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Il generale Massud

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Con la morte di Ahmad Shah Massud, avvenuta il 14 settembre 2001, esce di scena una figura leggendaria dell'Afghanistan degli ultimi decenni. Il generale Massud, nato nel 1953 nella valle del Panshir, 48 anni, di etnia tagika invisa ai taleban prevalentemente pashtun e impegnati in una "pulizia etnica" in questo senso, capo militare e leader dell'Alleanza del Nord, si era guadagnato l'appellativo di "leone del Panjshir" per essere riuscito ad impedire all'armata rossa di conquistare quella valle che fino all'ultimo è stata la sua roccaforte di resistenza prima ai sovietici e ora ai taleban.

Figlio di un colonnello dell'esercito afghano, era sposato: aveva tre figlie e un figlio. Aveva studiato al Politecnico di Kabul. Tra le sue letture, Mao e Che Guevara

IL MITO
Massud organizza il suo primo gruppo armato nel 1975. Nel 1979, i suoi mujaheddin combattono contro i sovietici che hanno invaso l'Afghanistan. Il suo soprannome è «Leone del Panshir». Nel 1992 entra a Kabul e diventa ministro della Difesa nel governo dei mujaheddin del presidente Buranuddin Rabbani; lascia l'incarico nel '93. E' costretto dai taleban, nel 1996, ad abbandonare la capitale ormai distrutta dai combattimenti.

DOPO IL '96
Ha tra i 15 e i 20 mila combattenti e controlla circa il 10% dell'Afghanistan. Dalla sua valle del Panjshir continua a combattere i taleban. Stringe anche alleanze meno naturali di quelle con Rabbani - anche lui parte della Jamat islami, islamismo radicale - con i nemici di una volta come il generale uzbeko Dostum, rientrato recentemente in Afghanistan.

L'ATTENTATO Massud è ferito il 9 settembre del 2001 in un attentato suicida commesso da due arabi che si fingevano giornalisti, in possesso di passaporti belgi contraffatti. I due avevano potuto avvicinare Massud e durante il colloquio avevano fatto esplodere una bomba nascosta in una telecamera.  L'attentato sarebbe maturato grazie a una triangolazione tra talebani, servizi segreti pakistani e l'onnipresente Bin Laden.

trangolino.gif (131 byte) Sito su Massud

 

L' ultima battaglia del «leone» Massud

di Ettore Mo

STRASBURGO - Questo è un mestiere che porta al cinismo, ma ci sono occasioni in cui ci si può anche commuovere. A me è toccato qui a Strasburgo, l'altro giorno, quando ho visto approdare nell'aula magna del Parlamento europeo Ahmad Shah Massud, il «leone del Panshir», leader dei mujaheddin afghani, dal '96 assediato nella sua vallata dall'orda dei Talebani, gli «studenti coranici». Questo eroe dimenticato da tutti si è presentato con il suo vestito afghano, di lino bianco, protetto appena da un soprabito beige, il berretto di felpa buttato indietro sulla dura lana dei suoi capelli, sempre più grigi sulle tempie. Ha solo 47 anni.

SEMPRE IN GUERRA - È stato sempre in guerra, lo è stato da quando ne aveva 17 o 18. Io lo incontrai la prima volta nell'81, ricordo un villaggio sulle rive del fiume Panshir, che ruggiva sotto la casa. Stavano tutti seduti in una stanzetta e lui, il capo, impartiva ordini e istruzioni tattiche ai suoi subalterni, per la battaglia del giorno dopo. Parlava un po' di francese, era di buona famiglia e il padre, un ufficiale del re Zahir Shah, lo aveva mandato al Licée di Kabul, frequentato dai ragazzi bene della capitale. Mi chiese, stupito: «Cosa fa lei qui?». Ricordo che gli risposi: «Mi hanno parlato tanto bene di lei». Durante l'invasione sovietica, ha difeso la sua vallata con i denti. Sette offensive, tutte respinte. L'obiettivo dei russi era di snidarlo, farlo fuori o comprarlo: perché Massud era il simbolo stesso della Resistenza afghana. Dal fondo valle le colonne dei blindati con la stella rossa si inerpicavano verso le sommità dell'Hindukush, ma a un certo punto erano costrette a fermarsi sotto il fuoco di sbarramento dei mujaheddin. Quel dannato figlio di puttana di Ahmad Shah Massud! In catene lo volevano portare a Kabul, per impiccarlo sulla pubblica piazza. Nell'84 s'era sparsa la notizia che fosse morto in battaglia o che era stato rapito dagli sciuravi (i russi) o che s'era venduto, come Giuda, per trenta denari. Ma a Peshawar, in Pakistan, dov'erano acquartierati i sette gruppi della Resistenza islamica, nessuno ci credeva. Era un giorno di primavera quando bussai alla porta dello Jamiat Islami (il partito di Massud) e mi trovai di fronte un vecchio amico e braccio destro del «Leone del Panshir», Massud Khalili, che ho appena rivisto e abbracciato ora a Strasburgo. «Vado a cercarlo - gli dissi - e sono certo che è vivo e vegeto». «Sei pazzo, pazzo come lui, ma sono certo - mi disse - che lo troverai: e in buona salute».

«SIETE IL BENVENUTO» - Ci vollero 40 giorni per arrivare in Panshir, nonostante la resistenza e la buona volontà del mio cavallo Taraki. Massud stava seduto su una collinetta e aveva tra le ginocchia una mappa militare su cui disponeva noccioline e chicchi di uva passa. «Vous étes le bienvenu», siete benvenuto, disse appena mi vide sbucare. La settima offensiva sovietica era finita, come le altre, in un fiasco. «L'avevano battezzata - disse con quel suo sorriso sempre dolcemente ironico - "Goodbye, Massud", addio, Massud: adesso sono costretti a cambiarla in "Au revoir, Massud", arrivederci. Stia tranquillo, amico mio, prima o poi li butteremo fuori, e per sempre, questi sciuravi». I russi se ne andarono nell'89, ma il Leone del Panshir e gli altri leader della Resistenza islamica dovettero lottare per altri quattro anni contro il regime filo-sovietico di Najibullah, che Mosca continuava a sostenere. Rividi Massud nell'aprile del '92, il giorno prima che i mujaheddin prendessero Kabul e dessero il colpo di grazia all'agonizzante governo marxista. Ho un'immagine vivida del comandante che passa in rassegna i suoi uomini nell'accampamento di Jabal Saraj (una sessantina di chilometri dalla capitale) e raccomanda loro, uno per uno, di « comportarsi bene»: niente prede di guerra, doveva essere una grande festa per tutti gli afghani che avevano riconquistato la libertà. Massud s'era illuso. Tornarono a galla gli antichi rancori tribali ed ecco che il governo democraticamente e legittimamente eletto a Kabul sotto la presidenza del professor teologo Rabbani (leader dello Jamiat Islami) e con Massud vicepresidente e ministro della Difesa viene immediatamente aggredito dai falchi dello Hezbi Islammi, che fa capo a Gulbuddin Hekmatyar, il torvo irriducibile rivale del Leone di Panshir fin dai tempi dell' invasione sovietica.

GUERRA CIVILE PER DUE ANNI - È guerra civile per oltre due anni, perché Hekmatyar giorno e notte scarica missili su Kabul da un'altura a 25 chilometri dalla capitale, facendo strage di civili. Ma nel momento in cui anche questo nemico interno viene ridotto all'impotenza, ecco che piombano in casa i Talebani. È stata certamente la loro ultima, sciagurata impresa a fine febbraio (la distruzione del Buddha a Bamiyan) a spingere a Massud a uscire dall'isolamento e a intraprendere il suo viaggio per l'Europa. È venuto a supplicare, a chiedere aiuto. È difficile credergli quando sostiene che il conflitto con i cosiddetti «guerrieri di Dio» potrebbe essere risolto con una «soluzione politica» e non manu militari: per questo, ha detto, l'Afghanistan ha bisogno dei Paesi europei perché «facciano pressione sul Pakistan» affinché desista dal suo appoggio (politico, economico e, soprattutto, militare) ai Talebani. A tu per tu, mi lascia capire che la situazione nel territorio da lui controllato (che è sostanzialmente il Panshir) è drammatica. Nella zona c'è un milione di profughi, le difficoltà sono state amplificate dalla carestia e da un clima perfido, manca il cibo, manca tutto. È stato di grande aiuto l'ospedale instaurato dal chirurgo milanese Gino Strada, che recentemente ne ha aperto un altro a Kabul: «A chi mi chiede quale è stata la mia reazione a questa iniziativa - dice Massud -, cioè al fatto che sia stata instaurata una struttura sanitaria proprio nel feudo dei nostri nemici, rispondo che ne sono felice e che la condivido in pieno: perché va a beneficio di tutti noi, degli afghani». È evasivo sulla situazione militare, che le cronache più recenti ha nno definito «precaria» e «pericolosa» per i suoi mujaheddin, soprattutto al Nord: «Ciò che posso dire - è il suo commento - è che la nostra gente ha ormai capito chi sono veramente i Talebani, ed è solidale con noi. Credo che si siano resi conto, finalmente, che dietro i Talebani c'è un Paese straniero, il Pakistan». Che ne è di Hekmatyar in questi giorni? «Ah - taglia corto -, è quello di sempre. Sta tramando con il mullah Omar, il capo dei Talebani, e con il re dei terroristi islamici integralisti, il super miliardario saudita Osama Bin Laden, per instaurare in Afghanistan una vera teocrazia. Si sono dati appuntamento a Kandahar».

(Corriere della Sera, 16 settembre 2001)


 

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