L'insurrezione
di aprile
di Giorgio Amendola
Il governo democristiano e le forze politiche che lo sostengono hanno
da tempo iniziato contro il nostro Partito una campagna di calunnie e di menzogne,
accusandolo di tramare oscuri complotti contro la legalità repubblicana e di preparare
l'attuazione di piani segreti per scatenare nel paese un movimento insurrezionale.
La maggior parte del popolo italiano ha vissuto recentemente, dal 1943
al 1945, da Napoli a Torino, una grande e tragica esperienza insurrezionale, dalla quale
esso ha direttamente imparato che l'insurrezione non e un giuoco di pochi cospiratori;
l'insurrezione per noi è cosa molto seria, è mobilitazione e lotta di milioni e milioni
di cittadini, è anzitutto un grande movimento politico di masse che trascina la
maggioranza dei lavoratori in una lotta alle sorti della quale è affidato l'avvenire del
paese.
Tutti i venti mesi della resistenza furono caratterizzati da una
vivacissima lotta politica, che si svolse in seno ai C.L.N. e, in primo tempo, tra i
C.L.N. e le forze organizzate attorno al governo Badoglio, per la direzione politica del
movimento di liberazione e per la sua piattaforma politica.
Il governo Badoglio, fuggito da Roma il 9 settembre, responsabile del
crollo dell'esercito italiano, non poteva dirigere la guerra di liberazione. Una nuova
direzione politica, espressione delle forze popolari che avevano scelto da sole nella
generale decomposizione del vecchio stato italiano la via della lotta, doveva guidare il
movimento popolare. Sorsero i C.L.N., il C.L.N. Centrale a Roma, il C.L.N. alta Italia, i
C.L.N. Regionali, provinciali, periferici, tutta una nuova organizzazione politica che
aderiva concretamente alle esigenze della lotta e che permetteva la più larga
mobilitazione delle masse popolari. La lotta tra la vecchia direzione politica, espressa
nel governo Badoglio, e la nuova direzione dei C.L.N. caratterizzò tutto il primo periodo
della resistenza; e minacciò, col dualismo di organi direttivi che si verificò nel
territorio occupato, di paralizzare lo sviluppo dell'azione, finché, per l'iniziativa del
compagno Togliatti, formato il primo governo di Unità Nazionale, la direzione unitaria di
tutto il movimento fu realizzata con l'affidare ai C.L.N. nei territori occupati la
rappresentanza del governo centrale e l'esercizio della funzione di governo fino
all'arrivo delle forze alleate. Ma la lotta politica tra le forze conseguentemente
democratiche, e quelle conservatrici, continuò vivace in seno ai C.L.N., dove liberali e
democristiani assolsero quasi sempre ad una funzione di freno. Infatti le forze
politicamente e socialmente conservatrici, fin dal momento del crollo del regime fascista,
non si sono limitate ad agire dal di fuori del nuovo sistema politico di forze
democratiche e popolari, fronteggiandolo, e combattendolo, ma hanno sempre combinato assai
abilmente questa opposizione esterna con l'azione in seno a questo nuovo sistema, per
minarne l'unità, indebolire la saldezza; e rallentarne e ostacolarne i movimenti. È
stata questa la funzione dei liberali e dei democristiani in seno ai C.L.N., aiutati in
questa opera da quei «socialisti» e azionisti che hanno poi dimostrato il loro
asservimento agli interessi di quelle forze che si proponevano, malgrado la caduta del
regime fascista, di mantenere in piedi la vecchia struttura reazionaria della società
italiana.
La questione centrale attorno alla quale si svilupparono tutte le
polemiche e si determinarono i principali dissensi politici fu quella dell'attesismo,
affrontata apertamente nelle prime settimane, ma poi ripresa quasi ininterrottamente, ora
sotto un aspetto ora sotto un altro, fino agli ultimi giorni, fino agli ultimi tentativi
di trascinare il movimento nazionale sulla via della capitolazione e del compromesso col
nemico.
Gli attesisti proclamavano l'inutilità della lotta, la necessità di
restare tranquilli fino all'arrivo degli alleati, l'opportunità di limitare l'opera della
Resistenza a una attività di assistenza agli sbandati e di informazioni agli alleati. La
questione, che assumeva a volte un aspetto di tecnica militare, era in realtà
schiettamente politica, e investiva direttamente il carattere e la base politica del
movimento di liberazione. Infatti gli attendisti temevano la mobilitazione del popolo,
necessaria per condurre avanti seriamente la guerra di liberazione, temevano che il popolo
risvegliato da questa partecipazione alla grande lotta liberatrice potesse all'indomani
della liberazione imporre la sua volontà di rinnovamento politico e sociale del paese.
Essi si opponevano perciò allo sviluppo delle azioni di guerra contro i nazi-fascisti.
Ora, non soltanto vi era un problema nazionale -assicurare che la liberazione dell'Italia
avvenisse col concorso degli italiani, per cui l'Italia potesse risorgere al suo posto di
grande Nazione riscattata dal valore e dal sacrificio dei suoi figli migliori- che dettava
l'obbligo di sviluppare una lotta a fondo senza quartiere. Non soltanto vi era la
necessità di affrettare l'ora della liberazione e di abbreviare la durata delle
sofferenze, colpendo il nemico ovunque si trovasse, rendendogli la vita impossibile,
immobilizzando ingenti sue forze sul fronte interno, seminando nelle sue file il panico ed
affrettandone la resa. Non soltanto bisognava impedire al nemico di portare a compimento i
suoi piani di distruzione e bisognava salvare il salvabile dell'apparato industriale, già
tanto logorato dai bombardamenti aerei, per assicurare per l'indomani della Liberazione il
massimo di occupazione e di pane ai lavoratori italiani. Ma la necessità dell'azione,
della lotta senza quartiere, nasceva altresì dal bisogno di difendersi dalle prepotenze
nazi-fasciste, di impedire le deportazioni in Germania e gli arruolamenti forzati nelle
formazioni fasciste, di opporsi alle razzie di uomini, di viveri, di bestiame, di cose, di
mantenere uniti e organizzati gli sbandati della prima ora, trasformandoli in combattenti.
Un grande industriale, che si arricchiva nel traffico con i tedeschi, poteva comodamente,
praticando con sicurezza il doppio giuoco, aspettare l'arrivo degli alleati. Ma gli operai
e i soldati ritiratisi sui monti potevano cercare una possibilità di salvezza anche
individuale, soltanto organizzandosi in formazioni disciplinate e combattendo duramente
per difendere con le armi strappate ai nemici la vita e la libertà. E fu quello che
avvenne. La creazione delle Brigate Garibaldi indicò la via a tutte le forze della
Resistenza. Le forze conseguentemente democratiche, gli operai, i soldati, i lavoratori
più coscienti, il nostro partito, marciarono sulla via della lotta e impressero, di
fatto, a tutto il movimento la loro concreta direzione.
Ma gli attendisti non si diedero per vinti e cercarono in ogni modo di
frenare lo sviluppo e l'estensione della lotta, di ostacolare, in particolare, la
mobilitazione delle più larghe masse popolari. Uno dei motivi più frequentemente
avanzati dagli attendisti per ostacolare lo sviluppo della lotta era l'asserita
opportunità di non esporre la popolazione civile alle rappresaglie del nemico. In
realtà, dal momento che si era iniziata la guerra partigiana, il problema era stato già
risolto nell'unico modo possibile, compatibile con l'osservanza del nostro dovere
nazionale, cioè nel rifiuto di sottostare al vigliacco e barbaro ricatto degli invasori
tedeschi e dei traditori fascisti. Cedere al ricatto voleva dire arrestare completamente
l'attività partigiana, rinunziare alla lotta, consegnare le armi, capitolare di fronte al
nemico. Né potevano valere le considerazioni spesso avanzate dagli attendisti, che
miravano a attenuare l'intensità della lotta, a escludere certi mezzi di offesa, a
evitare che determinate azioni venissero compiute entro le città. Non era problema di
mezze misure. La rappresaglia tedesca si abbatteva cieca ed indiscriminata, né mai era
possibile prevederne la direzione e la portata. Se vigliaccamente colpiva con la
fucilazione dei 320 martiri delle Fosse Ardeatine i patrioti romani dopo l'azione di
guerra compiuta dai GAP a Via Rasella, essa si mostrava feroce anche fuori della città,
nelle montagne e nelle campagne, arrivando per il taglio dei fili telefonici e per il
semplice rifornimento dei viveri ai partigiani a incendiare intieri villaggi e a
massacrare la popolazione, uomini e donne, vecchie e bambini, come tragicamente ci
ricordano le 2000 vittime di Marzabotto. No, le rappresaglie non si evitavano attenuando
la lotta, a meno di non rinunciarvi completamente e di tradire così il proprio dovere. Le
rappresaglie si combattevano al contrario intensificando la lotta, reagendo colpo su
colpo, provocando nelle file nemiche perdite sempre più grandi, e facendo molti
prigionieri. Quando le nostre unità garibaldine hanno incominciato a fare dei
prigionieri, allora il nemico, sordo a ogni considerazione umana, ma sensibile al
linguaggio della forza, scese a patti e cercò di cambiare gli ostaggi contro i
prigionieri.
Questa era l'unica via, via dura e sanguinosa, la via del combattimento
a oltranza, quella segnata dalle gesta dei partigiani dell'U.R.S.S. e delle altre nazioni
europee, la via del resto che ci era indicata dagli stessi appelli dei comandi alleati e
dai proclami del governo italiano.
Contro la minaccia che le rappresaglie costituivano per tutti i
cittadini italiani, non restava che un mezzo di difesa; l'unione di tutti gli italiani
contro queste iene arrabbiate, l'unione nella lotta comune, nel sempre maggiore
allargamento del Fronte della Resistenza. Ogni uomo, ogni donna, ogni ragazzo diventava un
combattente della libertà.
Naturalmente gli attendisti si opponevano a questo allargamento del
fronte della Resistenza, che poneva il problema di una mobilitazione e di una
organizzazione permanente delle masse popolari. Tutta la polemica sui C.L.N. periferici
svelava la preoccupazione retriva che le masse lavoratrici potessero acquistare,
attraverso ad una attiva partecipazione a questi organismi popolari di auto-governo, una
nuova esperienza politica, schiettamente democratica.
Su tutti questi problemi, i fatti decisero di ogni controversia. La
pariteticità dei C.L.N., così strenuamente difesa da liberali e democristiani, non
reggeva di fatto di fronte alla capacità creativa delle masse in lotta ed al potente
impulso che esse imprimevano allo sviluppo della situazione politica. Le tesi che noi
comunisti avevamo per primi sostenute trionfarono di ogni resistenza perché esse
interpretavano le necessità più sentite del movimento di liberazione, e perché esse
erano suffragate dall'immediata esperienza della lotta. Così le forze di avanguardia
della classe operaia impressero a tutto il movimento, concretamente, la loro direzione
politica e l'avviarono, malgrado tutte le resistenze, verso la necessaria conclusione:
l'insurrezione.
L'insurrezione di Napoli aveva già chiaramente indicato che «la
guerra partigiana avrebbe dovuto avere la sua conclusione e il suo sblocco logico in una
insurrezione generale armata che precedesse l'arrivo degli alleati, si svolgesse in
concomitanza di una offensiva decisiva e sbaragliasse il fronte della ritirata nemica.
Dopo Napoli la parola d'ordine dell'insurrezione finale acquistò un senso e un valore, e
fu allora la direttiva di marcia per la parte più audace della resistenza italiana»,
(LONGO, Un Popolo alla macchia, pag. 102).
Ma come bisognava concepire e preparare questa insurrezione? Alcuni, e
erano di fatto sempre gli stessi sostenitori dell'attendismo, la vedevano e la
presentavano come un'azione lontana, da scatenare a una misteriosa ora X. Intanto,
nell'attesa di questa ora fatale, bisognava non muoversi, «non scoprire le forze»,
dicevano, preparare bene i piani, ecc. Naturalmente, per questa via, se pure questa ora X
avesse dovuto mai scoccare, null'altro sarebbe stato pronto, se non i piani elaborati a
tavolino. L'idea dell'insurrezione, sostenevamo noi comunisti, doveva invece significare
«rafforzamento permanente, coronamento e sbocco di tutta la lotta di liberazione», «non
semplice parola d'ordine, ma un compito concreto e immediato di preparazione politica e di
mobilitazione. Si doveva perciò continuare, allargare, generalizzare la lotta di
liberazione nazionale già iniziata: quella armata, partigiana in primo luogo, ma anche la
resistenza di massa alle ingiunzioni fasciste e il movimento rivendicativo delle masse
lavoratrici contro i propri oppressori o sfruttatori» (LONGO, Un Popolo alla Macchia,
pag. 131).
E, nello schema del rapporto politico presentato alla Conferenza dei
Triumvirati Insurrezionali del Partito comunista italiano, pubblicato nel numero 19-20, 25
Novembre 1944, di «La nostra Lotta», si affermava in esplicita polemica con le posizioni
degli attendisti:
«l'insurrezione nazionale per cui noi ci battiamo e che vogliamo
potenziare sempre di più non è una misteriosa preparazione per «il momento buono» per
una apocalittica ora X, ma è la guerriglia di ogni giorno che deve colpire
permanentemente e con tutte le armi il nemico, ovunque si trovi, guerriglia che dobbiamo
intensificare e estendere sempre di più, fino a liberare completamente e definitivamente
porzioni sempre più grandi del territorio nazionale ».
Durante tutto il 1944, man mano che il movimento partigiano si veniva
rafforzando e estendendo si allargava pure in tutto il territorio occupato la lotta delle
masse lavoratrici. Non si può comprendere lo sviluppo del movimento partigiano e la sua
capacità di resistenza e di attacco davanti alle preponderanti forze nemiche, se lo si
isola dall'insieme dei grandiosi movimenti di lotta delle masse popolari italiane che
durante tutti i venti mesi non si stancarono di opporsi all'invasore, di attaccarlo in
continuazione con una serie di lotte rivendicative, economiche, politiche, di strappargli
delle concessioni, di imporgli in ogni momento la prepotente iniziativa popolare. Fu prima
la classe operaia a sviluppare l'attacco. Dalla fine del 1943 al grande sciopero generale
del marzo 1944 fu un seguirsi di agitazioni, di fermate di lavoro, di scioperi, che
ridussero sostanzialmente la produzione, dimostrarono l'impotenza dei barbari occupanti,
incoraggiarono i partigiani e diedero l'esempio della resistenza a tutti i lavoratori
italiani. Dietro questo esempio altre categorie di lavoratori scesero in lotta.
Nell'estate del 1944 furono i contadini che si rifiutarono prima di trebbiare il grano e
poi, visto che gli alleati non arrivavano, lo trebbiarono sotto la protezione delle SAP,
non lo portarono agli ammassi ma lo nascosero e lo consegnarono ai C.L.N. Furono i
contadini a organizzare la difesa armata dei prodotti della terra, a impedire le razzie di
bestiame. Furono le donne che manifestarono apertamente davanti ai municipi per richiedere
pane per i loro figlioli, l'aumento delle razioni alimentari, la concessione e l'aumento
dei sussidi per le famiglie dei caduti e dei prigionieri.
Così veniva attuata la direttiva contenuta nel messaggio inviato ai
comunisti della zona occupata dal compagno Togliatti, subito dopo il suo arrivo a Napoli.
«L'insurrezione nazionale non deve essere opera solo di un'avanguardia
ma di tutto il popolo. Non è mai ammissibile che esista una situazione in cui solo i
piccoli gruppi sono attivi e grandi masse aspettano senza intervenire nella lotta.
Combinate insieme i colpi dei piccoli gruppi e le azioni militari più vaste con movimenti
e azioni di grandi masse, allo scopo di arrivare all'insurrezione nazionale».
E nel rapporto politico presentato alla riunione allargata della
Direzione per l'Italia occupata del Partito comunista italiano (11-12 marzo '45) si poteva
affermare che:
«già nei mesi scorsi l'insurrezione nazionale in marcia si è
polarizzata da una parte nella lotta armata che ha assunto aspetti sempre più generali e
un più deciso vigore e dall'altra nella lotta rivendicativa popolare che si è
manifestata in scioperi, in manifestazioni di strada, in sabotaggi collettivi e
individuali. Sono queste due forme di lotta, combinate e fuse in un tutto unico, che hanno
scardinato lo Stato fascista, infranto i suoi piani, fatto fallire ogni sua iniziativa,
scavato un abisso incolmabile tra nazi-fascismo e popolo italiano».
Alla guerriglia partigiana si accompagnava sempre più intensa durante
l'ultimo inverno la guerriglia economica contro la fame, il freddo e il terrore
nazi-fascista. Alle lotte operaie e contadine, si aggiungeva, nelle grandi città, la
lotta delle donne, dei ragazzi e dei vecchi che assalivano treni e depositi di carbone,
organizzavano il taglio di alberi nei boschi e nei parchi. Contro la guerriglia economica
di massa i nazi-fascisti si rivelarono impotenti. I lavoratori e le loro donne avevano
saputo adottare la tattica partigiana del colpo di mano, della sorpresa. Era tutto il
popolo che si liberava, con un susseguirsi di scioperi, di manifestazioni di agitazioni,
di atti di guerriglia, ininterrottamente, in mille punti del territorio, in modo da non
lasciar tregua all'attaccante, di aggredirlo da tutte le parti, di minarne la capacità di
resistenza.
In verità, come afferma un titolo de «L'Unità» del settembre 1944, L'insurrezione
nazionale è in marcia, titolo che esprime efficacemente tutto lo sviluppo del
processo insurrezionale e che diventa una parola d'ordine del Partito, a indicare che
l'insurrezione è già in atto, e si realizza nel moltiplicarsi delle brigate e divisioni
partigiane, nell'accrescersi della loro aggressività, nell'audacia dei GAP,
nell'armamento di tutti i lavoratori inquadrati nelle SAP delle fabbriche dei rioni, dei
villaggi nella liberazione di vaste zone di territorio, nell'affermarsi in queste zone di
nuovi organi di potere popolare, nel portare la guerriglia nelle città e nelle campagne,
nella lotta degli operai contro la produzione bellica per il nemico e contro il
collaborazionismo degli industriali traditori, nello sviluppo del movimento popolare
contro la fame il freddo e il terrore nazi-fascista, nella lotta contro i nemici e i
sabotatori del movimento di liberazione nazionale, contro l'inganno e l'illusione delle
pacifiche evacuazioni, contro ogni tendenza al compromesso e alla capitolazione.
Nell'autunno del 1944, sei mesi prima dell'assalto finale, l'insurrezione nazionale era
già la realtà di un popolo in armi.
E in questa lotta le masse popolari venivano organizzandosi. Nascevano
i C.L.N. nelle fabbriche, nei rioni, nei grandi casamenti operai, negli uffici, nelle
Università, persino nei Ministeri e nelle Prefetture. Un nuovo potere popolare nasceva
nella lotta contro il vecchio potere nazi-fascista sempre più indebolito; un nuovo potere
popolare la cui autorità era riconosciuta dal popolo, un nuovo potere che poggiava sulla
forza armata del movimento partigiano e sul consenso delle masse lavoratrici.
Quando il mattino del 25 aprile i lavoratori armati scesero nelle
strade per l'assalto finale, la vittoria era già sicura, malgrado l'enorme sproporzione
dell'armamento che tuttora sussisteva. Non era una piccola avanguardia di combattenti
isolati che attaccava, ma tutto un popolo che si rivoltava contro un governo logorato da
venti mesi di guerriglia popolare, battuto e demoralizzato, condannato politicamente e
moralmente dalla coscienza della nazione.
L'insurrezione dopo la lunga e eroica marcia arrivava vittoriosamente
alla sua meta. I C.L.N. assumevano tutti i poteri, che dovevano poi, in base agli accordi
internazionali, cedere ai comandi alleati.
Si è aperto con questa vittoria del popolo un nuovo periodo della
storia italiana nel quale quegli ideali di libertà e di giustizia per i quali hanno
combattuto e sono caduti i migliori figli del nostro popolo dovranno finalmente trionfare.
Nessuno potrà impedire che quelle sacrosante aspirazioni divengano
finalmente la realtà della nuova Italia.
(articolo pubblicato in: Rinascita - n. 8 - 1948)