part.gif (12146 byte) Testata.gif (8044 byte)

 

home

   

      

La Resistenza in Europa

Partizan.gif (3053 byte)

La Resistenza in Polonia

pallanimred.gif (323 byte) La deportazione degli ebrei e la rivolta del Ghetto di Varsavia

Il massacro sistematico degli ebrei cominciò sin dall’inizio dell’occupazione germanica. I nazisti procedettero anzitutto ad eliminare le comunità ebraiche delle città meno importanti, trasferendole in massa nei grandi centri abitati. In conseguenza di ciò, all’inizio del 1942, il ghetto di Varsavia conteneva 400.000 persone, uomini donne e bambini che vivevano in spaventose condizioni per la promiscuità e la miseria. Le autorità tedesche concedevano quattro libbre e mezzo di pane a persona per un mese. Si otteneva così di sopprimere per fame migliaia di persone tenendo le armi nei foderi. 130.000 ebrei prelevati nel ghetto di Lublino sparivano nel campo di concentrazione di Belzec, uccisi nelle camere a gas. Durante i mesi di luglio e agosto le stragi continuarono: ebrei condotti nei campi di Belzec, Salilor, Treblinka, ricevevano l’ordine di spogliarsi completamente, venivano introdotti nelle camere a gas, sepolti nelle fosse comuni scavate da mezzi meccanici nel folto delle foreste. Le notizie agghiaccianti delle stragi giungevano nel ghetto di Varsavia facendo conoscere agli abitanti la crudele sorte che li attendeva. Erano presi in trappola: non esisteva altra possibilità tranne quella di scegliere tra la morte nelle camere a gas o l’uccisione in combattimento. La notte del 19 aprile 1943, una compagnia di ss penetrò nel ghetto, ma venne accolta da un nutrito fuoco di fucili e di mitragliatrici. Certi di essere uccisi se presi prigionieri gli ebrei avevano deciso di morire con le armi in pugno. Si difesero con furioso eroismo, sfidando per sette giorni dal lunedì di Pasqua al sabato, il fuoco micidiale dei cannoni puntati a distanza ravvicinata contro le case del ghetto, gli incendi applicati dai guastatori, le bombe lacrimogene. Alla fine di maggio l’ultima casa fu distrutta, l’ultimo ebreo ucciso.

 

Varsavia 1943

di Titti Marrone

Alle 20,15 del 16 maggio del 1943 la fine della rivolta del ghetto di Varsavia risuonò in tutta la città come un’esplosione e un lampo di fiamme nel buio: annunciava l’incendio della sinagoga nella «zona ariana», decisa dal generale delle SS Jurgen Stropp perché fosse chiara al resto degli abitanti della città la sconfitta dei ribelli imprigionati dietro il muro. Finiva così, sessant’anni fa, l’insurrezione più ardita, la sfida più eroica combattuta contro l’esercito temuto in tutto il mondo da ebrei armati solo del proprio coraggio. La mattina del 17 maggio, diradato l’oceano di fuoco che aveva raso al suolo il ghetto, ne restavano solo le macerie. Più tardi Hannah Arendt avrebbe aperto il grande tema dell’insurrezione del ghetto di Varsavia come unicum nella storia della Shoah con queste parole: «Quell’ammasso di macerie che racconta della lotta per la nostra libertà è un trionfo storico contro un nemico antico e tenace del popolo ebraico: il ruolo di vittima».
Il ghetto di Varsavia fu luogo di una ribellione inaspettata per i nazisti, organizzata lentamente, capillarmente, fin dall’ottobre 1942, quando nacque la Zob, l’Organizzazione ebraica combattente guidata da Mordechai Anielewicz. A combattere furono migliaia di ragazzi, vecchi, donne, bambini inermi. Tra i tanti ci furono Chana e Fruma Plotnickie, due belle ragazze coraggiose come tigri, raffinate e bionde, ebree di Varsavia che tutti avrebbero scambiato per ariane. Perfette per passare a testa alta con spavalda sicurezza tra le guardie, facendo avanti e indietro in cerca di armi, aiuti, alimenti, spesso scortate da agenti delle SS che, con ignara premura, si offrivano di portare le loro pesanti valigie. Quando il ghetto fu tagliato fuori dal mondo degli uomini, Chana e Fruma diventarono ufficiali di collegamento della resistenza degli ebrei di Varsavia al nazismo, e trasformarono la loro bellezza, la giovinezza, la vita intera in armi contro in Reich. Come loro si ribellarono ebrei che erano stati padri, madri e figli di semplici famiglie serene, studenti, scienziati illustri, medici, capi religiosi, tutti ridotti a una manciata di disperati mezzi morti di fame e malattie e, nonostante ciò, risoluti contro l’esercito del Terzo Reich. Si ribellarono perché non avevano altra scelta e, insieme, perché non avrebbero saputo scegliere altro.
Dall’autunno 1940 gli ebrei di una delle comunità più numerose d’Europa erano stati rinchiusi a decine di migliaia nel ghetto ricavato in un’area pari al 20% dell’intera città. Fu costruito un muro per isolarli, fu dato ordine a ciascuno di portare la stella di David, fu introdotta la pena di morte per chiunque avesse tentato la fuga. Nel 1941 gli ebrei reclusi nel ghetto erano diventati 450mila, e a ciascuno, secondo le tabelle alimentari del Terzo Reich, spettavano 184 calorie al giorno. Il loro numero sarebbe cresciuto fino a sfiorare il milione di persone. «C’è un’indifferenza raccapricciante verso la morte che, essendo onnipresente, non fa più paura a nessuno. Si passa accanto ai cadaveri senza farci più caso», è la testimonianza di Emmanuel Ringelblum, storico e attivista del ghetto. La morte era la seconda pelle che gli ebrei si portavano addosso, mentre quella vera si assottigliava per la fame e le malattie, mentre il sovraffollamento diventava ogni giorno più drammatico con i nuovi arrivi. «I nuovi arrivavano a rimpiazzare i vivi, ma solo per un breve intervallo di tempo», ricordò Michel Mazor, uno dei sopravvissuti. La morte diventò più vicina quando cominciò la prima grande deportazione di massa dal ghetto verso il lager di Treblinka.
E furono le deportazioni e gli eccidi nella foresta di Nowogròdek-Wilno a innescare la decisione d’intraprendere la lotta armata. «I tedeschi potevano annullarci ma non asservirci», continua Mazor nel suo racconto. «È per questo che nessun ebreo si vergogna di raccontare ciò che ha subìto per mano dei carnefici. Egli non considera quelle come sevizie inflitte da un uomo a un altro, ma come morsi di cani rabbiosi o guasti provocati da un fulmine». La lotta contro i «cani rabbiosi» diventò un’ossessione soprattutto per i giovani del ghetto. Studiosi della storia ebraica come Raul Hillberg non sono mai riusciti ad appurare come mai trapelassero nel ghetto notizie come quella della tentata autodifesa armata a Nowogròdek, ma tutte le testimoninaze concordano nel ricordare come, dalla primavera del ’42, si cominciasse a considerare la «bella morte dignitosa» con le armi in pugno preferibile a quella passiva, da deportati nei lager. Scrisse Antoni Slonimiski: «È possibile che gli innocenti sacrificati perdessero non solo la vita ma anche la dignità e l’onore?» Sapendo di essere comunque condannati, gli ebrei del ghetto intensificarono le attività politico-associative interne e i contatti clandestini con l’esterno. La grande delusione venne dal rifiuto ad assicurare il proprio appoggio della resistenza polacca. «Temevano che tutta Varsavia potesse seguire la ribellione del ghetto senza essere preparata», è il ricordo di Stefan Grajek.
E allora soli, a mani nude, i ribelli del ghetto di Varsavia scrissero la pagina di «resistenza attiva» al nazismo cui l’ebraismo mondiale va più fiero. La rivolta esplose il 16 aprile, nel giorno della Pasqua ebraica. Ci furono combattimenti fin nelle fogne, con il ghetto difeso palmo a palmo in innumerevoli azioni eroiche. La rivolta fu stroncata il 16 maggio, con un bilancio imprecisato di migliaia di morti e di 56.065 catturati e poi sterminati. Ai piedi del monumento bello e terribile che ricorda quei giorni, nel centro di Varsavia, il 16 aprile scorso cinque sopravvissuti, tra cui l’ultimo leader ancora vivo, l’ottantunenne Marek Edelman, hanno posto corone di fiori.

(Il Mattino, 14 maggio 2003)

resistenza
ricerca
anpi
scrivici
home
home         ricerca        

anpi

        

dibattito

        scrivici

 

.