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Corriere della Sera, 26 giugno 2001
BASEVI La collezione confiscata due volte. La storia di un
patrimonio di una famiglia ebrea che fu rubato dai nazisti. E che nel dopoguerra lo Stato
antifascista si affrettò a svenderedi
Sergio Romano
Qualche settimana fa si sono conclusi i lavori della Commissione presieduta da Tina
Anselmi «per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le
attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e
privati». Più che restituire il maltolto (fu restituito per il 90% dopo la fine della
guerra e i casi rimasti erano già allora difficilmente risolvibili), la Commissione ha
cercato di riempire i vuoti della memoria e di raccontare in quali condizioni, nelle
diverse regioni italiane, i singoli membri delle comunità ebraiche abbiano subito, fra il
1938 e il 1945, la spoliazione dei loro beni.
Fra gli episodi tornati alla luce in tal modo uno in particolare merita di essere
segnalato al lettore. È quello che Enrica Basevi ha dapprima raccontato alla Commissione,
poi, più diffusamente, in un libro ( I beni e la memoria ) apparso ora presso
leditore Rubbettino. Enrica Basevi è figlia di un uomo che fu danneggiato due
volte: dalle SS tedesche nella primavera del 1944 e dallamministrazione
dellItalia democratica dopo la fine del conflitto.
Ecco come andarono le cose.
Ricordo Alessandro Basevi a Genova negli anni Quaranta e Cinquanta. Ebreo triestino, si
era laureato in ingegneria al Politecnico di Torino e aveva rilevato prima della guerra
unacciaieria in Liguria. Era un «grande borghese», abile negli affari, colto,
amante e collezionista di belle cose, membro di pieno diritto della oligarchia
imprenditoriale genovese. Ma dopo l8 settembre Basevi era dovuto fuggire con la
famiglia dalla sua città. Prima di andarsene, tuttavia, aveva fatto murare nei
sotterranei della sua villa due casse, un baule e diversi colli in cui erano stati messi,
in grande fretta, i pezzi, soprattutto genovesi, di una bella collezione di argenteria
antica. La prudenza non servì a nulla. Due spie informarono il comando delle SS e il 28
marzo del 1944 largenteria venne dissepolta e sequestrata. Che cosa sia esattamente
accaduto da allora rimarrà, probabilmente, nella storia della collezione Basevi, una
pagina bianca.
Sappiamo che largenteria fu tenuta a Genova per alcuni mesi e che nellaprile
del 1945 riapparve con altro materiale a Verona da dove prese la strada del Brennero.
Troppo tardi. Quando giunse in Alto Adige le forze tedesche in Italia si erano arrese e le
casse passarono nelle mani di uno speciale reparto dellesercito americano per finire
qualche mese dopo, con molta argenteria sottratta alle sinagoghe, in quelle di un ente
nuovo, istituito dal governo Parri e presieduto da un battagliero liberale che aveva fatto
parecchi anni di galera durante il fascismo e diviso con Altiero Spinelli lesilio di
Ventotene: Ernesto Rossi. Entra in scena così lArar (Azienda rilievo alienazione
residuati) a cui il governo affida sin dal 1945 il compito di vendere i beni del nemico e
quelli che il governo americano, per alleggerire i trasporti del ritorno, si appresta ad
abbandonare sul territorio italiano: uno sterminato magazzino pieno di camion, jeep,
motociclette, cucine da campo, tende, strutture ospedaliere, piccole officine di
riparazione, parti di ricambio, motori e macchine utensili. Vi sono certamente, tra le
cose affidate allArar, i beni che i tedeschi hanno sequestrato a cittadini italiani,
ebrei o non ebrei. Ma Rossi vuole vendere il più rapidamente possibile,
nellinteresse dellerario, e si mette al lavoro con lostinazione di un
mastino. Se qualcuno riconosce, nei magazzini dellArar, i beni che gli sono stati
sottratti, può recuperarli, ma dopo avere pagato le spese di custodia. Se il bene è già
stato venduto, può incassarne il prezzo, ma decurtato delle spese di custodia e di una
commissione. E nei casi dubbi la decisione di Rossi è semplice: vendere.
Appare a questo punto, nella storia della collezione Basevi, un altro personaggio di cui
conservo molti ricordi personali. Si chiama Rodolfo Siviero, è stato maresciallo dei
carabinieri, ha fatto la Resistenza, ha organizzato i tribunali eccezionali in Toscana
dopo la Liberazione.
Ma ha anche uno straordinario fiuto artistico e un gusto innato per la storia
dellarte. Terminata la guerra si mette immediatamente al lavoro e crea di fatto una
sorta di agenzia poliziesca per il recupero delle opere darte trafugate dai
tedeschi. Rossi è un mastino al servizio del bilancio dello Stato, Siviero è un segugio
al servizio del patrimonio artistico italiano. Lo scontro avviene in Alto Adige dove la
materia del contendere è largenteria (in parte laica, in parte religiosa) che gli
americani hanno consegnato allArar. Con un sequestro giudiziario Siviero riesce a
impadronirsi dellargenteria religiosa, che verrà poi restituita alle sinagoghe, ma
non può impedire che quella laica (fra cui, con ogni probabilità, i pezzi della
collezione Basevi) venga trasferita a Milano e in buona parte venduta allasta.
Alessandro Basevi, nel frattempo, si è messo alla ricerca dei suoi beni, ma si scontra
con un muro di silenzi o risposte burocratiche. Esiste un bollettino dellArar in cui
lagenzia annuncia le sue vendite, ma lui ne ha notizia troppo tardi. La situazione
comincia a chiarirsi quando alcuni antiquari gli fanno sapere di avere
comprato sul mercato alcuni pezzi della sua collezione. Con la pazienza di Giobbe Basevi
ricompra le sue cose e continua a tempestare di lettere la direzione dellArar.
Arriverà, alla fine del 1948, una risposta. LAgenzia ha trovato 32 pezzi, per circa
32 kg, che appartengono alla sua collezione. Gli verranno restituiti, ma soltanto quando
il proprietario avrà pagato il 15% del valore stimato in una perizia dellAgenzia.
Riappaiono sul mercato, nel frattempo, altri pezzi, e il loro proprietario pazientemente
li ricompra.
Finisce così la storia della collezione Basevi, ricostruita dalla pietà filiale di
Enrica. Ma il suo libro contiene, insieme alla narrazione dei fatti, una tesi.
Lindifferenza dellItalia democratica per i misfatti dellItalia fascista
è in realtà, sostiene Enrica Basevi, il risultato di un razzismo diffuso. Manca del
tutto allamministrazione italiana, in altre parole, il sentimento dei diritti
violati e delloffesa subita dai cittadini ebrei.
A me sembra che il razzismo in questo caso sia una spiegazione antistorica. Per
comprendere la distratta attenzione di cui certe questioni ebraiche godettero allora in
tutta lEuropa, converrebbe ricordare piuttosto quali fossero le condizioni del
continente alla fine della guerra: dodici milioni di tedeschi e polacchi dispersi
attraverso le strade dEuropa, città distrutte, villaggi deserti, fabbriche
mutilate, ferrovie interrotte, porti ingombri di naviglio affondato, milioni di reduci e
disoccupati, famiglie sconvolte dagli orrori del conflitto, governi ansiosi di ricostruire
i loro Paesi e nutrire i loro cittadini.
Svuotati i vecchi lager ne apparvero altri: si chiamavano campi per displaced persons,
vale a dire per tutti coloro che erano stati costretti ad abbandonare la loro casa e
giravano lEuropa alla ricerca di un focolare. Vidi uno degli ultimi accanto a
Salisburgo nella primavera del 1949. Vi fu persino un momento,
subito dopo la fine della guerra, in cui il pane degli italiani fu assicurato soltanto dal
dirottamento verso il Mediterraneo di alcune navi argentine cariche di grano.
Da allora, e soprattutto negli ultimi anni, la memoria ha selezionato un avvenimento, il
grande genocidio ebraico, e ne ha fatto un metro con cui misurare e giudicare qualsiasi
altra vicenda. Di questa storia «giudeocentrica» il libro di Enrica Basevi è per
lappunto una espressione. Ma per comprendere il modo
in cui Ernesto Rossi diresse lArar e ne fece, per molti aspetti, un modello
amministrativo, sarà bene ricordare che il mondo allora era molto più complicato e
drammatico di quanto non appaia nelle rievocazioni di alcuni storici dellOlocausto.
Il libro: «I beni e la memoria. Largenteria degli ebrei: piccola
"scandalosa" storia italiana», di Enrica Basevi con scritti
introduttivi di Amos Luzzatto e Roberto Finzi; Rubbettino Editore, pagine 196, lire 24.000
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