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Dibattito

Resistenza e revisionismo

Partigiani buoni, partigiani cattivi

di Enzo Siciliano

Il 25 aprile del 2002, età berlusconiana, è passato e un segno ha voluto lasciarlo. Ci è stato detto da alcuni uomini della maggioranza con varie sfumature, e contro quanto ha detto lo stesso presidente della repubblica, che, se il valore dell’antifascismo è indiscutibile, se il fondamento della Costituzione repubblicana sta comunque in esso, c’è una distinzione da fare: di qua un antifascismo buono, di là un antifascismo cattivo. È anche stato detto che i morti di quella battaglia sono tutti uguali e che a tutti quei morti va reso un pari onore.
Il sangue della storia non ha nomi, è vero. Però ci sono modalità diverse con cui in essa si muore. Se dimenticassimo quelle modalità la storia non avrebbe senso. Il ragazzo partigiano impiccato e strozzato col filo spinato e che gridava «viva la libertà» anche col fazzoletto rosso al collo ha segnato in modo indelebile il proprio nome nella lunga striscia di onori che fa corona alla democrazia italiana.
Gli altri, i ragazzi che lo strangolarono in quel modo atroce, se poi morirono, morirono per opposti motivi. Vogliamo dimenticare questa differenza? Se lo vogliamo, sarà impossibile rendere democraticamente onore a nessuno.
Privare il nostro paese delle ragioni che lo hanno portato nel campo dei democratici significa privare di significato tutte le parole che nella lunga sofferenza antifascista sono state pronunciate - le parole che sono defluite come concime fecondo nel testo della costituzione.
I ministri in carica, con il loro presidente alla testa, hanno giurato su quelle pagine al momento della loro investitura: non possono pensare che il senso di esse sia diverso da quello che è. Sono pagine scritte da tutti gli antifascisti, e il loro inchiostro fu per tutti loro uguale. Nessuno ci venga a dire perciò che ci furono antifascisti buoni e antifascisti cattivi, i liberali e i comunisti.
Il lasciapassare per la democrazia, per fortuna in quei giorni, ebbe un colore solo. Ed era il frutto della singolarità di una vicenda che aveva anzitutto unificato nelle carceri, nel confino delle isole i ragazzi antifascisti di qualsiasi colore. La dittatura non faceva distinzioni: e la risposta della democrazia non poté farne, e garantì per tutti.
D’altra parte, la mano del ragazzo in nero che strangolava col filo spinato il ragazzo rosso o bianco era mossa da un credo dove dominavano la discriminazione razziale, la sopraffazione e la tortura come metodo politico, il gas come strumento d’una folle ecologia antropologica. Da un lato c’erano Villa Triste e via Tasso, dall’altro i morti delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto.
La vittoria antifascista ci fu perché tutti fossero liberati da quegli incubi. Non fu una sanatoria che non facesse differenza di valori: si vinse perché un valore solo, la libertà, riscattasse tutti gli italiani, nessuno escluso, dal dolore patito.
I comunisti scrissero e firmarono tutto questo al pari degli altri nella costituzione repubblicana, con solennità e lealtà lungamente provata. Se poi la Guerra Fredda potè spaccare l’Italia in due, oggi che quel freddo è del tutto scongelato, perché ricodificarlo in ammicchi che hanno dell’osceno e il cui senso riverdisce il vizio di ostilità che già in quel 1945 erano state di fatto obliterate?
La nostalgia per la dittatura mussoliniana trovò spazio nel parlamento italiano, perché sparisse nel tempo e non per conservarsi in salamonia in vista di sviluppi futuri. Perché cavillare con insistita, rissosa miopia su quel che di straordinario gli italiani democratici e liberali furono capaci di costruire al segno di una profonda unità?
Mi tornano alla mente alcuni versi di Walt Whitman, che dicono su per giù: «Il lasciapassare per la democrazia è questo perdio!: non accetterò niente di cui tutti non possano avere il corrispettivo alle stesse condizioni».

(l'unità, 25 aprile 2002)

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