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El Alamein, ricordare è necessario per riconciliare

Lo storico Mario Isnenghi a proposito del progetto di Ciampi, della "disfatta gloriosa" e del cittadino soldato

di Nicolò Menniti-Ippolito

Le polemiche nate in occasione delle celebrazioni della battaglia di El Alamein continuano. E continuano su piani diversi: ora politico, ora etico, ora storico, in un continuo guardare a due realtà diverse, quella di ieri e quella di oggi, in modo sovrapposto, con uno strabismo che rischia di confondere più che di chiarire. Ci si chiede, allora, se è stato solo il conto tondo degli anni, i 60 dalla battaglia, a far vivere questo anniversario in modo diverso, oppure la presenza di ex missini al governo, oppure, ancora, l'attesa di un film che può riaprire la discussione. «Il 23 ottobre - dice Mario Isnenghi, uno dei maggiori storici contemporanei italiani- cade ogni anno, il film deve ancora uscire, e quindi io credo che a catalizzare l'attenzione sia stata la presenza sul posto del Presidente Ciampi, che ha incluso El Alamein nel suo progetto politico e culturale di mappatura dell'immaginario e di risignificazione dei luoghi della memoria, per ricostruire una galleria di famiglia degli italiani». Secondo Isnenghi, Ciampi sta provando a ricomporre un lessico nazionale, puntando con la sua presenza a segnalare le icone, i nodi della storia italiana, ciò che scandisce il farsi di quello che lo storico chiama il "noi difficile" degli italiani. «Uno come me - dice Isnenghi - che si è occupato professionalmente dei luoghi della memoria non può che guardare con interesse a questo progetto. Mi piacerebbe analizzare nei gesti e sui testi il modo in cui si andrà concretizzando. Ora, in questo itinerario ci sono ricuperi, come Cefalonia o il luogo dell'Appennino in cui è stato ucciso il maestro dei Piccoli maestri Toni Giuriolo, che possono compiacere la cultura antifascista, ed altri che possono turbare come El Alamein; ma io non ritengo che il Presidente concepisca una politica della memoria ispirata alle "quote", credo invece che persegua una strada di riconciliazione, che non sia un oleografico vogliamoci bene, ma il riconoscimento di quei conflitti costitutivi che sono alla base della Repubblica Italiana». Per Isnenghi la riconciliazione non può che essere un ricordare, non un dimenticare, e questa è l'operazione controcorrente che Ciampi sta compiendo. «Per esempio - dice lo storico - ora so che se dovessi ampliare i miei volumi sui luoghi della memoria dovrei inserire due voci importanti come Foibe e El Alamein che sono imperiosamente ricomparse. In El Alamein, come in Cefalonia, mi sembra anche di riconoscere un carattere precipuo dell'immaginario italiano e una forma compensativa dell'eroico, che è quello della disfatta gloriosa: fin dal Risorgimento, basti pensare al 1848-49 a Venezia o alla Repubblica Romana».
Ma proprio perché El Alamein è una sconfitta non ignominiosa è sorta in parte la polemica. Quel coraggio italiano era così giusto? «Mi pare che il coraggio nel caso di un militare sia una virtù e che in un caso come questo possa anche bastare. A combattere era l'esercito italiano, e non dimentichiamo che nel 1942 la scollatura tra gli italiani e il fascismo stava giusto formandosi. Ed anzi probabilmente El Alamein ha contribuito ad alimentare questa fuoruscita mentale dal fascismo, che poi arriverà al nodo vero, e cioè al pensiero - duro ed estremo - di una consistente parte del paese che la sconfitta dell'Italia non fosse un male. Si può ritenere che la scelta sia tra lasciare El Alamein come rancorosa memoria di parte a quei nostalgici che nel dopoguerra pensano che la guerra sia stata persa per il disfattismo del ceto dirigente, o riconoscervi un passaggio doloroso della memoria collettiva». Ma se questo è vero, come collocare l'intervento di Ferdinando Camon ed il suo richiamo, in riferimento ad El Alamein, al fatto che non sempre combattere per la patria è giusto e onorevole? Per Mario Isnenghi il problema posto da Camon è centrale. «Il richiamo è coraggioso perché pone un problema radicale, allora e sempre. E' vero cioè che ogni cittadino soldato ha il dovere di interrogarsi sulla giustizia dell'atto che è chiamato a compiere. Dei regolamenti militari riconoscono questa possibilità di obiezione ed è indubbio che in qualche modo debba essere così. Però dall'altra parte c'è la considerazione che nessun ordinamento può estendere questo illimitatamente, perché alla fine non esisterebbe più come potere, ed un esercito in cui ogni soggetto potesse di volta in volta stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è finirebbe per non essere più un organismo efficiente». E tuttavia il problema rimane, quasi insolubile, delineando un conflitto tra individualità e necessità collettiva. «In qualche modo - dice Isnenghi - è più facile la posizione di un pacifista assoluto, che dice no a qualsiasi guerra e a qualsiasi forma di esercito. Porsi il problema, invece, della legittimità specifica è complesso, implica un giudizio di coscienza che il cittadino non può non dare, ma anche il rischio di uno svuotamento degli ordinamenti statuali. Benedetto Croce alla vigilia della prima guerra mondiale diceva che combattere per la patria quando la patria chiama era comunque di per sè un atto morale, soluzione che oggi può apparire accomodante. Credo però che - almeno per chi si muova nell'ambito delle compatibilità e non degli assoluti - immaginare una decisione tutta autonoma di adesione o meno delinei un libertarismo rispettabile, ma poco praticabile».

(La Tribuna di Treviso, 7 novembre 2002)

 

 

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