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La guerra "lampo"

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Il 1° settembre del ’39, l’invasione della Polonia da parte delle truppe naziste, pose fine alla pace e sancì l’inizio della fine: Francia ed Inghilterra, dopo aver tollerato gli atti di forza di Hitler in Renania, Austria e Cecoslovacchia, decisero di scendere in campo per arginare i folli progetti del III reich.

Ciononostante la macchina bellica tedesca si dimostrò spaventosamente possente e, sfruttando i principi della "guerra lampo" (blitzkrieg), un’azione militare che prevedeva il concentrico utilizzo di artiglieria, mezzi corazzati ed aviazione, in appoggio alla fanteria, nel giro di pochi mesi pose l’intera Europa sotto l’egemonia della svastica.

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Dopo aver liquidato, in poche settimane, la Polonia e dopo l’invasione di Danimarca e Norvegia, anche Belgio, Lussemburgo, Olanda e soprattutto Francia, furono costrette a capitolare di fronte alla straripante superiorità degli eserciti nazisti.

Il 14 giugno 1940, la Wehrmacht poteva sfilare, trionfalmente, a Parigi e lo stesso giorno Hitler in persona, accompagnato dal suo architetto personale Speer, attraversò le strade deserte della capitale francese, estasiato dalla sue grandiosità e dalle meraviglie che si ponevano ai suoi occhi.

Nei suoi propositi, Berlino, una volta vinta la guerra, una volta assicurato, ai figli ariani, il dominio sui popoli, avrebbe dovuto essere ricostruita ed assurgere così a degna cornice e al rango della capitale della razza dominatrice, assumendo contorni talmente maestosi da far impallidire la stessa Parigi.

La fine della guerra appariva solo una questione di tempo visto che la sola Inghilterra si frapponeva tra Hitler ed il trionfo; i vertici militari del reich convennero che l’invasione del regno di sua maestà sarebbe stata possibile solamente dopo aver conquistato la supremazia aerea ma, clamorosamente, la cosiddetta "battaglia d’Inghilterra", vide soccombere una Lutwaffe in schiacciante superiorità numerica, nei confronti di una RAF che ottenne la salvezza grazie all’impiego di un nuovo apparecchio, il radar, in grado di segnalare ed individuare la presenza di apparecchi nemici.

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A questo punto Hitler commise un errore che si sarebbe rivelato tragicamente fatale per le sorti del III reich: senza aver domato l’impero britannico, decise di sferrare l’attacco al vero nemico del popolo tedesco, rappresentato dall’Unione Sovietica di Stalin, accettando di combattere su due fronti, convinto come era di schiantare, nel giro di breve tempo, la resistenza dell’armata rossa e di infliggere il definitivo colpo di grazia all’odiato movimento bolscevico.

Si trattava di dare attuazione alla teoria della conquista dello spazio vitale ad est, principio cardine del nazional-socialismo, teorizzato dal professor Karl Haussoffer, l’oscuro professore di geo-politica, dedito a magia ed occultismo che, insieme ad un altro losco personaggio, Dietrich Eckart influenzò, più di ogni altro, il pensiero del giovane Hitler.

Secondo tale teoria, con la quale il professore elettrizzava i suoi allievi, il supremo popolo ariano avrebbe dovuto trovare la propria espansione nei territori orientali, soppiantando le popolazioni slave, considerate etnicamente inferiori e destinate ad essere sterminate e soggiogate alla volontà della razza suprema.

Il 22 giugno 1941, nello stesso fatidico giorno in cui, nel 1812, Napoleone muoveva le sue armate contro la Russia zarista, la grande Germania, al culmine della sua potenza decise, dunque, di sferrare, a sorpresa, l’attacco all’Unione Sovietica, in quella che fu denominata "Operazione Barbarossa".

La Wehrmacht poteva contare su un apparato militare spaventosamente potente al quale si aggiungeva l’apporto fornito dagli alleati, tra cui spiccavano le divisioni inviate da Mussolini, che andarono a costituire lo CSIR (corpo di spedizione italiano in Russia); nonostante i tentativi dei vertici militari di convincerlo a desistere, il duce fu irremovibile, volendo partecipare anch’egli a quella che doveva essere la certa distruzione del nemico bolscevico ed anzi, al primo contingente, fece poi seguito l’VIII armata, denominata ARMIR (armata italiana in Russia).

Fu così che decine di migliaia di soldati italiani si affiancarono ai loro alleati tedeschi, in quella che inizialmente fu un’avanzata inarrestabile ed incontenibile.

Stalin fu colto letteralmente di sorpresa dalla decisione di Hitler ed altrettanto lo fu un’Armata Rossa ancora frastornata dalle purghe degli anni precedenti, che avevano portato alla decapitazione dei vertici dell’esercito fondato da Trotskij.

I tre gruppi di armate tedesche, nord, centro, sud, rispettivamente dirette a Leningrado, Mosca e Caucaso, sfondarono ripetutamente le linee sovietiche facendo incetta di prigionieri e materiale.

Ben presto furono conquistate Minsk, Kiev, Kursk, Rostov e le altre principali città, mentre Leningrado venne cinta d’assedio.

Hitler era convinto di essere ormai sul punto di trionfare ma commise tutta una serie di errori che gli furono poi fatali: la popolazione russa era di certo esasperata dalle persecuzioni di Stalin e, forse, avrebbe gradito un liberatore, sia pure nelle vesti del nemico, ma il fuhrer ordinò, di agire senza nessuna pietà nei confronti di un popolo che avrebbe dovuto scomparire per far posto alla suprema razza ariana; le barbarie e la crudeltà delle SS dunque furono agghiaccianti e man mano che la Wehrmacht avanzava, alle sue spalle si faceva terra bruciata tra la popolazione civile, con il massacro di interi villaggi.

Fu così che gli orrori nazisti contribuirono, in maniera decisiva, a rinsaldare il sentimento patriottico dei russi: essi fecero, infatti, quadrato attorno al loro capo supremo Stalin il quale, dal canto suo, si lanciò in appassionati proclami radiofonici al fine di salvare la "santa madre Russia" dalla ferocia del nemico tedesco.

Ma l’errore più madornale fu commesso sul piano militare: la macchina da guerra germanica continuava infatti ad avanzare con estrema facilità nel cuore del territorio sovietico ma Hitler e i suoi generali furono troppo indecisi sulla tattica da seguire, ossia se puntare dritti su Mosca o proseguire verso il bacino del Don; si trattò però di un’ indecisione fatale per la Germania Nazista visto che, a causa di quei tentennamenti, entrò ben presto in gioco quello stesso alleato che in passato già aveva permesso ai Russi di sconfiggere le truppe napoleoniche, ossia il "cosiddetto generale inverno".

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Le truppe tedesche, già in difficoltà per gli estenuanti trasferimenti lungo le sterminate pianure sovietiche e alle prese quindi con evidenti problemi di collegamento tra le prime linee e le retrovie, vennero fermate, alle porte di Mosca, dalla strenua resistenza dell’armata rossa e, soprattutto, dal terribile inverno sovietico, che rese impossibile l’avanzata.

Dopo diversi mesi, dunque, quella che sembrava una marcia trionfale si arrestava, mentre, al contrario, Stalin approfittò dell’immobilismo forzato delle operazioni belliche per riorganizzare l’esercito, che poteva contare su un inesauribile numero di effettivi e di riserve e rifornito di materie prime e materiali militari nuovi di zecca, prodotti dalle fabbriche trasferite, all’inizio dell’invasione, al di là degli Urali e che marciavano a pieno ritmo, guidate dal rinnovato sentimento patriottico e dalla ritrovata unità nazionale, minacciata dallo spettro nazista.

Le operazioni militari dell’asse ripresero in primavera ma Hitler decise di cambiare obbiettivo, abbandonando Mosca e puntando, verso sud, ai pozzi petroliferi del Caucaso e a Stalingrado, la città simbolo del comunismo e del regime, situata sul fiume Volga, al fine di aggirare la capitale da est e tagliare la ritirata all’armata rossa.

Verso Stalingrado marciò la VI armata del comandante Friedrich von Paulus, protetta alle spalle, sul fronte del Don, dagli alleati romeni, ungheresi ed italiani.

Si trattava di infliggere un colpo mortale al nemico, ma Stalingrado si rivelò, viceversa, fatale alle armate naziste, in quella che fu la battaglia che decise le sorti del secondo conflitto mondiale.

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