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I giornali della Resistenza

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pallanimred.gif (323 byte) Il Ribelle

Esce come e quando può (1944-1946)

Il 19 novembre 1944 fu stampato il primo numero di "Brescia Libera", giornale che continuò le sue pubblicazioni fino a quando, nel gennaio successivo, furono arrestati Ermanno Margheriti e Astolfo Lunardi, due giovani impegnati nella diffusione del foglio clandestino. La condanna inflitta loro dal Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato, cui seguì il 6 febbraio 1944 la fucilazione, pose termine all’esperienza del giornale provocando la diaspora del gruppo che vi gravitava attorno.

La maggior parte dei collaboratori si trasferì a Milano dove da un incontro fra Claudio Sartori, che su "Brescia Libera" curava la cronaca e le notizie delle Fiamme Verdi, e Teresio Olivelli, ufficiale del 2° Reggimento Alpino fuggito in ottobre dal campo di prigionia di Markt Pongau e nominato dal Cln comandante nel settore Bresciano, sorse l’idea di riabilitare la memoria dei due martiri bresciani. Il 5 marzo del 1944 venne così alla luce, a scopo commemorativo, il primo numero del "Ribelle" che fu diffuso con una tiratura di 15 mila copie riscuotendo un successo << enorme >>. I risultati lusinghieri ottenuti con la prima uscita spinsero gli autori a continuare nella loro esperienza che si protrasse così lungo tutti i mesi della lotta di liberazione. Espressione dei cattolici inquadrati nelle Fiamme Verdi, il giornale riuscì a pubblicare altri 25 numeri affiancati dalla serie dei "Quaderni". Di questi ultimi si succedettero 11 pubblicazioni nelle quali, oltre a svolgere un’analisi del fascismo, furono stilati i princìpi che avrebbero dovuto regolare la nuova società e ipotizzate alcune soluzioni ai probabili problemi, quali ad esempio il rapporto fra Stato e Chiesa, che sarebbero sorti all’indomani della liberazione.

"Il Ribelle", contando su squadre di distributori ben organizzate, sul notevole appoggio fornito dalle donne, << le protagoniste più coraggiose e spericolate >>, e sul diffuso entusiasmo dei cattolici, fu in grado di raggiungere tutti i maggiori centri del nord Italia, penetrando largamente in Emilia, in Lombardia, nel Veneto, in Piemonte, arrivando, per lo meno fino a quando fu possibile, a Roma e anche in Svizzera dove era riprodotto dalla "Squilla Italica".

Il periodico fece suo il motto già adottato da "Brescia Libera": "Esce come e quando può" e, simbolicamente, continuò a riportare in tutti i numeri la data di Brescia. Il foglio in realtà fu sempre composto fra Milano, dove era disponibile un linotipista, e Lecco dove fra il sabato e la domenica era impaginato e stampato. In totale i collaboratori furono all’incirca una ventina; fra i più noti vi era Teresio Olivelli mentre altri, come Laura Bianchini, don Giuseppe Tedeschi, Enzo Petrini, avevano in precedenza collaborato attivamente con "Brescia Libera".

Il successo del primo numero indusse i fondatori a continuare, << nel nome dei morti, più vivi dei vivi >>, il proprio lavoro proclamando << l’inesorabile e vitale necessità >> della rivolta. Nella pubblicazione successiva, datata 26 marzo, Teresio Olivelli, con un articolo contrassegnato da una grande tensione morale, espose la piattaforma ideologica del giornale. Nell’articolo, che era intitolato "Ribelli", Olivelli portava in superficie tutta la rabbia e lo sdegno della nuova generazione cresciuta e formatasi sotto il fascismo. Era uno scritto di alta intensità nel quale si riflettevano le stesse vicende dell’autore che, dopo un lungo travaglio interiore, aveva ormai assunto una netta posizione antifascista. Personalità animata da un profondo sentire religioso e da un forte rigore morale, Olivelli, come molti cattolici, aveva aderito al regime con l’intenzione di agire al suo interno per trasformarlo in senso cristiano. Del fascismo, nonostante alcuni dubbi che egli manifestò nei suoi scambi epistolari, era giunto anche ad accettare l’impegno bellico tanto da arruolarsi volontario prendendo parte alla campagna di Russia. Visse così in prima persona la tremenda ritirata iniziata nel gennaio del 1943, trovandosi a compiere gesta al limite delle possibilità umane. Il sacrificio sopportato da tanti giovani in terra sovietica gli apparve << troppo grande >> e << troppo difficile >> da giustificare, egli non riuscì né a trovargli un senso, né a conferirgli una qualsiasi utilità, un’ esperienza che troncò in lui qualsiasi illusione sulla possibilità di modificare il fascismo in senso cristiano aprendogli la strada ad una profonda riflessione critica.

Ad un anno di distanza da quegli avvenimenti e dopo la caduta del fascismo, la disfatta dell’8 settembre, la nascita della Repubblica di Salò, tali considerazioni sfociarono in una critica che prese la forma di una decisa rivolta morale << contro un sistema e un’epoca, contro un modo di pensiero e di vita, contro una concezione del mondo >> che segnava, fra coloro che intendevano proseguire l’esperienza passata e quanti invece puntavano a distaccarsene, un << abisso inadeguabile >>.

Tutta la prima parte dell’articolo "Ribelli" è caratterizzata da una lunga, intensa e decisa requisitoria contro i costumi che avevano dominato un ventennio di storia italiana. Nulla era tralasciato. Lo Stato onnipotente che aveva annichilito la persona, la classe politica che aveva utilizzato per i propri fini di potenza le istituzioni, una cultura servile, gli ideali dell’apparire, le masse apatiche e passive e, per finire, i fascisti irriducibili, che in onore ai loro ideali si erano tramutati in << prezzolata appendice dello straniero>>; tutto era travolto da una critica che partiva dalla consapevolezza dell’impossibilità di poter salvare qualcosa del vecchio mondo e dall’orgoglio di aver ritrovato, nel fondo delle coscienze, la capacità di ribellarsi ad un ordine tirannico. Di fronte al crollo morale e sociale del paese, che aveva raggiunto il parossismo con lo scoppio della guerra civile, la parola d’ordine che veniva lanciata era quella di rompere con << una tradizione decaduta a retorica per riprendere "ab intus" ed "ab imis" l’edificazione della personalità e della cultura >>, in modo da << riprodurre in termini nuovi l’ordine delle convivenze >> e realizzare così una nuova società << più libera, più giusta, più solidale, più "cristiana">>. Il giornale professò quindi fin dall’inizio la sua ispirazione cristiana, un indirizzo che fu mantenuto anche dopo l’uscita di scena di Olivelli, grazie soprattutto agli assidui interventi di Laura Bianchini nei quali si avverte, come si vedrà, la forte influenza del pensiero neotomista.

La ragione della nascita del "Ribelle" era motivata dal desiderio di edificare un nuovo ordine fondato su una maggiore giustizia e dall’ambizione di diventare una palestra dove i giovani potessero liberamente dibattere e formarsi in vista della società futura; il giornale si proponeva il compito di fungere da << fermento di una libera sana profonda cultura >>, e di diventare un << campo di intransigente moralità >>. Tutti, senza alcuna preclusione politica, di partito, di classe o di fede religiosa, erano invitati a partecipare alla costruzione del nuovo ordine contribuendo sia con il braccio sia con la mente, << coll’idea e con le armi >>, prendendo parte attiva al processo di liberazione senza attenderla in dono da alcuno. La vera libertà poteva essere conquistata solo con il sacrificio e con una scelta attiva compiuta dal singolo individuo, un principio che trovava la sua formula nella frase << non esistono liberatori. Solo, uomini che si liberano >>. Questo desiderio di raggiungere autonomamente alla libertà, unito alla fede della propria scelta, assumeva il significato di una rottura totale con il passato più recente, consentendo ai "ribelli" di conquistare con il proprio coraggio e con il proprio sacrificio una piena dignità personale che assumeva anche i caratteri di un risorgimento nazionale in quanto dava a chi si ribellava il diritto di rappresentare pienamente la nazione:

<< Lottiamo, perché sentiamo con noi nascere il dolore e la speranza del popolo italiano e, […] sentiamo di essere l’avanguardia dello spirito e delle armi, l’esercito "reale" della nazione e dell’umanità >>.

Un’avanguardia, completò il discorso qualche mese più tardi Laura Bianchini, costretta ad usare << la forza in difesa del diritto >> contro quanti riponevano il << loro diritto nella forza >>.

Un altro contributo importante di Olivelli alla storia del giornale è rappresentato dalla distribuzione, con l’uscita del terzo numero, del foglio contenente la "Preghiera del ribelle", << il più alto documento spirituale della guerra partigiana >>. La preghiera, fatta stampare per la comunione pasquale dei partigiani, esprimeva il profondo sentimento religioso dell’autore. In questo scritto la passione di Cristo era assunta come fonte da cui attingere la forza per ribellarsi e il coraggio di sopportare i sacrifici più grandi contro l’ingiustizia in nome dell’amore e della libertà, della verità, della giustizia e della carità. La fede in Dio si traduceva nella fiducia in un domani migliore che avrebbe dovuto essere contraddistinto dalla pace e dal sorgere di una patria capace di essere benevola, rispettosa dell’uomo e al contempo moralmente rigorosa. Nelle mani di Dio, ragione di gioia anche nei momenti più cupi e dolorosi, erano affidati gli affetti più cari, i compagni di lotta e la resurrezione della nazione:

<< Signore che fra gli uomini drizzasti la Tua croce, segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della massa, a noi oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite, dà la forza della ribellione.

Dio che sei Verità e Libertà, facci liberi e intesi, alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della Tua armatura. Noi Ti preghiamo, Signore.

Tu che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso, nell’ora delle tenebre ci sostenti la tua vittoria: sii nell’indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell’amarezza. Quanto più s’addensa e incupisce l’avversario, facci limpidi e diritti.

Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci non lasciarci piegare.

Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e carità.

Tu ce dicesti: "Io sono la resurrezione e la vita" rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.

Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu, sulle nostre famiglie.

Sui monti ventosi e nelle catacombe della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.

Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore >>.

L’articolo "Ribelli" e la preghiera costituiscono i due momenti salienti dell’impegno intellettuale di Olivelli nella lotta partigiana, due interventi ad ogni modo strettamene legati alla guerra in corso. La sua riflessione e il suo lavoro erano però anche concentrate sul futuro. Nei primi mesi del ’44 furono diffusi due scritti dai titoli: "Schema di discussione di un programma ricostruttivo ad ispirazione cristiana" e "Schema di impostazione di una propaganda rivolta a difendere la Civiltà Cristiana e a propugnare la realizzazione della vita sociale". Gli schemi furono pubblicati dal "Ribelle" solo nel numero commemorativo dedicato ad Olivelli stampato nel giugno del 1945.

Negli schemi erano delineati i tratti principali che avrebbe dovuto assumere la società futura. Il nuovo ordine, di fronte alla << decomposizione e risoluzione >> dell’epoca economica e mercantile, avrebbe dovuto ispirarsi << a un effettivo e non declamatorio spirito cristiano ove la persona umana [doveva essere] principio e fine dell’ordinamento delle solidarietà >>. I punti basilari di questo nuovo assetto democratico, liberale e pluralista, erano individuati nella libertà e nell’eguaglianza, quest’ultima intesa come uguali possibilità iniziali per sviluppare la propria personalità. Per ciò che riguardava il lavoro si affermava che avrebbe dovuto esprimere il valore della persona la quale, tramite di esso, avrebbe portato a termine il suo principale dovere politico. Era poi ripreso un tema caro al pensiero cattolico sociale, cioè la compartecipazione operaia agli utili, strumento consequenziale al principio di una società a base interclassista. Gli altri punti sottolineavano la legittimità della proprietà e il ruolo fondamentale della famiglia ritenuta il nucleo fondante dello Stato. A quest’ultimo, per concludere, era affidato il compito di garantire la difesa della persona e assegnato il dovere di promuoverne la crescita, nonché la funzione di indirizzare le diverse attività della società al conseguimento del bene comune. I valori cristiani dovevano costituire il nucleo fondante di questa nuova società e pertanto era indispensabile compiere un’intensa opera di propaganda e di educazione che, una volta sconfitto il fascismo, doveva permettere di resistere e vincere l’assalto ordito dalla propaganda comunista. L’esempio da seguire, per superare tale sfida, era quello di imitare il comportamento assunto dai cattolici liberali nei riguardi del liberalismo e compiere un’ << opera di purificazione, rielaborazione, assimilazione >> in modo da accogliere quegli elementi di verità presenti nella dottrina comunista. Al centro doveva essere posto il problema sociale, in passato non compiutamente affrontato dai cattolici criticati per aver trascurato << l’humanitas >> e << l’ansia di perfettibilità del mondo umano >>, cui doveva far seguito un impegno totale da parte del cristiano opponendo così alla << concezione integrale >> del comunismo un’identica << concezione integrale >> di chiara connotazione cattolica.

Il contributo di Olivelli alla storia del "Ribelle" cessò a causa del suo arresto avvenuto a Milano il 27 aprile del 1944. Dopo un breve periodo a San Vittore spese gli ultimi mesi della sua vita in diversi campi di internamento dove, a imitazione dei più limpidi esempi di martiri cristiani, donò tutto se stesso ai compagni di prigionia morendo a causa dell’inedia e delle violenze subite. Nonostante le difficoltà derivate dal suo arresto, il " Ribelle" continuò le sue pubblicazioni. Il giornale, oltre che divulgare informazioni di carattere militare preziose per il movimento partigiano, si caratterizzò per il suo orientamento apolitico e per l’attenzione dedicata ai problemi di ordine morale e riguardanti la figura della persona umana.

L’apoliticità costituì sempre un vanto del "Ribelle" come dimostrano le seguenti parole apparse sul numero tredici del 30 settembre:

<< Noi del Ribelle non siamo liberali. Noi del Ribelle non siamo democristiani. Noi del Ribelle non siamo del Partito d’Azione, non siamo comunisti, non siamo socialisti, e non siamo neppure progressisti, né, Dio ce ne scampi monarchici . Se avviene dunque che i democristiani ci credano dei loro e dei più puri, se avviene dunque che i liberali affermino che noi facciamo del più bel liberalismo, se avviene che qualcuno ci creda l’emanazione del P. di A., la colpa sapete di chi è ? Del nostro far sincero, del nostro parlar onesto. Ché in casa nostra spira buon vento di sincerità, di libertà, e ognuno può o sa dire e difendere il proprio ideale. E ognuno cerca di capire, di discutere e talvolta anche di accettare. Ma redini sul collo e niente paraocchi >>.

Questa lunga citazione appare da un lato come l’orgogliosa rivendicazione dell’indipendenza intellettuale del giornale, mentre dall’altro sottintende un impegno che trascendeva gli interessi di parte per fissare come principale obiettivo quello della liberazione del paese. Troppi apparivano infatti al "Ribelle" coloro che sembravano preoccuparsi più del domani che dell’ora presente. Il problema immediato da risolvere non poteva invece che essere quello di porre fine, nell’interesse di tutti, alla guerra in corso. E se a nessuno era negato il diritto di prepararsi in vista della società a venire, tutti erano invitati ad evitare di scivolare nello scontro e nella polemica fine a sé stessa, a sfuggire i contrasti finalizzati solo alla raccolta di consensi per la conquista del potere politico a liberazione avvenuta, a scansare divisioni che non potevano che avvantaggiare fascisti e tedeschi. Nella sua lotta antifascista il "Ribelle" non risparmiava dunque la critica a quelle forze che continuavano a procedere mantenendo atteggiamenti faziosi e a queste opponeva l’esempio della nuova generazione tempratasi nella << sofferenza amorosa >> e purificata dalla volontà di essere diversa da tutti coloro che l’avevano preceduta. La scelta di una linea apolitica era quindi dettata dal bisogno di fare causa comune per risolvere i problemi più importanti creati dalla guerra rinviando al domani le discussioni sul nuovo ordine da costruire. Questa considerazione spiega i continui appelli rivolti dal "Ribelle" all’unità della Resistenza come premessa per creare quel patrimonio comune in cui potersi riconoscere e da cui poter poi ripartire .

Al di là delle pur legittime aspirazioni di ogni singolo partito, per il giornale era innanzitutto fondamentale trovare un terreno comune dove le forze antifasciste potessero incontrarsi. Il riconoscimento e la condivisione di identici valori avrebbero così permesso la formazione di un rinnovato rapporto di fiducia che, unito ad un serio impegno di collaborazione, rappresentavano le migliori e necessarie premesse per la costruzione di una nuova convivenza civile. Solo partendo da questi presupposti si sarebbe ottenuta una liberazione reale e non di facciata, una liberazione conquistata grazie al << coraggio della concordia >> che avrebbero consentito di inaugurare una fase politica nuova capace sia di superare quel tormentato periodo storico, sia di guardare al futuro nel migliore dei modi.

Il sorgere di un serio spirito collaborativo era visto come il primo passo affinché fossero neutralizzati gli << effetti di una ventennale educazione all’odio, alla violenza, al disprezzo della vita umana >>, e affinché, alla base della vita nazionale e internazionale, potesse instaurarsi << la reciproca comprensione, il rispetto del diritto, l’esercizio della solidarietà >>. L’apoliticità, concepita come momento di ricerca di identità comuni, si trasformava così in unità che doveva essere segnata dall’amore per il prossimo poiché, prima di qualsiasi risultato politico, avrebbe dovuto affermarsi il principio del "volersi bene"; per poter avviare un giusto processo di ricostruzione diventava essenziale << far rinascere nel cuore degli italiani l’amore, la stima, il rispetto reciproco >>.

L’insistenza sul tema dell’unità era dovuta anche al timore di un risorgere del fascismo. Dalle colonne del "Ribelle" emergeva infatti la preoccupazione che le divisioni e la tendenza a badare più al proprio interesse che non al bene comune, potessero aprire ancora le porte, come negli anni venti, al ripetersi di un’altra esperienza dittatoriale. A questa preoccupazione si accompagnò lo sforzo di fornire una spiegazione del regime da poco crollato. Nell’analisi del giornale il sistema mussoliniano era raffigurato come una categoria che trascendeva la particolare contingenza storica per assumere un carattere universale; un’esperienza che, pur avendo avuto alcuni caratteri peculiari, avrebbe potuto riprodursi e ripresentarsi nuovamente sotto altre forme perché ritenuta non estirpabile in maniera assoluta. I tratti caratteristici del fascismo erano individuati in << quella particolare attitudine spirituale che fa l’uomo dimissionario della dignità che gli è propria; che lo curva e lo annulla in pratica […] sotto la tirannia di falsi idoli, delle pesanti mistiche della collettività >>. Altra espressione tipica del fascismo appariva anche << quella mentalità sbrigativa che pretende di risolvere le difficoltà intervenendo con la violenza e di sostituire la forza alla leale discussione, alla persuasione, agli accordi liberamente stipulati e lealmente osservati >>. L’analisi catalogava come fasciste anche altre esperienze come la formazione di un capitalismo di Stato, l’onnipotenza delle oligarchie economiche, la possibilità di vivere di rendita sottraendosi al dovere del lavoro, l’annullamento in favore della politica del momento sindacale . Un’interpretazione molto ampia e generalizzata nella quale, come si può ben capire, è possibile farvi rientrare ogni forma di dittatura e di totalitarismo. Da questa impostazione derivava la conclusione che qualsiasi acquisizione democratica non poteva essere considerata definitiva e qualunque crisi, se gestita con una mentalità intransigente e non votata al compromesso, avrebbe riaperto il pericolo di un nuovo fascismo.

Questa analisi così generalizzata può essere spiegata per via del timore, espresso più volte, di passare ad un’esperienza diversa nella forma ma identica nella sostanza: il popolo italiano doveva evitare di lasciarsi abbagliare da nuovi miti per non cadere << nel triste gioco illusorio di liberarsi da una dittatura per cadere sotto un’altra >>. Al fine di evitare tale pericolo, era necessario abbandonare ogni illusione di poter dar vita ad un uomo perfetto; allontanarsi da ogni forma di mistica sotto qualsiasi aspetto di presentasse; cercare un terreno comune sul quale far convergere tutte le distinte opzioni per poter costruire un rapporto di stima e fiducia reciproca. La << tentazione fascista >> poteva essere scongiurata solo se si fosse trovato un minimo comune denominatore a cui fare sempre riferimento e solo se si fosse instaurata << la concordia fra i migliori che hanno sofferto, lottato per un’Italia risorta a vita nuova >>.

Per costruire una nuova società il "disarmo degli spiriti" e la predisposizione all’accordo dovevano essere poi integrati da una profonda rivalutazione dell’uomo. L’impossibilità di prescindere dalla centralità della persona e da una valida riforma morale furono sottolineati in più interventi ed erano assunti come il cardine attorno al quale far ruotare l’intera società. In primo luogo era indispensabile rivalutare l’uomo nella sua veste integrale e riconoscere che i mali del mondo avevano la loro radice nel << disordine della vita personale >>:

<< L’imperativo dell’ora presente è riaffermare la dignità della persona umana […] riaffermare innanzitutto l’integrità unitaria e concreta dell’uomo : corpo e spirito, intelligenza e volontà, essere dal quale sgorga l’azione come l’acqua dalla sorgente >>.

La persona umana doveva essere il punto di partenza da cui procedere per qualsiasi progetto di ricostruzione, era l’elemento principale reputato ancora più importante della società cui l’uomo era anteposto:

<< C’è più di un ordine politico, sociale, economico, internazionale da rifare; c’è l’uomo che è elemento primo di tutti gli ordini. […] Ci vuole, insomma, un’azione spirituale alla quale si deve cominciare col riconoscere di diritto e di fatto il primato dell’iniziativa e il dominio dei fini, che vanno direttamente all’uomo in sé e non al benessere sociale, a cui arrivano solo indirettamente >>.

Il primato assegnato alla persona era la logica conseguenza di un’idea che poneva alla base la necessità di riconoscere e rispettare la << gerarchia dei fini >>: fini temporali, quelli della società, fine eterno quello dell’uomo. Era quest’ultimo un principio che permetteva di completare e di vivificare, unendole e sostenendole, le norme atte a garantire l’ordine sociale. Se era infatti importante tutelare la sicurezza personale e nazionale, dare a ognuno la possibilità di lavorare e di procurarsi i mezzi di sostentamento, instaurare fra i diversi rami produttivi rapporti armoniosi e garantire la tranquillità pubblica, l’insieme di questi elementi, in quanto limitato alla natura temporale, rappresentava soltanto una << fragile struttura esteriore >>. Il riconoscimento e il rispetto dei fini permetteva invece che questa struttura non solo fosse animata, ma che i suoi elementi costitutivi fossero convogliati in direzione di un ordine superiore confacente al carattere più intimo dell’uomo rinvenuto nella sua natura immortale. La società doveva essere quindi ordinata all’uomo ed era concepita come una << persona di persone >> con il compito di creare le condizioni necessarie per garantire lo sviluppo della persona umana in modo da permetterle di riconoscere << in piena libertà la propria vocazione e di seguirla >>.

Questi argomenti erano pienamente inseriti nell’alveo della tradizione cattolica e come tali non costituivano certo una novità. Rispetto al passato mutava però la posizione assunta nei confronti del sistema politico che doveva mettere in pratica tali ideali. Durante tutti gli anni trenta, infatti, la realizzazione di questi princìpi era rimasta indissolubilmente legata all’ambizione di restaurare uno Stato cattolico. Questa linea aveva determinato un atteggiamento benevolo nei confronti di quei sistemi che, pur manifestando un carattere autoritario, avevano mostrato di voler salvaguardare la religione cattolica. Il fascismo italiano, le esperienze corporative del Portogallo di Salazar e dell’Austria di Dolfuss, la nascita del regime di Franco in Spagna, avevano ricevuto così l’appoggio di gran parte del mondo cattolico, fautore di una terza via alternativa al liberalismo e al collettivismo e desideroso di restaurare un suo modello di Stato influenzando i regimi esistenti.

Ora invece, indipendentemente dalla connotazione che avrebbe potuto assumere, il carattere autoritario dello Stato era decisamente rifiutato in quanto giudicato già in partenza negazione della persona umana.

<< Lo Stato autoritario, comunque si denomini, pretende farsi come un assoluto e sostituirsi alla legge morale della stessa intimità della coscienza, negando in tutto o in parte quei diritti che sono essenziali alla dignità della persona, e senza dei quali non esiste sostanzialmente persona >>.

Nel nuovo contesto la soluzione auspicata dal periodico era quella di un sistema democratico i cui caratteri erano comunque completamente diversi rispetto a quelli propugnati da altre scuole di pensiero e realizzati fino ad allora. Nei diversi ordinamenti che si richiamavano alla dottrina democratica erano infatti riscontrati difetti che non si conciliavano con una corretta idea di democrazia. Il sistema americano e quello inglese, ad esempio, erano criticati per l’eccessivo peso rivestito dal denaro, mentre quello francese era tacciato di << parlamentarismo parolaio >>. Per il "Ribelle" quindi la democrazia da << difendere >> e da << servire >> non era stata ancora realizzata da alcuno Stato ed era << qualche cosa di soltanto sognato, accarezzato dal pensiero di pochi >>. A queste critiche faceva poi seguito l’esposizione delle linee fondamentali che avrebbero dovuto caratterizzare una vera democrazia. Per cominciare questa avrebbe dovuto concretizzarsi come il regno del diritto in contrapposizione a quello del numero, dando vita ad un << regime personalista >> capace di << rispettare e valutare e sollecitare le vocazioni dei singoli >>, organizzandole in funzione del conseguimento del bene comune. In secondo luogo la libertà doveva essere concepita non come un fine in se stesso, ma come << condizione dell’azione >> e andava adeguatamente limitata al fine di evitare che le scelte compiute dal singolo intaccassero la libertà altrui. L’uguaglianza doveva trovare invece la sua realizzazione mediante il riconoscimento dato ad ognuno del << diritto di essere pienamente se stesso >>. In pratica un compiuto sistema democratico poteva essere considerato tale solo nel caso in cui da un lato i princìpi della sovranità, della libertà e dell’uguaglianza avessero pienamente rispettato la persona, dall’altro quando le singole vocazioni, grazie all’intervento delle istituzioni, fossero state adeguatamente coordinate e armonizzate fra loro.

Ideali che dopo un anno dalla liberazione apparivano ben lontani dall’essere in via di realizzazione. Nel numero unico uscito in occasione dell’anniversario della liberazione e dedicato a << tutti i morti in purezza >> senza distinguere sul loro colore politico , il "Ribelle" ribadiva con fermezza il senso della propria storia basata soprattutto sul motivo patriottico contrapposto all’antifascismo partitico di quei raggruppamenti che avevano privilegiato nella loro azione il momento politico rispetto alla guerra di liberazione stessa. Dopo quest’affermazione, che conteneva ancora una volta una critica contro quanti continuavano ad anteporre i propri interessi al bene comune della nazione, il giornale constatava amaramente che quella rivolta morale, tante volte richiamata nelle sue pubblicazioni e ritenuta elemento imprescindibile per qualsiasi rinnovamento, aveva ormai subito una battuta d’arresto:

<< In nome della libertà e della democrazia continuano ingiustizie e delitti, si fa legge del proprio arbitrio e, quasi che non fosse piaga recente un ventennio di abbrutimento politico, si ripete l’errore di dividersi e di avvelenarsi per poter rimanere in pochi al potere >>.

Il "Ribelle" vedeva nella nuova fase storica il ripetersi dei vecchi errori tipici dell’epoca prefascista quando il momento politico era stato sopravvalutato a scapito di quello economico e di quello morale, difetti che avevano raggiunto il loro culmine durante il corso del ventennio. Riserve erano poi mosse a quanti davano la democrazia come fenomeno definitivamente acquisito senza preoccuparsi di lavorare per un’ampia diffusione dei suoi princìpi e per educare in tale senso ogni cittadino. Un atteggiamento che contrastava con l’orientamento da sempre assunto dal giornale, proteso in direzione di una rivoluzione morale permanente volta a superare i limiti insiti nella natura umana.

Per uscire da questa difficile situazione era richiesta una forte dose di coraggio finalizzata a fare << pulizia di tutta la gente in malafede >> senza badare alle dichiarazioni di appartenenza politica. Solo una ferma posizione contro << gli arrivati insensibili e gli arrivisti senza scrupoli >> e un’intransigente difesa della verità, della giustizia e della solidarietà avrebbero permesso di porre le basi per una vera e sana moralizzazione del paese avviando un nuovo corso del tutto differente rispetto al passato. Furono gli ultimi richiami del Ribelle che, dopo questo numero, cessò definitivamente la sua attività.

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