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Le stragi tedesche

    Stragi naziste e fasciste e "guerre ai civili" dei nostri giorni

di Antonio Parisella

Alla memoria di Cesare De Simone,cronista giudiziario e scrittore, che concepiva il suo lavoro come un appassionato contributo alla ricerca di verità

La vicenda della cosiddetta "archiviazione provvisoria" da parte della procura generale militare dei procedimenti per le stragi naziste e fasciste è stata ricostruita – su basi documentali e testimoniali – dal Consiglio della magistratura militare con una relazione approvata il 23 marzo 1999. Oggi essa costituisce il documento base per ogni intervento e per ogni riflessione su questo tema. Essa individua i tempi e i modi in cui vennero commesse irregolarità ed omissioni nonché gli uffici e i titolari di essi sui quali gravano le responsabilità di averle compiute.

Quanto alle responsabilità politiche, individuarle non poteva essere compito di quell’organismo, ma di un organismo parlamentare. La relazione, tuttavia, ha indicato precise circostanze di tempo che permettono di risalire ai responsabili politici dei dicasteri interessati: le "archiviazioni provvisorie" risalgono, infatti, al biennio 1958-60; negli anni 1965-68 ben 1250-1300 fascicoli vennero trasmessi dalla procura generale militare alle procure militari territoriali, ma si trattava – per lo più – di procedimenti nei quali – per il passare del tempo – non era più possibile individuare i responsabili. È a questa fase che dovrebbe farsi riferimento particolare per cercare di comprendere chi agì per la dimenticanza e perché.

A questa ricerca – a integrazione di quanto Franco Giustolisi ha meritoriamente scritto sia su L’Espresso, sia su Micromega – ho il dovere di recare un elemento di verità riferendo quanto mi testimoniò Paolo Emilio Taviani, già ministro della difesa prima di quel periodo e poi ministro dell’interno nella fase successiva: con lui ho avuto la fortuna di intrattenere rapporti di collaborazione, soprattutto nell’ambito del Museo storico della Liberazione (Roma, Via Tasso), che aveva risollevato dal declino e dall’oblio e alla presidenza del quale volle che fossi io a succedergli.

Come già aveva fatto quando fu intervistato da Giustolisi e come confermò nelle sue memorie, egli rivendicò pienamente e con onestà la responsabilità di avere concordato nell’ottobre 1956 con il ministro degli affari esteri Gaetano Martino di evitare di richiedere, in quel momento, l’estradizione di uno dei responsabili della strage dei militari italiani a Cefalonia del settembre 1943. Egli sottolineava: "in quel momento e per quell’evento soltanto". Ricordava e invitava a considerare che si era non solo genericamente in anni di "guerra fredda", ma nel pieno di una duplice crisi internazionale nei rapporti tra Est e Ovest, con la guerra di Suez da un lato e la rivolta d’Ungheria dall’altro. Con le truppe e i carri armati sovietici a poco più di 200 km da Vienna, il ruolo militare delle forze armate della Repubblica federale di Germania (la cui ricostruzione era ostacolata anche all’interno dell’opinione pubblica di quel paese) era considerato assolutamente necessario per le politiche di difesa dei paesi dell’Europa occidentale. Lo svolgimento di un processo per crimini di guerra ad ufficiali delle forze armate tedesche – secondo il ministro degli affari esteri italiano – avrebbe potuto "alimentare la polemica sul comportamento del soldato tedesco". A tale giudizio politico Taviani aveva aderito pienamente e consapevolmente e restava convinto di aver preso una decisione saggia e nell’interesse dell’Italia, dei suoi alleati e di quella particolare pace basata sulla capacità di dissuasione (da altri definita "equilibrio del terrore") che era caratteristica dell’età della di "guerra fredda".

Personalmente – come forse anche molti fra i presenti – ho partecipato numerose volte a manifestazioni contro la NATO e sostenuto politicamente per l’Italia delle posizioni di "neutralità attiva" (come tanti nostri maestri, quali Ferruccio Parri, Gerardo Bruni, Piero Calamandrei, Enzo Enriques Agnoletti, Arturo Carlo Jemolo, e tanti altri): tuttavia, come studioso di storia che si sforza di comprendere il passato nella sua integralità attraverso documenti e analisi delle circostanze, anche quando questo va contro le nostre scelte e le nostre convinzioni, debbo dire che quel comportamento di Gaetano Martino e di Paolo Emilio Taviani – facendo valere esigenze che erano ritenute primarie per l’interesse nazionale e statale della Repubblica italiana – era in coerenza non solo con le loro scelte personali, ma anche con quelle dei loro partiti (rispettivamente PLI e DC), della maggioranza parlamentare e dei governi della Repubblica da essa espressi.

Come sanno tutti coloro che sono stati in qualche modo partecipi della vita politica italiana dopo 1960 o che l’hanno studiata con attenzione, conoscendo l’attività successiva di Taviani e il ruolo che in essa ha avuto l’antifascismo, non possono dubitare sulla lealtà e sulla sincerità con la quale egli – valoroso comandante partigiano ed esponente del CLN di Genova, presidente della FIVL, organizzazione dei partigiani non di sinistra – dichiarava di non essere stato al corrente delle archiviazioni e che, qualora lo fosse stato, ad esse si sarebbe opposto, anche perché successivamente erano gradualmente venute meno alcune delle ragioni della sua decisione del 1956. Tra l’altro, non va dimenticato che nella sua attività partigiana egli, almeno due volte, era scampato a rastrellamenti preliminari a stragi nelle quali erano stati uccisi suoi compagni di lotta.

Vi è un altro elemento sul quale va resa nota la testimonianza di Taviani e che è strettamente legato con la ricerca delle responsabilità delle archiviazioni. Egli mi disse che – diversamente da quanto in un primo momento aveva dichiarato a Franco Giustolisi – aveva verificato bene il comportamento di Randolfo Pacciardi – leader repubblicano "storico", antifascista anticomunista – suo successore al ministero della difesa, finendo per convincersi che non aveva avuto alcun ruolo decisivo nella vicenda. Si sarebbe dovuto – allora – scandagliare meglio su quanto era avvenuto in seguito, analizzando l’operato di diversi ministri e sottosegretari alla difesa e, in particolare, i rapporti tra dirigenza politica ministeriale e vertici della magistratura militare: quest’ultima, sottolineava, temeva fortemente l’abolizione dei tribunali militari o un forte ridimensionamento del suo ruolo, in armonia e in applicazione del dettato della Costituzione. Mi aggiunse che egli non era a conoscenza di fatti specifici e di coinvolgimenti diretti di persone, nel qual caso – come per altri eventi – non avrebbe esitato a renderli noti nelle sedi competenti, giudiziarie e/o parlamentari: erano l’esperienza consolidata e la riflessione accurata a spingerlo a formulare tale ipotesi.

Ho dedicato spazio a questo aspetto perché mi sembra che esso trascenda il caso puramente personale e – dal punto di vista del metodo – sia indicativo della necessità di valutare politicamente l’attività delle persone in relazione a tutte le circostanze e a tutti gli elementi che ne condizionano e ne motivano i comportamenti.

Vorrei, ora, accennare brevemente a due altri aspetti che entrano di più nel merito della questione.

Il primo è quello della necessità di non fermarsi ai soli fascicoli della procura generale militare. La realtà che essi presentano e già, di per sé, impressionante:

1 – Notizie complessive di reato registrate 2274

2 – Fascicoli trasmessi nel dopoguerra alle procure militari territoriali 19

3 – Fascicoli trasmessi all’autorità giudiziaria ordinaria (reati non militari) 270

4 – Fascicoli trasmessi alle procure militari territoriali nel 1965-68 (in genere contro ignoti) 1250-1300

5 – Fascicoli trasmessi alle procure militari territoriali nel 1996 695

Tra essi, contro ignoti 280

Tra essi, contro identificati 415.

Oggi, quindi, noi ci mobilitiamo sdegnati – di fatto – contro la vergogna dell’ insabbiamento di 415 procedimenti su un totale di 2274 notizie di reato.

Nel 1996 Livio Fumiani e Tristano Matta pubblicarono una Carta delle principali stragi nazifasciste nell’Italia occupata 1943-1945, che indicava i luoghi di circa 400 stragi con oltre 8 morti. Nello stesso periodo, con Cesare De Simone avevamo discusso a lungo per predisporre un progetto più ampio di ricerca che, per lui, doveva riguardare i massacri, ulteriormente distinti in eccidi e stragi.

"Per quanto attiene al dato fondamentale da rilevare – scriveva Cesare De Simone – (il massacro come crimine di guerra delle truppe naziste o delle formazioni di Salò) si è convenuto di procedere sulla base della definizione giuridica che ne dà la magistratura militare – sia italiana che straniera – che negli anni dal 1945 al 1949 ha processato alcuni dei maggiori responsabili (in particolare: processi Kappler e Mackensen a Roma; processo Kesselring a Trieste; processo Reder a Bologna; processo per la strage di Oradur sur Glane in Francia; processo per la strage di Kalamatis in Grecia; processo di Karkov in Urss). Viene definito eccidio l’uccisione da 2 a 4 persone; viene definita strage l’uccisione da 5 persone in su".

Ma, secondo lui, andava individuata meglio e con precisione la tipologia di episodi ai quali riferirsi.

"Per quanto attiene alle modalità del massacro – aggiungeva Cesare De Simone – anche qui il rilevamento si attiene alla definizione giuridica del crimine di guerra che è stata messa a punto dal processo di Norimberga del 1946 comprendente, tra l’altro e per i casi che attengono al nostro rilevamento: a) l’uccisione di civili per rappresaglia ad azioni di guerra del movimento partigiano; b) l’uccisione preventiva di civili per esigenze di carattere militare; c) l’uccisione di civili per motivi razziali e/o per vendetta; d) l’uccisione di partigiani e/o prigionieri di guerra catturati in combattimento e/o in azioni di rastrellamento; e) l’uccisione di ostaggi per motivi di rappresaglia e/o razziali e/o di vendetta"

Per quanto mi riguarda, pur aderendo nel caso concreto a tali limiti, continuavo e continuo ad essere convinto che l’indagine debba estendersi anche a quello stillicidio di uccisioni individuali determinate da ragioni analoghe, o anche a quelle di persone estranee a precisi atti di guerra uccise dopo un sommario giudizio di un organo più o meno improvvisato di giustizia militare.

Avevamo stimato che – rispetto alla cifra dell’elenco di Fumiani e Matta – il numero degli episodi da considerare sarebbe almeno raddoppiato, se non triplicato. E va ricordato che – eccezion fatta per la Sardegna, dove non vi fu occupazione nazista – pressoché tutte le regioni italiane, dalla Sicilia al Trentino, Friuli e Valle d’Aosta hanno conosciuto episodi di massacri. Ora l’ipotesi è che – nella versione più ampia – il numero complessivo finirebbe per riguardare almeno il quintuplo dei casi, se non di più.

Nonostante questo ampliamento, ci troveremmo di fronte solo ad una parte delle morti dovute a cause "non naturali". Ritengo, infatti, che l’ "armadio della vergogna" costituisca solo la punta di un iceberg la cui massa sia ancora sommersa e inesplorata.. Bisognerebbe, infatti, non limitarsi a considerare le sole notizie di reato di competenza dell’autorità giudiziaria militare. Ben 260 di quelle giunte alla procura generale militare erano per reati di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria: erano il 10% del totale dei procedimenti dell’ "armadio della vergogna" e circa il 60% di quelli contro persone identificate. Dovrebbero esistere – se così vogliamo continuare a chiamarli – altri "armadi della vergogna" in alcune città sedi di tribunali e anche altrove. A tale riguardo, vorrei – infatti – ricordare che le norme anagrafiche richiedevano/ono che per registrare morti dovute a cause "non naturali" era/sia necessario un provvedimento delle procure del re/della repubblica e che le procure decidevano/ono sulla base di indagini della polizia giudiziaria (in genere, per la loro diffusione sul territorio, all’epoca, soprattutto i carabinieri). Inoltre, in tutti i casi in cuii registri anagrafici dei comuni sono andati distrutti per causa di guerra, ufficiali d’anagrafe, carabinieri e procure si sono avvalsi dei registri delle parrocchie e/o di quelli degli ospedali e dei cimiteri, oltre che delle dichiarazioni giurati di testimoni diretti: così, nella maggior parte dei casi, sono state identificate le vittime di bombardamenti e cannoneggiamenti e di altri atti "normali" di guerra; così – ed esiste un’agghiacciante serie di riprese cinematografiche per i caduti delle Fosse Ardeatine - evidentemente, sono state identificate anche le vittime degli atti "non normali" di guerra, come le stragi, le esecuzioni sommarie, le rappresaglie e gli atti d’offesa contro i civili.

Questo insieme di cose mi ha spinto – in passato – a sostenere la proposta di Enzo Collotti di un’indagine sistematica sulla materia e a collaborare con Cesare De Simone a elaborare un progetto concreto presso la presidenza nazionale dell’ANPI e il comitato nazionale per il cinquantenario. Esso si è arenato dopo la morte di Cesare De Simone, mentre – con intenti e metodologie in parte diversi – un altro progetto è stato sviluppato e realizzato da un pool di gruppi universitari (Pisa, Bologna, Napoli, Bari) che su esso hanno realizzato anche un convegno internazionale a Bologna. Su entrambi oggi informano due appositi siti web.

Ma c’è qualcosa che mi fa ritenere necessario insistere perché anche in altre regioni si sviluppi la ricerca e perché si proceda in maniera più sistematica. Nel sito dell’università di Pisa esiste una cronologia di episodi registrati da Carlo Gentile (Operazioni antipartigiane, rappresaglie, stragi in Italia 1943-1945) attraverso la consultazione di fonti d’archivio tedesche, inglesi e americane, oltre che della relativa bibliografia specifica. Si tratta di solo 329 episodi, a volte di solo rastrellamento: quelli del Lazio, ad esempio, non arrivano a 20, a fronte degli oltre 120-130 episodi di uccisioni (anche individuali) che ho censito sulla base di pubblicazioni locali e dell’elenco riportato da Ricciotti Lazzero. Questo mi fa chiedere oggi a gran voce che si aprano tutti gli altri "armadi della vergogna", ovunque collocati, ma anche che – anche solo attraverso i censimenti delle lapidi e lo spoglio delle fonti e della pubblicistica locale – si compilino degli elenchi e dei repertori più analitici e più credibili.

Fare, a questo proposito, processi retrospettivi alla classe politica della Democrazia cristiana e degli altri partiti antifascisti o costituzionali del primo cinquantennio dell’Italia repubblicana mi interessa decisamente di meno – oggi – del conoscere l’esatta portata della "guerra ai civili" recata in Italia dai nazisti e dai fascisti nel 1943-45 (e, sia detto a scanso di ogni equivoco, anche di quella recata dagli italiani armati più o meno fascisti in Libia, Etiopia, Slovenia, Croazia, Albania e Grecia). Non si tratta di un’operazione di puro e semplice recupero di memoria offesa.

"Siamo dei combattenti, non degli assassini", era la divisa morale dei GAP romani quando i loro militanti si ponevano il problema di evitare che le loro azioni colpissero persone estranee ai loro "obiettivi" (in genere, esponenti più o meno rilevanti degli apparati militari o polizieschi degli occupanti o dei loro complici).

Chi, come me, appartiene al movimento dei nonviolenti ritiene suo compito non solo di far conoscere e affermare le proprie ragioni ma anche suo dovere morale di richiedere a tutti coloro – oggi ancora maggioritari – che ritengono di avere ragioni di combattere con le armi (ammesso che ve ne possano essere) che operino per delle radicali riduzioni del danno alle persone innocenti, cioè per evitare le uccisioni e le menomazioni casuali e indiscriminate di non combattenti e per operare per l’umanizzazione dei conflitti, cioè per l’opposto di quanto oggi prevale negli scenari delle guerre in atto o potenziali.

Per queste ragioni abbiamo tutti la necessità di conoscere analiticamente nei suoi termini reali quella particolare "guerra totale" costituita dall’aggressione nazista ai popoli dell’Europa. Da parte del fronte antifascista – stati ed eserciti non meno che popoli, movimenti, ideologie – essa richiese una reazione militare non meno dura, distruttiva e sanguinosa, anche se esso non aveva lo sterminio sistematico dell’avversario come fine e non solo come mezzo (e la differenza non è di poco conto). Fu proprio – infatti – la messa in opera di quella "guerra totale" - come era stato per le aggressioni indiscriminate anche dei neutrali da parte degli Imperi nella prima guerra mondiale – a legittimare i vincitori a considerare i nemici sconfitti (o, meglio, i loro capi) come "criminali di guerra" e a considerare le morti (anche di civili) causate dalle proprie forze armate come giustificate da un’esigenza primaria di liberazione da essi.

Per questo, in relazione al nostro paese e al nostro popolo non meno che in relazione agli altri paesi e agli altri popoli d’Europa, abbiamo bisogno di avere la conoscenza più adeguata e precisa possibile della minaccia e della realtà della violenza che furono costretti a subire.

La conoscenza sistematica delle uccisioni dei civili e dei massacri operati dagli occupanti tedeschi e dalle forze armate e di polizia della RSI è, infatti, una necessità fondamentale per la costruzione della nostra identità per due ordini di ragioni.

Vi è – ed è stato finora l’aspetto maggiormente indagato – il rapporto fra, da un lato, lotta di sopravvivenza e lotta di liberazione (armata e non armata) dal nazismo e dal fascismo e, dall’altro, aspirazioni popolari alla libertà, all’indipendenza e identità nazionale, alla giustizia, all’uguaglianza, alla pace che accomunano alla radice tutti i popoli d’Europa, al di là dei regimi e delle forme della politica che divennero egemoni nel dopoguerra.

Ma vi è qualcosa di altro e di più profondo, sulla quale non abbiamo posto a fondo la nostra attenzione.

È qualcosa per cui ho una sensibilità particolare. Il mio paese, Cisterna di Latina (allora Littoria), era sulla linea del fronte di Anzio e fu distrutto al 99% dai bombardamenti aerei americani. Nella battaglia per conquistarlo, poi, il reggimento Rangers di Fort Smith (Arizona), perse tutti suoi effettivi tranne sette od otto, alcuni dei quali ho conosciuto quando ormai erano dei reduci settantenni, sopravvissuti, ma con le gambe amputate, le braccia meccaniche o con qualche turba psichica di un certo rilievo. Nella guerra di massa è una fortuna salvarsi non solo per i liberati, ma anche per i liberatori e anche chi vince e chi ha la fortuna di salvarsi, non sempre resta integro o indenne da terribili conseguenze.

Ma quello che voglio dire è molto specifico. Come accennavo poc’anzi, per giustificare i bombardamenti sistematici e indiscriminati degli alleati che – ad esempio – rendevano Dresda non dissimile da come i tedeschi avevano reso Coventry (per non dire di quelli nucleari degli americani sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki), fu elaborato il complesso teorico giuridico e politico dei "crimini di guerra". Quella durezza crescente dell’azione militare degli alleati e quel potente dispiegamento di capacità distruttiva indiscriminata trovava la sua giustificazione nell’eccezionale gravità del nemico cui si era di fronte e nella minaccia che esso aveva posto in atto contro gli stessi fondamenti biologici e materiali dell’esistenza dei popoli d’Europa, non solo contro le loro espressioni culturali, civili e statali.

Se oggi noi ci riconosciamo – giustamente – eredi di quella lotta e delle ragioni che la sostennero, dobbiamo avere chiaro anche quale fosse l’entità della minaccia e come, dove e in quale misura essa era diventata tragica realtà. Lo sterminio nei lager non era solo un aspetto accessorio del Nuovo ordine europeo del nazismo e di Hitler. Esso era il punto culminante di una spirale di violenza che – come un tragico vortice – aveva colpito in maniera consapevole e diretta le singole vittime civili delle uccisioni immotivate, i piccoli gruppi di ostaggi, le centinaia di prigionieri uccisi per rappresaglia, le migliaia di donne, bambini e anziani sterminati nelle grandi stragi. Ecco, allora, che il conoscere come, quando, dove e con quali dimensioni i nazisti e i fascisti posero in atto la "politica della strage" diventa l’indispensabile pietra di paragone con la quale misurare le circostanze che – storicamente – giustificarono ex post i bombardamenti aerei ed i cannoneggiamenti marini e terrestri contro obiettivi civili e popolazioni. In altri termini, per capire perché fu necessario porre in essere un così offensivo e distruttivo male minore, è indispensabile conoscere la reale portata del male maggiore che era necessario abbattere per la salvezza di tutti (o, meglio, dei superstiti).

Di questo abbiamo bisogno nella nostra epoca – più di cinquant’anni dopo – perché nell’opinione pubblica internazionale e di numerosi paesi si fa – a volte molto sfacciato ed intenso – un "uso pubblico della storia" di tipo analogico per giustificare i bombardamenti contro gli obiettivi civili e le popolazioni del nostro tempo. Non con la loro ipotetica efficacia nell’eliminare una minaccia comparata come analoga a quella che allora fu perpetrata contro l’umanità (secondo un procedimento tipico dell’uso della consuetudine come fonte del diritto) ma con il semplice fatto che allora vi sono state distruzioni e morti di civili operate dagli alleati.

Anziché domandare a chi oggi ritiene immorali i bombardamenti contro obiettivi civili e popolazioni se cinquant’anni fa si sarebbe opposto ai bombardamenti degli alleati in guerra contro Hitler, chi vuole sostenere la necessità e la moralità dei bombardamenti di oggi ha l’obbligo di dimostrare che le minacce all’umanità siano oggi della stessa natura di quelle di cinquant’anni fa e che siano in grado di recare alle persone innocenti gli stessi danni e le stesse minacce recati alle persone innocenti cinquant’anni fa da Hitler, dalle sue forze armate e dai suoi collaborazionisti.

 

Riferimenti bibliografici essenziali

C. De Simone, Per la costruzione di una cronologia dei massacri, comunicazione al convegno internazionale "Identità e storia della Repubblica. Per una politica della memoria nell’Italia di oggi", Università La Sapienza, Roma, 26-27 giugno 1997 (inedita)

M. Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Mondadori, Milano 2002

F. Giustolisi, Gli scheletri nell’armadio, in "Micromega", n. 1/2000, pp. 345-356

R. Lazzero, Il sacco d’Italia. Razzie e stragi tedesche nella repubblica di Salò, Mondatori, Milano 1993

A. Parisella, La politica della strage, in Idem, Sopravvivere liberi. Riflessioni sulla storia della Resistenza a cinquant’anni dalla Liberazione, Gangemi, Roma 1997, pp. 37-57

P. Pezzino, Sui mancati processi in Italia ai criminali di guerra tedeschi, in "Storia e memoria", n. 1/2002, pp. 9-72

R. Ricci, Processo alle stragi naziste? Il caso ligure. I fascicoli occultati e le illegittime archiviazioni, in "Storia e memoria", n. 2/1998, pp. 119-164

P. E. Taviani, Politica a memoria d’uomo, Il Mulino, Bologna 2002

I. Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944: estate di sangue in Toscana, Carocci- Giunta regionale della Toscana, Roma-Firenze 2002

Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza fascista e nazista in Italia, a cura di T. Matta, Electa, Milano 1996

 

Siti web

www.guerraaicivili.it

www.stm.unipi.it/straginaziste

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALLA RICERCA DELLA VERITÀ: GLI ARMADI DELLA VERGOGNA

Viareggio, sabato 7 dicembre 2002-11-14

 

Sezione: I PERCORSI DELLA VERITÀ TRA STORIA, CRONACA E POLITICA

 

 

Da: "APRIAMO L’ARMADIO DELLA VERGOGNA", incontro di studio Università La Sapienza del 20 novembre 2002, promosso dall’ANPI-Roma e Lazio e dal Centro telematico per la storia contemporanea

 

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