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storia

   

      

Recensioni libri

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pallanimred.gif (323 byte) Pochi grammi di plastica, di Angelo Verrillo (Dvd a cura di Nicola Taiani e Mimmo Oliva), Nocera Inferiore 2007. Storia sindacale, solo apparentemente minore, specchio di una città del Mezzogiorno

 

pallanimred.gif (323 byte) Le SS italiane, di Primo de Lazzari, Teti editore, Milano 2002, pag.230, € 14 (Prefazione di Arrigo Boldrini)

Alla fine dell'ampio, ragionato saggio introduttivo di questa antologia c'è un invito alla riflessione, crudo, che turba e che riguarda tutti. Un'esortazione a "pensare a cosa sarebbero oggi l'Italia e l'Europa, a come si vivrebbe se avessero vinto queste SS, la repubblica di Salo', la Germania hitleriana dei lager di sterminio". Le SS descritte in questo volume non erano tedesche come si è abituati a pensare, ma italiane.Un corpo di circa ventimila soldati che dalla fine del '43 all'aprile del '45 hanno operato nel centro nord d'Italia. Essi al momento dell'arruolamento non giuravano fedeltà al rinato fascismo italiano della repubblica sociale, ma alla Germania nazista e al suo capo Adolf Hitler.Parrebbe incredibile, ma è tutto vero e documentato. Come mette bene in rilievo nella prefazione Arrigo Boldrini Presidente dell'ANPI e medaglia d'oro al valor militare: "Il tempo che passa tende ad affievolire la memoria dei fatti cruciali di cui furono teatro il nostro Paese e l'Europa negli anni dal 1943 al '45. Fatti terribili, devastanti, che mutarono radicalmente i destini di popoli e individui... A tanti anni di distanza da quei catastrofici fatti-nota ancora Boldrini- è vitale che la memoria storica sopravviva che le passioni e le vicende vissute da milioni di persone non siano patrimonio dei soli protagonisti ma si trasmettano alle generazioni successive come un viatico della memoria storica, di consapevolezza, di formazione delle coscienze.Sono soprattutto i giovani che devono conoscere". Ecco quindi l'opportunità e l'importanza di opere come questa, documentate ed utili alla ricerca e alla riflessione.

(Teti editore,via S.d'Orsenigo 21,20135 Milano, tel.02-55015575,fax 02-55015595,e-mail: teti@teti.it / sito:www.teti.it /P.de Lazzari,via R.R.Garibaldi 42,00145 Roma, tel.06-5136642, e-mail:primodelazzari@libero.it)

 

pallanimred.gif (323 byte) Roma nazista 1933-1945, di Eugen Dollmann (Rizzoli 2002, pagine 440, euro 8,90)

Eugen Dollmann scrisse Roma nazista nel 1948. Un anno dopo essere tornato in libertà, a conclusione dei lunghi interrogatori (e dei vari internamenti) a cui era stato sottoposto dopo la fine della guerra. Parrà strano che proprio colui al quale si doveva in gran parte la resa agli Alleati degli ottocentomila uomini dell’esercito tedesco in Italia ricevesse dagli stessi Alleati non tanto un certificato liberatorio di buona condotta, quanto i lunghi mesi di inquisizione che toccavano ai presunti criminali di guerra. La spiegazione è che, fino al 1945, Dollmann era stato in Italia, e specialmente a Roma, se non il tedesco più importante, certo il più in vista, il più appariscente, il più introdotto nell’alta società del fascismo e dell’intrigo. Inoltre, colui che più di ogni altro godeva della stima di Hitler e di Himmler, a cui doveva il grado di colonnello delle SS, conferito «per simpatia» ad uno che nella sua vita non aveva mai fatto un giorno di militare. Oltre a questa posizione di alto livello e dunque suscettibile di indagine quando, finita la guerra, la condotta dei tedeschi in Italia venne esaminata al microscopio per accertare misfatti e colpe, Dollmann doveva le sue disgrazie a un’accusa gravissima pendente sul suo capo. Quella di essere stato coinvolto nella rappresaglia tedesca all’attentato di via Rasella, per aver fornito a Kappler i nomi degli italiani che mancavano a completare la lista dei trecento da fucilare. Risultò che Dollmann era assolutamente estraneo alla vicenda e che era stata fatta un’irreparabile confusione tra lui e il boia delle Ardeatine; ma furono necessari quasi due anni per accertarlo e Dollmann scrisse Roma nazista soprattutto per sgravarsi di quell’accusa, «...convinto che dal 1938 al ’45 non aspirai che a far del bene, sempre lusingandomi di avere evitato il male».
Probabilmente è vero, del bene pare l’abbia fatto. Di certo, però, vi è che il male lo evitò a se stesso, uscendo indenne dalle inquisizioni postbelliche. (...) Con la penna e l’estro dello scrittore di razza, questo beffardo colonnello delle SS ha documentato l’occupazione tedesca grazie alle porte per lui perennemente aperte dell’ambasciata di von Mackensen e di Rahn, del comando supremo di Kesselring e della villa gardesana di Wolf, il Viceré. Di tutti e tre egli si era conquistato la fiducia, ripagandola probabilmente con il lavoro di intelligence che gli era consentito dalle sue frequentazioni romane. L’affascinante intellettuale in uniforme nera era di casa da Ciano, negli uffici dell’onnipotente ed epicureo capo della Polizia Bocchini, ai ricevimenti della principessa Isabella Colonna, cenava con Buffarini-Guidi e riceveva le esasperate confidenze di Donna Rachele, che proprio con lui sfogava il suo odio per il genero Galeazzo: «La disgrazia è entrata in casa nostra con lui: quel matrimonio fu una fatalità. È stato Galeazzo a portarci il falso lusso e l’eleganza che non avevamo mai conosciuto e che per me erano una spina nell’occhio... Prima prendevo il tram, adesso prendo l’autobus, e nel mostrare il biglietto a Galeazzo gli ho detto che io non sono riuscita a possedere tante automobili quante ne ha lui e che io la benzina necessaria per la guerra non la sprecherei come lui per andare al Lido con le amanti». (...)
Ed ora, rileggendo Roma nazista, si scoprirà come, al di là di una assoluta fedeltà storica che da un fantasista del suo calibro era illogico pretendere, questo tedesco raffinato e beffardo ci abbia lasciato un quadro impareggiabile della stagione romana da basso impero che si concluse l’8 settembre 1943. E quanto in profondità egli avesse colto il degrado e le miserie di una società agnostica e corrotta, in cui egli si calava godendovi gli estremi aneliti di adulazione e di snobismo. Una società di principesse disponibili a ogni vincitore e a ogni potente, di bellezze accessibili e infide, di voltagabbana pronti a qualunque ancoraggio, di grandi alberghi, di feste, di cene fastose, di ville, di giochi d’azzardo, di spie, di baldorie notturne, di appuntamenti al golf per corteggiare Galeazzo, di sarte equivoche, di pettegolezzi, di segretarie usate e gettate che tentano il suicidio. Soprattutto di tedeschi ben lontani dal mito del Walhalla hitleriano, pronti nella dolce vita romana ad accogliere invece ogni occasione di compromesso, di esibizionismo e di frode.
Di questa società in festa sull’orlo dell’abisso, che accomunava in un’unica frenetica ricerca di piacere vincitori virtuali e vinti effettivi, Dollmann ha lasciato la rappresentazione più magistrale e più grondante di disprezzo. Se di un libro di rievocazione e di memorialistica storica si potrà mai dire che lo si è letto «come un romanzo», sia consentito qui il ricorso alla frusta e banale definizione: per Roma nazista non saprei trovarne un’altra che ne esprima meglio il valore. (di Silvio Beryoldi, Corriere della Sera, 20 marzo 2002)

 

pallanimred.gif (323 byte) Il Vaticano e l’Olocausto in Italia, di Susan Zuccotti (Mondadori, pagine 374, lire 48.000, euro 24,79)

Che cosa fecero davvero papa Pio XII e i suoi alti dignitari per aiutare gli ebrei negli anni delle persecuzioni attuate da fascisti e nazisti? La domanda si ripete da ormai un mezzo secolo e ripropone alla pubblica opinione lo «scandalo» dei silenzi di un papa e di una Chiesa che, forse, con una condanna pubblica dello sterminio degli ebrei d'Europa avrebbero potuto salvare milioni di vite innocenti. Senza rincorrere le polemiche anche recenti sulla mancata disponibilità della Santa Sede a mettere a disposizione degli storici gli archivi della Segreteria di Stato e di Pio XII, Susan Zuccotti fonda il suo studio sui documenti parziali già pubblicati dal Vaticano (a partire dal 1963), ai quali aggiunge materiali d’archivio di diocesi locali, istituti religiosi e centri di documentazione ebraica, per valutare la veridicità delle prove della presunta assistenza prestata dalla Santa Sede agli ebrei «e stabilire se fu ampia come i difensori del Vaticano sostengono».
Il saggio di Susan Zuccotti si trasforma gradualmente in un atto d’accusa. Nei confronti delle leggi razziste italiane del 1938, pur sapendo che milioni di ebrei morivano assassinati in tutta l'Europa, ancora nel 1943 si esprimeva un giudizio ambiguo, affermando che talune disposizioni andavano abrogate, ma che in molte parti quelle leggi erano «meritevoli di conferme».
L'ebreo e l’ebraismo restavano i nemici di una Chiesa sempre più minacciata e vulnerabile. Inoltre, il papa non incoraggiò mai in modo esplicito i tanti religiosi che aiutavano gli ebrei e preferì dare priorità a questioni diplomatiche e politiche (per difendere le proprietà della Chiesa e il Vaticano) piuttosto che al forte significato morale di una sua condanna pubblica dell’Olocausto.
Susan Zuccotti parla anche di un «mancato onesto confronto della Chiesa cattolica con la propria storia durante l’Olocausto», se oggi si pensa a beatificare Pio XII.
Ciò che fa difetto in questo come in altri studi è un’analisi del peso che i silenzi colpevoli delle istituzioni e dei governi democratici, e di altri capi religiosi, ebbero sull’atteggiamento del papa. (Corriere della Sera)

 

pallanimred.gif (323 byte) La violenza nazista, di  Enzo Traverso (Il Mulino, 2002, pagine 183, euro 11,80)

Probabilmente avremmo dovuto aspettarcelo, un «libro nero dell’Occidente». Non ci sono già stati i vari «libri neri» del comunismo, del capitalismo, dell’Islam? E allora perché stupirsi se uno storico di rilievo, Enzo Traverso, decide di inserire l’Olocausto nazista nella nostra genealogia culturale, di solito nobilitata come tollerante e democratica? Perché reagire indignati, dal momento che le nefandezze della rivoluzione industriale, del colonialismo, del razzismo, delle macchine belliche, dei nazionalismi, dei totalitarismi, degli apparati ideologici di propaganda fanno parte del comune dibattito storiografico sul Novecento europeo? A dire la verità, però, un certo choc ce lo procura l’ultima frase del saggio di Traverso dedicato a La violenza nazista : «Vi è una continuità storica che fa dell’Europa liberale un laboratorio delle violenze del Novecento e di Auschwitz un prodotto autentico della civilizzazione occidentale». Così parlò il professore di scienza politica all’università di Amiens, Francia. Autore, fra l’altro, di saggi sui lager e sul totalitarismo usciti anche in Italia, Traverso si presenta come un critico puntiglioso, e a suo modo convincente. Una cosa però non tollera: che si separino le responsabilità della civiltà occidentale da quelle di Hitler e dei suoi complici, Olocausto compreso. I colleghi storici che, in libri famosi, hanno tentato di attribuire lo sterminio degli ebrei a fattori diversi da quelli della civilizzazione europea, sono da lui duramente criticati: Traverso si oppone all’idea che la croce uncinata sia spuntata per caso, come un fungo velenoso nel sottobosco. No, l’evoluzione economica, politica, religiosa, militare dell’Occidente, che trova un punto di svolta nel liberalismo, gli appare come un cammino necessario, anche se non scontato e meccanico, verso la meta della Soluzione finale hitleriana, dell’orrore.
Enzo Traverso prende le mosse da una questione essenziale, al centro del dibattito storico: la domanda cioè se l’Olocausto sia da considerarsi unico , oppure se possa essere paragonato ad altre tragedie genocide. La sua risposta, da un lato, è in linea con gli storici ortodossi: lo sterminio programmato di Auschwitz è stato un evento unico nella storia. Ma, d’altro lato, la tragedia delle camere a gas si presenta ai suoi occhi come l’epilogo di una storia comune agli europei, anzi come una specie di sottoprodotto dell’«impresa capitalistica occidentale». I luoghi in cui sarebbe stata avviata la «disumanizzazione e l’industrializzazione della morte»? La fabbrica, l’esercito, la prigione. Gli strumenti di quella che poi sarebbe diventata la tecnica di sterminio? La catena di montaggio secondo «il modello fordista», le ferrovie, i mezzi di comunicazione di massa, gli eserciti meccanizzati, le scoperte scientifiche compatibili con il razzismo eugenetico. Quest’ultimo punto ha un rilievo particolare, dal momento che nell’Olocausto si manifesterebbe un’idea della scienza e della tecnica per nulla arcaica, anzi in linea con «la cultura dell’Europa liberale del XIX secolo». Di più: «un ancoraggio profondo del nazismo nella storia dell’Occidente».
Il punto di vista radicale dello studioso non si può conciliare, naturalmente, con nessuna delle tradizionali interpretazioni storiografiche. Non con quella di Nolte, basata sull’idea di una «barbarie asiatica bolscevica» cui il nazionalsocialismo si sarebbe ispirato, sia pure per combatterla; non con quella di Furet, portato ad affiancare fascismo e comunismo nel campo dei regimi antiliberali e nemici dell’Occidente; e nemmeno con quella ben diversa di Goldhagen, che pur accusando di antisemitismo la società tedesca nel suo complesso, denuncia una «malattia nazionale germanica» che finisce per assolvere la grande cultura umanistica europea. No, nessuna di queste visioni (benché Traverso ritrovi in ognuna di esse una parte di verità) sarebbe in grado di spiegare un massacro «eseguito senza odio, grazie a un sistema pianificato di produzione industriale della morte». Ma se tutto questo è vero, entra in crisi naturalmente l’idea di unicità dell’Olocausto. Traverso non se lo nasconde. Se l’Occidente è il vero colpevole, se in una specie di libro nero della civiltà liberal-capitalistica potrebbero entrare anche le esecuzioni in massa degli armeni nell’impero ottomano e quelle dei bosniaci nella Jugoslavia, allora la stessa furia annientatrice di Hitler nei confronti non solo degli ebrei, ma anche di zingari e slavi, può essere interpretata come «guerra di conquista coloniale». Colpevoli gli europei, all’epoca degli imperi, di aver massacrato gli indigeni non disposti a sottomettersi; colpevoli i nazisti di aver sterminato i popoli europei ostili al Terzo Reich.
Visione suggestiva, quella proposta da Traverso. E anche legittima: non da oggi sono state identificate le radici secolari del male totalitario; è ormai classica la teoria che individua nelle trincee della grande guerra un prologo ai campi di concentramento. Soltanto, in questo affresco storico rischia di scomparire il «gemello totalitario» del nazismo, il comunismo bolscevico. Impallidiscono le comuni radici ideologiche (i Fichte, Rodbertus, Lassalle) che la grande critica liberale ha indicato dai tempi di Hayek. E si pongono interrogativi di fondo anche sul nazionalsocialismo. Se Hitler e i suoi gerarchi sono stati soltanto una variante impazzita della cultura europea, la loro colpa è in qualche modo spiegabile, se non giustificabile? E se esiste un legame tra le camere a gas e la bomba americana di Hiroshima, fra l’Inquisizione spagnola e le leggi di Norimberga, fra le crociate e l’operazione Barbarossa di Hitler contro l’Unione Sovietica, tutto alla fine rischia di rimandare a qualcos’altro. Come in un gioco di specchi, in cui diventa sempre più difficile, forse impossibile ritrovare il filo della verità. (Corriere della Sera, 12 aprile 2002)

 

pallanimred.gif (323 byte) La rivoluzione, il terrore, la guerra, di Robert Conquest, Mondadori, pagine 377, euro 18,20

Adorato in vita da milioni di sudditi ben al di là del suo regno diretto, l’Unione Sovietica, tra le masse e gli intellettuali occidentali «d’avanguardia», temuto da amici e nemici, odiato da chi ne era vittima reale o potenziale, anatemizzato dai suoi successori al potere, suoi ex devoti, Stalin ha dominato la scena europea e mondiale per più di un quarto di secolo. Oggi, a mezzo secolo dalla sua scomparsa, resta l’enigma della sua figura: genio, come lo esaltavano i suoi adepti, o mediocrità, come lo definì il suo maggior avversario, Trotskij? Rivoluzionario conseguente o traditore della rivoluzione? Antifascista massimo, vincitore di Hitler, o tiranno della stessa risma del Führer? Comunque si tenda a risolvere questo nodo di questioni, magari senza optare né per l’uno né per l’altro corno dei dilemmi, ma considerandoli dialetticamente momenti di una medesima realtà, la biografia di Stalin, come la storia della sua epoca, è impressionante e induce molti a ripercorrerla. Dopo vari tentativi fatti quando Stalin era in vita (importante resta l’opera di Boris Souvarine) e in questi ultimissimi anni, quando vari materiali d’archivio sono diventati accessibili (va ricordata l’opera di Dimitrij Volkogonov), una nuova buona occasione è offerta da questo Stalin. La rivoluzione, il terrore, la guerra che si deve alla penna di uno storico della competenza di Robert Conquest, il cui nome è legato a opere «classiche» su momenti cruciali della storia sovietica.
Il libro di Conquest, che risale al 1991, al di là della sicura ricostruzione storica che ne fa una valida lettura per tutti, è fitto di problemi risolti (come quello della presunta collaborazione del giovane Stalin con la polizia zarista, tesi che Conquest non convalida) e aperti (come quello dell’implicazione diretta di Stalin nell’assassinio del dirigente comunista leningradese Serchej Kirov, nel 1934, tesi che Conquest condivide, mentre recenti studi russi la respingono o ne dubitano, pur riconoscendo, ovviamente, che Stalin sfruttò quel delitto per scatenare la sua campagna di persecuzioni contro i suoi avversari politici).
A parte queste e altre questioni particolari, resta quella centrale della figura e del ruolo di Stalin. Il giudizio di Conquest è fermamente, e fondatamente, negativo. Resta però un problema storico di carattere generale: i grandi dittatori del Novecento, così radicalmente diversi da quelli tradizionali, da Lenin a Stalin, da Mussolini a Hitler, da Mao Tsetung a Pol Pot, come devono essere «decifrati» alla luce delle idee, degli ideali, delle ideologie di cui furono i portatori e che li resero idoli di culto per moltitudini non meno che per élite ?
A questa domanda lo stesso Conquest ha tentato di rispondere nel libro Il secolo delle idee assassine (Mondadori), ma il campo resta aperto ad altre ricerche e soluzioni. (di Vittorio Strada, Corriere della Sera, 16 marzo 2002)

 

pallanimred.gif (323 byte) Piazzale Loreto, di Silvio Bertoldi, (Rizzoli, pagine 276, lire 32.000, euro 16,52)

Ferruccio Parri definì lo scempio di piazzale Loreto «un’esibizione da macelleria messicana». Sandro Pertini, che pure, incrociando il dittatore in fuga, la sera del 25 aprile, sulle scale dell’Arcivescovado, aveva detto che l’avrebbe volentieri ucciso con le sue mani, commentò: «L’insurrezione si è disonorata». E Indro Montanelli, andato a vedere di persona facendosi largo a fatica in mezzo alla fiumana di bandiere rosse, scrisse: «Lo spettacolo, che mi ha lasciato addosso un vago senso di vergogna, mi insegna cos’è la piazza quando si ubriaca di qualche passione e mi ispira un odio profondo verso tutti coloro che cercano di ubriacarla». L’esposizione con oltraggio (ferite, sputi, dileggio) dei cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e di alcuni gerarchi e militari resta tra gli avvenimenti italiani più emblematici del secolo da poco concluso e forse il più emblematico in assoluto.
Non per l’importanza storica in sé, accessoria rispetto ai fatti precedenti, ma per l’eccezionale forza di rappresentazione: violenza, furore, crudeltà, la più bestiale cancellazione del fascismo, il brutale epilogo della guerra civile e il via alla prosecuzione dello scontro, in forma ancora sanguinosa, poi sorda e sotterranea, che ha lasciato nel Paese la profonda divisione mai completamente superata. Fa bene, dunque, Silvio Bertoldi, che ha dedicato costante attenzione alle vicende del ventennio e della Repubblica di Salò, a tornare con il nuovo saggio (intitolato, appunto, Piazzale Loreto ) a questa pagina cruciale.
Furono i comunisti a volere la pubblica esecrazione delle salme (non espressamente lo scempio, lasciato all’iniziativa popolare). E fu probabilmente Luigi Longo, lo stesso dirigente che per Mussolini aveva raccomandato un’esecuzione «senza processo, senza teatralità, senza frasi storiche», il più possibile oscura nella dinamica e sufficientemente rapida da bruciare sul tempo gli Alleati e le componenti moderate del Cln, a scegliere, invece, per il dopo-esecuzione pubblicità, coralità, platealità: insomma, come si direbbe oggi, la massima visibilità. Tutti dovevano sapere, verificare, prendere atto, anche in maniera tangibile, della sconfitta irrimediabile, della punizione esemplarmente comminata, del nuovo corso proclamato dai vincitori. E anche la scelta del luogo, è noto, conteneva un valore simbolico: rappresaglia, anzi rappresaglia della rappresaglia, perché proprio lì, nell’agosto dell’anno prima, i nazifascisti avevano giustiziato quindici detenuti politici per vendicare a loro volta un attentato dei Gap.
L’autore racconta come se fosse in presa diretta il giorno dell’obbrobrio (29 aprile 1945), da quando il partigiano Valerio, Walter Audisio, fece scaricare nella notte in un angolo del piazzale deserto i corpi portati dal lago di Como, ammucchiati sul cassone di un camion (quindici, come il numero delle vittime del 1944, più Mussolini, la Petacci e suo fratello Marcello), fino a quando, nel pomeriggio, per intercessione del cardinale Schuster, il neoprefetto Riccardo Lombardi pose termine al disumano spettacolo e i cadaveri, calati dalla tettoia del distributore di benzina cui erano rimasti appesi a testa in giù, furono sottratti alla folla. Una ricostruzione inevitabilmente cruda, ma al tempo stesso pietosa, come la mano del sacerdote che volle fermare con una spilla la gonna della giovane amante del Duce per evitare almeno che, nella posizione capovolta, fosse esposta all’ingiuria la sua intimità.
Piazzale Loreto segna il culmine del pathos, è la scena madre della tragedia e non può che rappresentare l’apice della narrazione. Silvio Bertoldi anticipa, quindi, opportunamente l’inizio del racconto, riconducendo la trama indietro d’una decina di giorni, esattamente al 18 aprile. Ed è la data giusta perché fu effettivamente quel giorno, nel momento in cui Mussolini si allontanò da Gargnano, lasciando la sua Repubblica fantoccio sul lago di Garda per raggiungere Milano, che il fascismo imboccò la strada del non ritorno, s’intrappolò nel definitivo vicolo cieco. Da allora, per una lunga settimana, soltanto confusione, incertezza, mancanza di strategie, trattative senza sbocchi, velleitari piani di resistenza, inutile ricerca di scappatoie, irrealizzabili tentativi di compromesso, opportunismi, viltà, tradimenti all’insegna del «si salvi chi può».
Poi, come una mannaia, il 25 aprile, a troncare le residue illusioni. Nessuna resa a condizioni, nessun ridotto in Valtellina, nessun esercito pronto a immolarsi. Fallito l’incontro con i rappresentanti del Cln e preso atto che i tedeschi avevano patteggiato per conto proprio, il dittatore, allo stremo nel fisico e nella mente, decise di fuggire. Forse verso la Svizzera, in realtà incontro alla morte. E che cosa accadde a Milano dopo il precipitoso abbandono di fascisti e nazisti? Bertoldi confuta la ricostruzione offerta nel dopoguerra dalla memorialistica del Pci e ratificata da larga parte della storiografia.
A Milano il 25 aprile non vi fu insurrezione popolare. Fino all’ultimo la gente, stanca di lutti e privazioni, esitò aspettando di conoscere lo sviluppo degli eventi e, allo scoccare dell’ora X, ogni motivo di ribellione svanì essendo scomparsi dal terreno i nemici. Rivolta, no, dunque. Rabbia, furore, ferocia, sì, ma quattro giorni dopo in piazzale Loreto.
(Corriere della Sera)

pallanimred.gif (323 byte) Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna. Impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti: 1943-2001, di Mimmo Franzinelli,   (Mondadori, pagine 418, euro 18,60)

Si dice «memoria rimossa», ma nel gennaio 1960 con un semplice timbro e una illegale scritta in burocratese, «archiviazione provvisoria», il procuratore generale militare, Enrico Santacroce, aveva in un colpo solo sepolto 695 fascicoli riguardanti le stragi naziste in Italia: una scia di sangue che dal settembre 1943 alla primavera del ’45 aveva accompagnato le truppe tedesche nella lentissima ritirata da Sud a Nord: da Castellaneta, in provincia di Taranto, a Bolzano. Quei documenti, che in molti casi contenevano nomi e cognomi dei responsabili tedeschi o italiani delle stragi commesse contro la popolazione civile, erano nascosti in un armadio con le ante rivolte verso il muro degli scantinati di palazzo Cesi, sede della Procura generale militare a Roma. L’accesso a quella remota stanza era protetto da un cancelletto chiuso con un lucchetto. A rompere, quasi involontariamente quel segreto che il dottor Santacroce si era portato nella tomba nel 1975, dopo sedici anni ininterrotti a capo della Procura generale militare, fu nell’estate 1994 il giudice Antonino Intelisano, che alla ricerca di prove a carico del capitano delle SS Eric Priebke, incriminato per la strage delle Fosse Ardeatine, incaricò i suoi collaboratori di setacciare ogni angolo possibile degli archivi.
Quei faldoni forse non furono determinanti nell’incriminazione di Priebke, ma hanno aperto sicuramente un capitolo nuovo nella storia dell’occupazione nazista in Italia, soprattutto per quanto riguarda le responsabilità personali delle stragi e la volontà politica negli anni del Centrismo e della Guerra Fredda di non perseguire i colpevoli. La Ragion di Stato, furono le conclusioni del documento approvato dalla Commissione Giustizia della Camera nel 2001, aveva prevalso sull’accertamento della verità.
Alla storia infinita del biennio di sangue ha ora dedicato un saggio molto documentato Mimmo Franzinelli, studioso del periodo fascista che si è già fatto conoscere per le eccellenti ricerche sull’Ovra: in «Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti», che Mondadori manderà in libreria domani, Franzinelli racconta questo grande giallo storiografico che ha come punto di partenza l’uccisione di almeno diecimila civili italiani, molti dei quali bambini, donne, vecchi o uomini per niente coinvolti con la guerriglia partigiana. Anzi, alcuni addirittura fascisti con tanto di tessera, ma considerati dagli estremisti di Salò e dalle SS troppo tiepidi verso il nuovo regime per restare in vita.
L’appassionato saggio di Franzinelli, accanto a una meticolosa ricostruzione storica dei fatti, pone alcune domande sull’uso politico della memoria e racconta i nuovi scenari, processi penali compresi, aperti dal ritrovamento di quei documenti nascosti in un armadio. L’occultamento della verità sulle centinaia di stragi naziste in Italia, argomenta l’autore, è stato favorito da una scelta fatta nell’immediato dopoguerra di concentrare il ricordo dell’orrore attorno agli episodi più eclatanti, soprattutto le Fosse Ardeatine, dove nel marzo 1944 furono giustiziate 335 persone come rappresaglia per l’attentato di via Rasella, e l’eccidio di Marzabotto, che costò la vita a circa ottocento civili.
Per un lungo periodo sugli altri sacrifici è calato un pigro silenzio, complice anche la scelta politica di favorire il pieno inserimento della Repubblica federale tedesca all’interno dell’Alleanza atlantica. Nel 1956 il ministro degli Esteri, Gaetano Martino, e quello della Difesa, Paolo Emilio Taviani, si opposero all’estradizione di una trentina di ufficiali responsabili degli eccidi avvenuti nell’autunno 1943 nell’isola di Cefalonia. Il sacrificio di cinquemila soldati della divisione Acqui veniva ignorato e intanto la Procura militare avviava contro gli ex ufficiali superstiti un procedimento per «cospirazione e insubordinazione», avendo «disobbedito agli ordini di «desistere da ogni atto ostile e di predisporre ai tedeschi la cessione delle armi pesanti». L’ex ministro Taviani, con coraggio e onestà intellettuale ammise poi le sue responsabilità: «Un eventuale processo per l’orrendo crimine di Cefalonia avrebbe colpito l’opinione pubblica impedendo, forse per molti anni, la possibilità per l’esercito tedesco di risorgere dalle ceneri del nazismo. Io sono stato uno dei precursori della necessità del riarmo della Germania».
Il giudice Santacroce, accentuando per la verità una linea di condotta già tracciata dai due predecessori, aveva fatto le cose per bene. Non aveva occultato tutti i fascicoli, ma negli anni ne aveva mandati almeno 1300 alle procure territoriali competenti. Peccato che si trattasse di documenti senza testimonianze probanti. Quelli più pericolosi, con nomi, cognomi, descrizioni circostanziate, giacevano nel sempre più polveroso armadio. Ma il casuale ritrovamento del ’94 ha agevolato l’apertura di quattro importanti processi: uno a Roma contro Priebke; due a Verona contro Theodor Saevecke (responsabile dell’eccidio di piazzale Loreto a Milano) e Friedrich Engel (capo delle SS a Genova e organizzatore delle stragi in Liguria); infine uno a Verona che si è concluso con la condanna all’ergastolo dell’SS ucraino Michael Seifert, rifugiatosi in Canada dopo aver seviziato e ucciso con il suo camerata Otto Sein decine di prigionieri nel campo di prigionia di Bolzano.
Fra le stragi rimaste senza colpevoli e di cui finora si è parlato troppo poco, quella nel campo di prigionia di Fossoli, a due chilometri da Carpi, ricordato da Primo Levi con questi versi: «Io so cosa vuol dire non tornare. / A traverso il filo spinato / ho visto il sole scendere e morire». Centro di smistamento per ebrei, politici, detenuti comuni in attesa di esser deportati nei Lager del Reich, il 12 luglio 1944 a Fossoli furono trucidati 67 prigionieri come ritorsione per l’uccisione a Genova di tre, o sei, soldati tedeschi. Una rappresaglia completamente immotivata perché condotta contro prigionieri inermi e in un’area lontanissima dal luogo degli attentati. A Fossoli, in quell’alba d’estate andarono a morire insieme il cinquantenne Giovanni Bertoni, truffatore doppiogiochista scaricato dai fascisti che nel carcere di San Vittore si era presentato al prigioniero Indro Montanelli come generale Della Rovere, incaricato da Badoglio di allestire una rete cospirativa al Nord, e il vero inviato del governo del Sud, il capitano di fregata Jerzy Sas Kulczycki. Il povero Bertoni nel dopoguerra fu depennato dall’elenco dei martiri da Fossoli, ma è l’unico ucciso nel poligono di tiro a Carpi di cui gli italiani si ricordino ancora, grazie al romanzo di Montanelli e alla straordinaria interpretazione di Vittorio De Sica nel film di Roberto Rossellini. (Corriere della Sera, 11 febbraio 2002)

 

pallanimred.gif (323 byte) Fossoli: transito per Auschwitz. Quella casa davanti al campo di concentramento, di Danilo Sacchi, Editrice La Giuntina, 346 pagine, 15 euro

Il campo di concentramento di Fossoli, una frazione a nord di Carpi, in provincia di Modena, venne istituito nel 1942 lungo la vie Remesina come campo per prigionieri di guerra inglesi e, dopo il 1943, fu occupato dalle truppe naziste e funzionò per un anno come centro di smistamento per l'Italia di deportati destinati ai campi di lavoro e di sterminio nazisti. Il campo era diviso in due: il "campo vecchio" - il nucleo originario nel quale erano internati i prigionieri della Repubblica Sociale Italiana non destinati alla deportazione - e il "campo nuovo", gestito da un nucleo di Ss tedesche nel quale erano internati ebrei e prigionieri politici destinati alla deportazione.
Tra il settembre del 1943 e l'agosto del 1944, furono circa cinquemila le persone che dal campo di Fossoli vennero deportate ad Auschiwtz, Mauthausen e altri lager nazisti. Tra questi c'era anche Primo Levi che ricorda la prigionia a Fossoli nelle prime pagine del libro Se questo è un! uomo. Ora un libro racconta la storia di quel campo, vista e vissuta da una famiglia di contadini che si ritrova all'improvviso davanti all'impensabile, "perché un campo di concentramento può significare da solo, per chi vi abita di fronte, tutto lo sconquasso e il soffrire di una guerra". Una storia che rivive soprattutto attraverso i ricordi, le domande e le angosce di chi allora era bambino. "Questa è una storia del campo di Fossoli costruito davanti a casa nel 1942: la storia di coloro, soldati e civili, uomini e donne, che hanno sostato tra queste baracche e questo filo spinato prima di proseguire verso Auschwitz e altri lager nazisti. Ma è anche la nostra storia, di gente contadina abituata a un vivere antichissimo nella campagna silenziosa e solitaria, un vivere d'improvviso sconvolto dalla costruzione di un campo di concentramento che soprattutto stupiva e cambiava chi era bambino. Come me". Così Danilo Sacchi - nato a Carpi nel 1936 - introduce il libro del quale è autore: Fossoli: transito per Auschwitz. Quella casa davanti al campo di concentramento (Editrice La Giuntina, 346 pagine, 15 euro). (Il Manifesto 12 febbraio 2002)

 

pallanimred.gif (323 byte) «Dizionario della Resistenza», volume secondo, a cura di Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi, Einaudi, Torino 2001, pagine 881, lire 130.000, 67,13

Giunge in libreria in questi giorni il secondo, e conclusivo, volume del Dizionario della Resistenza curato per la casa editrice Einaudi da Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi. Il libro, comprensivo di un imponente apparato di indici, è suddiviso in sezioni tematiche, strutturate secondo lemmi disposti in ordine alfabetico. Siamo dunque di fronte a un’opera di consultazione, che riassume una bibliografia fattasi ormai smisurata. Qui sta il pregio del volume, ma qui sta anche una ragione di perplessità, nel senso che l’opera riflette per ciò stesso alcuni limiti generali di questa produzione. Negli ultimi decenni, grazie anche alle iniziative di una miriade di Istituti per la storia della Resistenza diffusi nella Penisola, vi è stata una gran mole di saggi, monografie e convegni su ogni avvenimento riguardante la lotta partigiana. Un dizionario della Resistenza avrebbe dovuto fare esplicitamente i conti con certi caratteri di questa produzione. In mancanza di un tale ripensamento critico, l’opera finisce con l’assorbire i limiti degli studi particolari sui quali si appoggia, spesso segnati, come ammette Claudio Pavone, da un "municipalismo agiografico e/o erudito" che ricorda quello delle vecchie società di storia patria.
E’ anche per questo carattere di tanti studi sulla Resistenza che, da una produzione storiografica pressoché sterminata, non è ancora scaturita una sintesi aggiornata e affidabile: qualcosa di paragonabile, come opera d’insieme, alla vecchia «Storia della Resistenza italiana» di Roberto Battaglia, ma al contempo priva del marcato carattere polemico e politico che il testo di Battaglia (pubblicato nel 1953 dopo essere passato attraverso la "ripulitura" effettuata da Luigi Longo) aveva.
Un vero ripensamento critico avrebbe anche richiesto di inserire la Resistenza italiana, e la ricostruzione delle azioni partigiane per singole località che il libro mette a nostra disposizione, in un quadro generale più consapevole dei limiti obiettivi che sulla Resistenza esercitava lo status di Paese sconfitto e dunque gli orientamenti degli angloamericani. Ma la sezione dedicata da questo volume al tema Alleati e Resistenza ha uno spazio quasi ridicolo (15 pagine): ad esempio, vi si accenna appena agli accordi del dicembre 1944 tra i rappresentanti del Clnai e il comando alleato che avrebbero invece meritato un'apposita voce, poiché quegli accordi posero precisi confini a ciò che poteva o non poteva fare la Resistenza italiana. Tenerli in adeguata considerazione aiuterebbe a lasciarsi definitivamente alle spalle quella che Enzo Forcella chiamò la "storia sacra" della Resistenza.
La presenza di certi difetti di carattere generale non toglie che poi molte singole voci del Dizionario siano ben fatte e cerchino di superare vecchi tabù. Ma si ha a volte la sensazione di un oscillare tra lo sforzo di rinnovamento e il riemergere di vecchie tesi e vecchi pregiudizi. Così, se il volume contiene una buona voce su Porzûs, cioè sul massacro di appartenenti alla brigata Osoppo per mano di partigiani comunisti, contiene pure una voce sulla brigata Osoppo medesima nella quale si dice soltanto che i comandanti della brigata vennero "arrestati" a Porzûs. Non meno sorprendente, nella sezione dedicata ai partiti antifascisti, quel che leggiamo a proposito della "svolta di Salerno", con cui il Pci accettava nel marzo 1944 di collaborare con il governo Badoglio e rinunciava alla pregiudiziale antimonarchica. Dopo l’apertura degli archivi sovietici è stato precisamente documentato il ruolo di Stalin nel determinare quella svolta, per considerazioni attinenti gli interessi dell’Urss. Ma la voce qui dedicata al Pci ripropone la consueta, agiografica versione di una "svolta di Salerno" frutto dell’autonoma iniziativa di Togliatti.
Tra gli aspetti negativi del libro dobbiamo infine registrare anche un’incredibile affermazione di Giorgio Rochat che, nell’appendice statistica, bolla come appartenente alla "pubblicistica neofascista" un recente manuale di storia scritto per la Nuova Italia da Roberto Vivarelli, probabilmente perché ai suoi occhi questi è reo di aver aderito a quindici anni alla Repubblica di Salò. Scomunicare gli altri è davvero uno dei cattivi retaggi del nostro passato del quale avremmo preferito non trovare traccia in un’opera che per giunta aspira ad essere di alta divulgazione (a cura di Giovanni Belardelli, Corriere della Sera, 21 novembre 2001)

pallanimred.gif (323 byte) «I giovani di Mussolini» di Aldo Grandi, Baldini & Castoldi, 2001, pagine 376, lire 30.000 (euro 15,49)

«Fu una generazione che visse esperienze d’ogni genere: dal carnevalesco alla tragedia, dalla comicità alla ferocia, dalla banalità alla sofferenza». Così Mario Tobino descrisse la sua giovinezza e quella dei coetanei, italiani nati negli anni Dieci e Venti cui toccò studiare, crescere, conoscere la vita durante il fascismo. In divisa sin quasi dalla culla: balilla, avanguardisti, poi «gufini»(per chi arrivava all’università). Sotto la cappa di conformismo - le sfilate, la retorica, la mancanza d’informazione - i ragazzi del duce non ebbero reali alternative. Ma all’interno del regime come si sentivano: costretti, trascurati, prigionieri oppure spensierati, impegnati e magari anche orgogliosi? Ci fu qualche circostanza che cominciò ad alimentare i loro dubbi? Riuscirono mai ad aprire gli occhi? Oggi sarebbe impossibile raccogliere un quadro organico di risposte perché la maggioranza dei testimoni non c’è più. Ma Aldo Grandi, giornalista con la passione della ricerca storica, già autore di interessanti biografie, ha avuto la curiosità e la previdenza di porre le domande giuste quindici-vent’anni fa. E il suo nuovo libro, intitolato I giovani di Mussolini , raccoglie una quarantina di quelle interviste.
Ne esce un ritratto completo della generazione più sfortunata del secolo, come la definì Montanelli. Anzi, poiché si tratta di confessioni, ricordi, rimorsi, rimpianti, un corale, straordinario autoritratto. Salvo pochissime eccezioni, gli ex giovani interrogati - dai fascisti inossidabili a quelli divenuti poi antifascisti - concordano che le leve degli anni Dieci e, ancor più, Venti non avevano alcuna possibilità di affrancarsi in partenza.
Giorgio Almirante: «Eravamo dei conformisti e quindi non sentivamo particolari bisogni di cambiamento, o almeno io non li sentivo». Ugo Indrio: «Ci credevo senza neanche riuscire a immaginare alcunché di diverso». Enzo Forcella: «Il rapporto che si stabilì fu quasi un rapporto di natura. Il fascismo c’era, non lo si metteva in discussione. Era il potere». E Marcello Merlo, in maniera illuminante: «Vivevamo in una specie di nebbia talmente diffusa che si finiva per confonderla con il sereno».
Attraverso quella coltre di proclami e promesse, i ragazzi del Ventennio credevano, in effetti, d’intravedere i bagliori del sole. A parte l’indiscutibile ascendente esercitato da Mussolini, varie potevano sembrare le attrattive. Ad alcuni piacevano le pubbliche manifestazioni e la forte capacità di aggregazione del regime nei confronti dei giovani. Altri apprezzavano l’ordine e la sicurezza, valori, però, maggiormente sentiti dagli anziani. I più erano affascinati dalla prospettiva di un nuovo ruolo internazionale dell’Italia, che sarebbe diventata finalmente potente e rispettata. Commenta Vittorio Chesi: «C’era un’identificazione completa tra fascismo e patria».
Non che i meno fideistici tra i ragazzi non cominciassero qua e là a scorgere difetti, limiti, incongruenze. Ma contro l’incipiente spirito critico esistevano antidoti spontanei quanto efficaci. Uno consisteva nel giudicare ogni sbaglio alla stregua di semplice errore di trasmissione, un’inefficienza indebitamente frappostasi lungo la catena di comando, forse persino un tradimento della volontà del duce (Ernesto Treccani: «Non era il fascismo a essere messo in discussione, ma il modo in cui veniva applicato»). Un altro canale, praticatissimo, d’indulgenza s’alimentava nelle molteplici interpretazioni del fascismo. Ognuno s’illudeva di poter influire sull’obiettivo finale secondo le personali preferenze. Importanti in questo senso erano i Littoriali, che gli universitari, affascinati dai rari gerarchi intellettuali come Bottai, percepivano quale autentica occasione di dibattito. Sulle annuali competizioni culturali il libro di Grandi sollecita aneddoti e ricordi. Spicca l’esperienza di Attilio Bertolucci, secondo nella gara di poesia, dietro Sinisgalli, presentato dal Guf Milano con un trucco sull’età, e davanti a Pietro Ingrao, favorito ufficiale per una lirica sulla bonifica pontina.
Ma uscire davvero dal cerchio era maledettamente difficile. Solo uno degli intervistati, Vindice Cavallera, nato nell’11, fa risalire al delitto Matteotti la sua rottura («Ispirato dalla storia antica, mi sentii spinto a imitare Annibale e giurai che non avrei mai dimenticato e avrei sempre combattuto contro i fascisti»).
In verità, fu soltanto parecchio più tardi, con le leggi razziali, che una parte della popolazione giovanile subì il primo profondo disinganno. E, tuttavia, ancora una parte relativamente esigua. La maggioranza aprì sul serio gli occhi solo durante la guerra, quando constatò senza appello l’improvvisazione, l’impreparazione, la malafede di chi aveva mandato il Paese al massacro. Ma a quel punto ai ragazzi del duce avevano già affibbiato l’ennesima divisa, quella di soldati, che per molti avrebbe significato la morte (a cura di Ettore Botti, Corriere della Sera, 16 ottobre 2001).

pallanimred.gif (323 byte) «Memorie» di Amelia Rosselli, il Mulino, Bologna 2001, pp. 288, lire 35.000, euro 18,08

E’ stata la prima donna in Italia a scrivere per il teatro ottenendo subito, sul finire dell’Ottocento, un «successo strepitoso», prima con Anima , poi con Illusione (e se i titoli fan sorridere tanto sono tipici dell’epoca, per nulla convenzionali, anzi quanto mai moderni e intellettualmente audaci sono i contenuti), seguite da altre opere e un’ampia pubblicistica di respiro internazionale. Però nessuna storia letteraria ne serba traccia. Di questo si duole, soprattutto, la curatrice delle sue Memorie che escono oggi, integralmente, per la prima volta: restituirle l’identità e l’onore di «autrice autonoma» è il pregevole intento, più volte sottolineato, di Marina Calloni, che all’impresa di ricucire gli scritti autobiografici e darli alla stampa s’è dedicata per lunghi anni con competenza pari alla passione. Fatica in gran parte vana. Quando una è la madre di Carlo e Nello Rosselli, trucidati da sicari fascisti in Francia nel ’37 - e pure di Aldo, il primogenito, caduto anch’esso «per la patria» nella Grande Guerra - non può sfuggire all’esser nota e «concepita come "la madre" di...». È vero, Amelia Rosselli è un’ottima scrittrice, come s’evince anche dalle memorie, ma lei stessa in una lettera a un’amica nel ’38 riconosce questa ineluttabilità, e anzi la vuole: «Mi sembra un assurdo sacrilegio parlare di me , in un momento come questo», quando una tempesta tremenda sembra travolgere ogni ideale e «lasciare ritte sull’orlo dell’abisso soltanto le figure - sempre più giganteggianti - di chi già pagò con la vita la fede a quelle alte idealità». E prosegue: «Tra queste immense figure ci sono quelle dei miei figli: e io non sono più niente, se non la loro mamma».
Non è ancora mamma, o per lo meno non ha ancora perso i due figli minori quando scrive (pare nei primi anni ’30) la prima parte, da lei intitolata Balconi sul Canal Grande : qui racconta la sua infanzia veneziana (era nata nel 1870) e qui emerge la sua bravura di scrittrice di teatro. Il racconto procede molto per dialoghi diretti (spesso in veneziano), le scene si succedono come su un palcoscenico, le figure entrano ed escono come da quinte. E lei, Amelia, si descrive bimba birichina quanto tenera e descrive parenti, domestici, vicini di casa, conoscenti con grande vivacità e pure grande divertimento. È la parte più «teatrale» in senso tecnico delle Memorie , e pure la più disimpegnata.
Già qui, però, le alte idealità ci sono, e prepotenti: il Risorgimento è vicino, c’è ancora chi ha partecipato al tragico e glorioso assedio di Venezia da parte degli austriaci del 1849, quello - come ricorda la Rosselli stessa - de «...il morbo infuria, il pan ci manca...». Lei, nata Pincherle, appartiene a una famiglia della buona società ebraica, di tradizione patriottica e repubblicana. Italiani e basta. E ferventi italiani. «L’orgoglio della nostra italianità... lo imparammo presto, noi giovani d’allora: ma quello di essere ebrei non lo imparammo mai». Solo più tardi, ben più tardi, per le persecuzioni nazi-fasciste, «sono stata costretta, attraverso un lungo e doloroso processo mentale, ad ammettere l’esistenza del problema ebraico».
Stesso ambiente da parte del marito, il musicista Joe Rosselli, imparentato con i Nathan - sempre ebrei - di Londra che protessero Mazzini nell’esilio.
Ma del matrimonio Amelia non dice. Il secondo pezzo delle sue memorie (scritto, pare, dopo il terzo, fra il 1943 e ’44, nell’esilio che fu prima svizzero e poi americano) parte da quando lei si stabilisce a Firenze, nel 1903, «già sola con i miei tre bambini» di 8, 4 e 3 anni. Si è dovuta separare legalmente dal marito, dopo dieci anni di felice matrimonio passati in gran parte a Vienna. Non dice il motivo: da una nota si apprende di una relazione del marito con un’altra donna. Forse ci fu altro, ma lei tace. Accenna solo, con discrezione e dolore. In questa parte, A Firenze , Amelia si dedica soprattutto a rievocare la figura di Aldo e l’infanzia di Carlo e Nello. E i propri metodi educativi: madre tenerissima, ma i riferimenti sono il dovere da compiere, l’allenarsi ad aver forza di volontà, il disinteresse... Nessuna sorpresa per noi, che leggiamo, che poi Carlo riveli (e lei pare quasi sorprendersene, quasi in soggezione) «un senso della vita così alto e austero» da parer religioso. E Nello non sia da meno, pur nel temperamento più portato allo studio che all’azione.
Non mollare , il titolo della rivista (presto soppressa) fondata poi dai due giovani, sarà un’idea di Nello, rivela la madre. E spiega: non cedere, resistere stando fermi, a testa alta, è il modo dell’antifascismo del minore dei Rosselli; fare, fare, agire è la modalità dell’altro, una diversità che Amelia coglie e descrive sin dall’infanzia dei due con finezza psicologica e nessun sentimentalismo «da madre».
Una madre che, pur tremando, mai dice ai figli di recedere, di lasciar correre dinanzi alle violenze fasciste. Specie nella terza parte ( La casa devastata , scritta forse nel 1940), dedicata alle figure adulte e all’inizio della militanza di Carlo e Nello, risalta questa sua figura di grande educatrice. Viene in mente la madre dei Gracchi: «ecco i miei gioielli». Ma lei lo dichiara, lo descrive quando li ha già persi, quando la sua tragedia di madre s’è compiuta interamente. Ha il cuore distrutto, ma lo dice, lo scrive in piedi.
«Lama d’acciaio in una guaina di velluto», «volontà di ferro in un involucro quasi diafano e trasparente», «grazia femminile su sottile sovrastruttura d’acciaio» la descrissero gli amici, tra cui Carlo Levi e Piero Calamandrei. Purtroppo lo scritto si ferma al ’27, con Nello che parte per il confino a Ustica (senz’alcuna imputazione) e alla vigilia del «glorioso processo» di Savona a Carlo (con Parri). Ma tanto basta in certi punti a dare i brividi e commuovere: senza che Amelia Rosselli (rientrerà in Italia nel ’46 e morirà nel ’54) si conceda mai a effetti retorici, a proclami, e men che mai ad autocommiserazioni. Fa cronaca perché vuole fare Storia, dunque scrive con rigore e dirittura di stile. Ma i fatti, e come è fatta lei, si impongono alla coscienza di chi legge. In un’«Italia dove si ride di tutto, anche nei momenti più dolorosi, il che eccita a sopportare ogni vergogna», l’Italia sua di ieri ma anche di oggi, di sempre forse, è lecito concludere suggerendo questo libro, così ben scritto e avvincente, come lettura per le scuole? (a cura di Serena Zoli, Corriere della Sera, 11 dic. 2001)

 

pallanimred.gif (323 byte) Camillo Berneri. Anarchia e società aperta, a cura di Pietro Adamo, 
Editore M & B Publishing, pagine 342, lire 28 mila, euro 14,46

Personaggio singolare e alquanto «scomodo», Camillo Berneri deve finora la sua pur limitata notorietà al fatto di essere caduto ucciso, durante la cruenta guerra di Spagna, a Barcellona nel 1937, per mano degli stalinisti. E invece, questo intellettuale lodigiano, nato verso la fine del diciannovesimo secolo, nel 1897, sempre inquieto e cercante, merita di essere meglio conosciuto attraverso l'intelligente antologia degli scritti, curata da Pietro Adamo per l’editrice M & B Publishing con il titolo Anarchia e società aperta .
Rispetto al vetero-anarchismo, massimalista, spontaneista (e sostanzialmente velleitario), Berneri non esita a autodefinirsi «un anarchico sui generis», perché aveva capito che non bastava combattere ogni forma oppressiva del potere, riempiendosi la bocca di vuote parolone; importanza essenziale doveva avere quella «concretezza» (appresa alla scuola di Salvemini) che gli faceva «condannare» la presunta Sua Maestà lo Stato ma gli imponeva, realisticamente, di battersi per fare «sopravvivere», anzi rivivere, la politica come nuova forma di società aperta, non più oppressa da tanti vecchi vincoli insopportabilmente autoritari (e da qui le sue proposte «liberatrici», per esempio in tema di questione femminile).
Anche nei confronti dei comunisti, allora succubi dei diktat moscoviti del dittatore Stalin, Camillo Berneri si rivela in queste circostanze un avversario severo: basta leggere, nel suo scritto del 1934 su L'operaiolatria , che feroce, tagliente confutazione sa fare dell’allora propaganda comunista, così rozzamente «classista».
«Il richiamo ai princìpi a me non fa né caldo né freddo» sosterrà un'altra volta; ma non si trattava di scetticismo spicciolo, quanto piuttosto di un robusto invito a guardare avanti, con spirito di indipendenza e coraggio, per contribuire a cambiare il mondo attraverso la responsabilità e il contributo di ciascuno di noi.
«La libertà umana - insisteva ancora Berneri - è capacità di sorpassare ostacoli, interni o esterni».
Dovremmo ricordarcelo un po' più spesso anche noi (a cura di Arturo Colombo, Corriere della Sera, 22 dic. 2001)

 

 






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