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La questione afghana

trangolino.gif (131 byte) Storia. Afghanistan, l'incubo degli eserciti (a cura di Bernardo Valli)

IL BAZAR di Jalallabad era avvolto dal fumo dei bracieri sui
quali cuocevano gli spiedini di agnello. Ne sentivi la vicinanza
a più di cento metri. Ti guidava l'odore della carne alla griglia
al quale si mischiava quello meno aggressivo del tè al
cardamomo. Il bazar era un punto di riferimento. C'era un
incrocio dove, invece di prendere la strada asfaltata diretta a
Peshawar, in Pakistan, continuavi su una larga pista di terra
battuta. La quale portava a Hadda. Quella era a volte la mia
meta, nei primi anni Ottanta, durante l'occupazione sovietica,
quando era ancora possibile (fingendosi uomo d'affari o
turista) visitare l'Afghanistan.
A Hadda, un grosso borgo, mi attiravano due cose: la
guerriglia e le statuette di stucco Gandhara. La prima, la
guerriglia, non la vedevi direttamente. Gli scontri avvenivano
nelle ore del coprifuoco. La mattina, misurando la paura e la
diffidenza negli sguardi e nelle andature della gente, capivi se
la notte era stata agitata.

ALL'HOTEL Spinghar di Jalallabad, tra le rose di uno
splendido giardino, i miliziani comunisti mi avevano per la
verità già raccontato quel che era accaduto prima dell'alba.
Tenevano il kalaschnikov sul tavolo, mentre bevevano il
caffè, avevano le scarpe infangate, gli occhi rossi per la
stanchezza, e parlavano volentieri delle loro imprese notturne.
Capitava dunque che arrivando a Hadda fossi dunque al
corrente dei rastrellamenti e degli ammazzamenti. La
provincia di Nangarhar, di cui Jalallabad è il capoluogo, ha un
clima mite. Quasi mediterraneo. Non conosce i rigori di
Kabul, che è a più di mille e settecento metri. Non credo che
Jalallabad superi i cinquecento. Anche d'inverno, nelle ore di
sole, puoi dunque bere una tazza di tè all'aperto, davanti a una
" tchai-khana". Ed è quel che facevo a Hadda, a una decina
di chilometri da Jalallabad. Rudyard Kipling ha ragione: i
pashtun (il gruppo etnico principale) sono bellicosi, fieri e a
volte anche un po' fanfaroni. Dopo avere dissipato il naturale
sospetto sulla mia identità - potevo infatti essere preso per un
russo, quindi un usurpatore, una spia - accadeva che
l'interprete riuscisse ad allacciare un dialogo con gli abitanti.
Allora le lingue si scioglievano. Il fatto che io fossi italiano
non diceva proprio nulla. Capivo dagli sguardi smarriti che la
gente non riusciva a collocarmi con precisione sulla mappa
del mondo. Ricorrevo allora al nome di Roma, la città,
precisavo, dove abita il Papa, capo dei cristiani. Questo
accendeva un certo interesse. Ad attirare l'attenzione era
comunque un collega americano, mio occasionale compagno
di viaggio. L'America era popolare. Era allora la potenza
nemica dell'Unione Sovietica, che aiutava la resistenza
islamica. La seconda cosa che mi attirava a Hadda erano le
statuette di stucco greco-buddiste estratte dagli scavi
archeologici, a circa due chilometri dal villaggio. L'arte
Gandhara, scoperta nei musei di Lahore, di Peshawar, e
prima ancora al Guimet di Parigi (purtroppo non sono mai
riuscito a vedere il museo di Kabul, già chiuso a quell'epoca)
mi aveva sorpreso e incuriosito. Poi appassionato. A Hadda,
tra i resti di un monastero buddista, i cui tempi di gloria
risalivano ai primi sei secoli dopo Cristo, gli archeologi
avevano scoperto guerrieri baffuti, monaci ispirati, dignitari
panciuti e vari Budda digiunanti o già maturi. Quell'arte, nata
dalla reazione indigena all'invasione di Alessandro il Grande e
al dominio dei successori, è una straordinaria testimonianza di
come nell'Afghanistan, terra impervia e appartata, annidata
tra montagne invincibili, si trovino tracce di tante civiltà:
greca, persiana, indiana, cinese, araba... Sulla strada per
Kabul, una strada d'inverno ghiacciata e in quegli anni tanto
stretta da essere in più punti impraticabile per i carri armati
sovietici, non dimenticavo mai di gettare un'occhiata
rispettosa, in prossimità della capitale, a una pista che si
inerpicava con audacia sulle montagne coperte di neve, come
se fosse diretta in cielo. Ed era, è ancora, secondo la
leggenda, un tratto della Via della Seta percorsa da Marco
Polo in viaggio verso il Catai. Peshawar, la città pakistana di
frontiera, era una tappa obbligata prima di ogni viaggio in
Afghanistan. I vari movimenti di resistenza avevano i loro
uffici di rappresentanza a breve distanza uno dall'altro. Erano
come vetrine allineate sullo stesso percorso. Un giorno andai
con Danielle Eyquem a vedere i dirigenti dell'Hezb-e islami,
in cui militavano molti intellettuali musulmani integralisti.
Credo fosse allora uno dei gruppi più importanti. Senz'altro
uno dei più intransigenti. Probabilmente le radici degli odierni
Talibani affondano anche in quel movimento. Io ero
interessato soprattutto alle imprese belliche, anche perché
avevo appena visitato un ospedale pieno di giovani mutilati
dalle mine sovietiche. L'aspetto politico, o religioso, non mi
appassionava molto. Danielle Eyquem era invece molto
attenta alla natura dei gruppi islamici. Era una giornalista
esperta del mondo arabo, aveva una profonda conoscenza
dell'Islam, e uscì sconvolta da quella visita. Nessuno aveva
incrociato il suo sguardo. Nessuno aveva risposto
direttamente alle sue domande. Nessuno le aveva stretto la
mano. Era una donna e non meritava attenzione. Danielle mi
disse: "Non vorrei averli come alleati". Per gli americani
erano al contrario alleati preziosi. Costavano qualche milione
di dollari, e, insieme agli altri gruppi di resistenza, logoravano
il corpo di spedizione sovietico. Il quale contava centomila
uomini. Centomila uomini caduti nella trappola afghana. Otto
anni dopo la sconfitta americana in Viet Nam, i sovietici
erano andati a impantanarsi in un loro Viet Nam, che avrebbe
contribuito al crollo dell'impero comunista. La Cia era molto
attiva a Peshawar. Il Consolato degli Stati Uniti conosceva
un intenso andirivieni. In una libreria situata proprio accanto
al suo ingresso, era esposto in vetrina un libro in cui un ex
agente della Cia raccontava le sue avventure. In particolare
come avesse lavorato per anni nel tentativo di dinamizzare le
confraternite musulmane segrete sopravvissute nelle
repubbliche dell'Asia sovietica e in Afghanistan. Nessuno
poteva immaginare, vent'anni fa, che l'integralismo islamico
finanziato dalla Cia per combattere l'Urss si sarebbe rivelato
col tempo un boomerang. E che gli Stati Uniti si sarebbero
trovati, a loro volta, davanti alla trappola afghana. A volte
arrivavo a Kabul con un piccolo aereo che decollava da
Peshawar e si insinuava come un giocattolo tra le montagne
innevate. I passeggeri erano in maggioranza giovani. Per lo
più giovani americani intenti ad aspirare hascisc. Era una
fumeria volante. Ricordo che una volta, mentre l'aereo stava
per atterrare, indicai alla ragazza che mi era seduta accanto
un accampamento sovietico alle porte di Kabul. Non fu per
nulla incuriosita. Continuo' a dedicarsi al suo spinello, senza
gettare neppure uno sguardo attraverso l'oblò. Erano giovani
diretti negli Stati Uniti, dopo un soggiorno in India, che
approfittavano delle basse tariffe delle linee aeree afghane.
A Kabul non uscivano dall'aeroporto, aspettavano la partenza
per New York stesi sul pavimento della zona transito, che
presto si trasformava in una fumeria. Una fumeria protetta
dall'Armata Rossa. Quello strano traffico cessò quando
peggiorò la situazione militare. L'ingresso in Afghanistan via
terra avveniva attraverso il Khyber Pass. Il viaggio era
spettacolare, equivaleva alla lettura di tante pagine di storia.
Sulla sinistra, salendo verso la frontiera, nel pieno della "zona
tribale" (dove, almeno formalmente, non erano in vigore le
leggi pakistane, ma le usanze delle tribù locali) si vedevano le
caserme dei reggimenti incaricati di presidiare una delle più
tormentate vie d'accesso all'India britannica. Come
corrispondente da Londra del New York Daily Tribune
(quotidiano progressista, per l'epoca a grande diffusione, 200
mila copie) Karl Marx scrisse più volte sugli avvenimenti che
agitarono quel confine. Egli giudicava molto simili la
resistenza afghana e quella polacca. Le indicava come
esempi di opposizione tenace, coraggiosa alle invasioni
straniere. Come la Polonia, l'Afghanistan doveva difendersi
dagli imperi che la stringevano a tenaglia. Da un lato quello
russo, dall'altro quello britannico. Entrambi ansiosi di non
cedere all'altro il controllo di un paese strategicamente
decisivo nell'Asia centrale. La prima tenzone condusse gli
inglesi a superare il Khyber Pass e a raggiungere (1839)
Kabul. Dove pero' furono assediati nei loro accampamenti a
tal punto da dover percorrere, qualche anno dopo, a ritroso il
Khyber Pass, tra le cui gole subirono gravi perdite. La
seconda guerra anglo-afghana (1878) non fu meno ricca di
rivolte e rappresaglie, di assassinii e massacri, nonostante il
protettorato britannico fosse stato infine accettato dagli
afghani. Una terza guerra (1919) sarà decisiva perché
porterà in alcuni mesi a un'indipendenza vera
dell'Afghanistan. Un'indipendenza non più limitata dal
controllo britannico sui rapporti internazionali. Da allora
saranno le lotte intestine tra le tribù, e tra le tribù e il potere
monarchico a insanguinare il paese, fino al colpo di Stato e
alla proclamazione della repubblica (1973). La successiva
presa del potere dei comunisti, e l'inevitabile faida tribale tra i
loro capi, ha finito col provocare l'intervento sovietico. Il
quale si è concluso nel gennaio '89, l'anno del crollo del Muro
di Berlino. Per cui oggi gli islamisti pensano di avere demolito
l'Unione Sovietica, e quindi di essere in grado di sconfiggere
anche l'America, ai loro occhi la superpotenza superstite. Se
si chiude nelle sue tragedie, e la frontiera diventa invalicabile,
l'Afghanistan diventa lunare, ossia irraggiungibile, non solo
fisicamente. Questa era la mia impressione quando, nei primi
anni Ottanta, non riuscii più a prendere il piccolo aereo di
Peshawar e a superare il Khyber Pass. Come gli inglesi nel
secolo precedente, anche i sovietici finirono con l'essere di
fatto assediati nei loro accampamenti. L'ultima volta che
andai a Kabul dormii in un albergo in cui alloggiavano molti
ufficiali dell'Armata Rossa. Mancavano ancora cinque anni
alla loro definitiva ritirata, ma vivevano già (all'hotel Kabul)
come in una fortezza, anche psicologica. Capisco come
adesso i reduci russi di quella guerra sconsiglino agli
americani di mettere piede in Afghanistan.

(la Repubblica, 22 settembre 2001)

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