare. Accetta. Di lì a pochi anni, di quello stesso quotidiano sarà direttore. Gli anni della Resistenza si allontanano sempre più: ma non sbiadiscono: fino alla fine della sua vita, Gianni Brera resterà un uomo di sinistra.

(tratto da ilmanifesto.it)

 




 

   

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