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Campagna di Russia

Quando i tedeschi giunsero alle porte di Mosca

di Fabrizio Dragosei

Per due anni le divisioni panzer del terzo Reich avevano corso per l’Europa. La possente linea Maginot era stata tagliata come burro. Le truppe inglesi in Nord Africa continuavano a ritirarsi verso il canale di Suez. I Balcani avevano creato qualche problema dapprima ma ormai la svastica sventolava sul Partenone. L’avanzata ad Est, prima in Polonia e poi nell’Unione Sovietica, era stata trionfale, irresistibile.
Così all’inizio di ottobre di sessant’anni fa i generali di Adolf Hitler si preparavano a dare l’ultimo colpo al gigante comunista. Quel «calcio» che secondo il Führer avrebbe dovuto abbattere definitivamente l’Urss e aprire la porta alla Germania di un territorio vasto come gli Stati Uniti e il Canada messi assieme. Era l’attacco a Mosca, la capitale del bolscevismo che, una volta conquistata, avrebbe dovuto essere incendiata e rasa al suolo, secondo i piani del Führer.
Anche se già la Wehrmacht qualche segnale lo aveva avuto nelle ultime settimane (la ritirata da Rostov, la forte resistenza sul Caucaso e a Leningrado, l’inizio della guerra partigiana), fu però proprio alle porte di Mosca che le cose cambiarono. E cambiarono per non tornare mai più come prima: per la prima volta la possente macchina da guerra tedesca fu fermata. Entro poche settimane i russi passarono anzi all’offensiva e l’intero fronte fu sul punto di crollare. Nell’inverno tra il ’41 e il ’42, uno dei più freddi della storia, il mondo assistette alla prima vera disfatta di quell’esercito che si riteneva invincibile. Dalle porte di Mosca l’Armata Rossa iniziò un’avanzata che si sarebbe conclusa quattro anni più tardi nel bunker della Cancelleria di Berlino.
E i russi, che nella guerra mondiale (loro la chiamano «grande guerra patriottica») hanno lasciato almeno 20 milioni di morti, ricordano quando le avanguardie germaniche giunsero in vista delle guglie del Cremlino, nel sobborgo di Khimki dove oggi si trova l’aeroporto.
Tutta la campagna di Russia, l’operazione « Barbarossa », era stata segnata per Hitler da grandi successi ma anche da molti segni premonitori (non raccolti) del disastro che si preparava per la Germania. L’attacco improvviso sull’intero fronte orientale era iniziato il 22 giugno, con grande ritardo rispetto ai piani a causa del prolungarsi dell’inattesa campagna balcanica. Comunque le divisioni panzer inondarono le pianure ucraine e bielorusse come previsto. I caccia distrussero a terra buona parte dell’aviazione russa. Intere divisioni vennero accerchiate e ben presto i tedeschi si trovarono tra le mani almeno 3 milioni di prigionieri.
L’avanzata era proseguita per tutta l’estate su tre fronti, a nord verso Leningrado, al centro verso Mosca e a sud verso il Caucaso e i pozzi petroliferi. Senza dar retta ai suoi generali, Hitler aveva a un certo punto privilegiato l’offensiva a sud, spostando i carri del generale Guderian dal fronte centrale. Poi però, a settembre, visto che il Gigante non crollava, aveva di nuovo abbracciato la tesi del «colpo a Mosca». In Russia l’estate era però già finita, anche se l’esercito tedesco continuava a indossare le divise estive. Le piogge avevano trasformato le poche e cattive strade in fiumi di fango, particolarmente pesante a causa dell’alta presenza di argilla. L’incubo del terribile inverno trascorso in Russia nel 1812 dall’armata napoleonica iniziò a turbare i sonni degli strateghi tedeschi.
L’assalto a Mosca scattò il 2 ottobre e pochi giorni dopo cadde la prima neve. A fine mese la temperatura era già costantemente sotto lo zero. Scrisse nel diario il generale Guderian: «Per far andare i motori dei carri bisogna prima accenderci un fuoco sotto. I reggimenti hanno perduto per congelamento 500 uomini ciascuno».
I tedeschi andavano avanti, anche nella speranza di arrivare nella capitale russa e trovare lì adeguati ripari per l’inverno. Ma, come in tutta la campagna di Russia, il quartier generale tedesco aveva fortemente sottostimato le risorse dell’Urss e quelle personali di Stalin, anche se i generali diedero poi tutta la colpa a Hitler: «aveva concesso ai russi due mesi di grazia sul fronte di Mosca», scrisse il generale Blumentritt. Davanti a Mosca si scontrarono con le truppe siberiane, fatte giungere dall’Oriente.
Soldati freschi, con divise invernali bianche, abituati a combattere al gelo, equipaggiati con i «valenki», gli stivaloni di feltro (ancora in uso) che evitavano il congelamento dei piedi. I sovietici erano ben armati e appoggiati da nuovi carri e nuovi aerei. I tedeschi avanzavano, ma sempre più lentamente.
Il 2 dicembre un battaglione del 258° reggimento di fanteria si spinse in ricognizione fin dentro il centro di Khimki, un sobborgo di Mosca a meno di 20 chilometri dal centro. Gli scout affermarono di aver visto in lontananza le guglie dorate del Cremino. Già la mattina seguente però i tedeschi furono respinti, anche con il contributo degli operai usciti dalle fabbriche per combattere. La grande corsa a est era finita. La battaglia di Mosca era persa.

(Corriere della Sera, 25 settembre 2001)

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