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Protagonisti

I sovrani - I capi di Stato - I generali - Gli eroi

 

I SOVRANI

GUGLIELMO II (re)

Nato nel 1859, fisicamente debilitato dalla poliomielite, restò sul trono per 30 anni fino a quando, travolto dagli eventi bellici, fu testimone, impotente, della fine del grande reich tedesco.

Di carattere forte, autoritario, si scontrò ben presto con il cancelliere Bismarck, costringendolo al ritiro dalla vita politica.

Convinto assertore della necessità di una Germania destinata a recitare il ruolo di potenza dominatrice, la sua ambizione, accompagnata da una politica estera aggressiva e provocatrice, lo portò ben presto ai ferri corti con Inghilterra, Francia e Russia.

Lo spavaldo imperialismo del kaiser, teorico di un grande reich volto all’unione di tutti i popoli di stirpe tedesca, fu accompagnato da un piano di riarmo incentrato soprattutto sulla costruzione di una grande flotta da guerra, in grado di contendere, all’Inghilterra, il dominio sui mari.

Durante il conflitto concesse ampi poteri militari e politici al duo Hindenburg-Luderdoff, che monopolizzarono, di fatto, le decisioni, fino alla chiusura delle ostilità.

Nel novembre 1918 l’impero tedesco, stremato da quattro anni di guerra, affamato dal blocco navale alleato ed ormai sull’orlo di una guerra civile, cadde a pezzi e si disintegrò; dalle sue ceneri nacque la repubblica, mentre Guglielmo II fu costretto alla fuga in Olanda a Doorm, dove visse, in esilio, assistendo all’invasione della Francia, da parte delle truppe naziste, che riuscirono, dunque in quella impresa che i suoi eserciti, fermati sulla Marna, non furono in grado di ottenere.

Morì, mestamente, nel 1941, sperando fino all’ultimo in una restaurazione della monarchia; deluso dai nazisti, sia per la loro politica, sia perchè non gli permisero il rientro in patria, pur avendo ordinato che al suo funerale non comparissero svastiche, queste trovarono comunque spazio sulla corona di fiori inviata da Hitler, che volle così rendere omaggio a quello che fu il suo kaiser.

 

FRANCESCO GIUSEPPE (re)

Nato a Vienna nel 1830 è stato, con i suoi 68 anni di regno, tra i sovrani più duraturi dell’età contemporanea, assieme alla regina Vittoria d’Inghilterra e al re d’Italia Vittorio Emanuele III.

Salì, infatti, giovanissimo, al trono di Autria-Ungheria, nel 1848, in seguito all’abdicazione dello zio Ferdinando e alla rinuncia del padre Francesco Carlo.

Durante i lunghi anni di regno fu testimone della decadenza di un impero, ridimensionato dalle sconfitte subite dall’Italia e dalla Prussia e ormai soltanto il pallido ricordo della grande potenza che fu.

Come se non bastasse il declino della duplice monarchia, la sua vita personale fu segnata da profonde e tristi tragedie: il figlio Rodolfo morì suicida nel 1889, la moglie Elisabetta fu assassinata nel 1898, il fratello Massimiliano fu fucilato, nel 1867, in Messico; a questi lutti si aggiunse l’episodio che fece precipitare il mondo nella tragedia, l’uccisione, a Sarajevo, del fratello Francesco Ferdinando erede al trono designato.

Ormai stanco, anziano, morì, nel cuore del primo conflitto mondiale, nel 1916; gli subentrò il nipote Carlo I, ma l’impero non sopravvisse alla fine del suo grande e illustre regnante:

ormai in piena disgregazione politica, sotto le spinte nazionaliste degli stati e delle etnie che ne facevano parte, la grande, duplice, monarchia di Austria-Ungheria, cessò di esistere nel 1918.

 

NICOLA II (zar)

Nato nel 1868, fu l’ultimo zar, l’ultimo regnante di una casata, i Romanov, travolta dal ciclone della rivoluzione del 1917.

Figlio di Alessandro III, sia pure poco propenso ad assumere un ruolo di così grande prestigio, salì al trono nel 1894, ponendosi alla guida di un paese indebolito dalla sconfitta militare con il Giappone e sull’orlo del collasso economico.

Nel 1905, al termine della guerra contro le forze del Sol Levante, scoppiarono in tutto l’impero scioperi e tumulti, duramente repressi dall’esercito; a San Pietroburgo la guardia nazionale aprì il fuoco sui manifestanti, facendo una strage.

In seguito alla malattia del figlio, emofiliaco, Aleksej, la moglie Alice decise di avvalersi dei servigi del losco monaco e taumaturgo Rasputin, che, facendo leva sulle sue presunti doti di guaritore, finì per condizionare, in maniera sempre più pressante ed ai limiti del plagio, la vita di corte; l’ influenza di questo oscuro individuo, anche nelle decisioni politiche, condusse al suo assassinio, nel 1916, per mano del principe Jusupov.

Allo scoppio delle ostilità Nicola II si portò stabilmente al fronte alla testa delle sterminate, ma male equipaggiate, armate russe ma, i nuovi disordini scoppiati a S.Pietroburgo nel marzo 1917, da una popolazione messa in ginocchio dalla guerra, furono a lui fatali:

era l’inizio della rivoluzione, che lo costrinse all’abdicazione e che avrebbe portato, dopo l’ ascesa al potere di Lenin, alla nascita dell’Urss; lo zar e tutta la famiglia furono confinati a Ekaterinburg, ove, nel 1918, nel corso della guerra civile, vennero fucilati dal soviet locale, che ne temeva la liberazione ad opera delle armate bianche controrivoluzionarie.

 

VITTORIO EMANUELE III (re)

Nato nel 1869, divenne re alla morte del padre Umberto I, assassinato a Monza per mano dell'anarchico Gaetano Bresci, e per ben 46 anni sarebbe restato alla guida di un Italia sconvolta da due tragici conflitti e da 20 anni di dittatura. Uomo di bassa levatura e di limitate doti di comando, decretò, con i suoi innumerevoli errori, il tramonto della monarchia a favore della repubblica, al termine della seconda guerra mondiale. Dopo i fatti di Sarajevo, decise, nel 1915, fiancheggiato dal primo ministro Salandra, di entrare in un conflitto drammatico, che da quasi un anno stava insanguinando l’Europa, pur senza l’approvazione di un parlamento a chiara maggioranza neutralista. Nel 1922, pur potendo bloccare la marcia su Roma, preferì accordare fiducia a Mussolini, aprendo la via a 20 anni di dittatura, culminati nell’orrore delle leggi razziali (da lui stesso, in persona, firmate) e nell’alleanza con il III reich nazista. Completamente emarginato e ridotto a personaggio di facciata, visse ai margini della politica, godendo dei benefici che il fascismo gli riservò, fino a quando, con l’esercito italiano in rotta, con la Sicilia caduta in mano alleata, decise, il 25 luglio 1943, di liberarsi di un regime, non più prodigo di onorificenze, ma divenuto perdente. In seguito alla firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943, si macchiò, con tutto il suo seguito, della vergognosa fuga da Roma verso Brindisi, abbandonando il suo paese, il suo popolo, i suoi soldati, alle agghiaccianti ritorsioni naziste. Dopo la liberazione, il suo tentativo di salvare la monarchia, abdicando in favore del figlio Umberto, si rivelò del tutto inutile, in quanto gli italiani, memori delle sofferenze cui dovettero soggiacere, a causa della sua leggerezza e della sua assoluta mancanza di coraggio, optarono per la repubblica, costringendo i Savoia, ad un esilio tuttora vigente. Morì, mestamente, ad Alessandria d’Egitto nel 1947, lontano, per sempre, dal suolo patrio.

 

I CAPI DI STATO

WOODROW WILSON

Fu il presidente della svolta, colui che pose fine al dorato isolamento degli Stati Uniti, decidendo, nel 1917, l’entrata in guerra del suo paese, dopo la dichiarazione, dello stato maggiore tedesco, di voler perseguire attacchi sottomarini indiscriminati.

Nato a Stauton, nel 1856, fu docente universitario e rettore a Princeton; eletto governatore del New Jersey, divenne, alla guida del partito democratico, presidente nel 1912.

L’ingresso, nel conflitto, degli Stati Uniti, diede il colpo di grazia agli imperi centrali, che, già stremati da tre anni di indicibili lutti ed affamati dal blocco navale alleato, si trovarono a dover fronteggiare un esercito fresco e ben armato, che raggiunse, in Europa, il numero di due milioni di effettivi.

Il tre gennaio 1918, con la guerra ormai agli sgoccioli, enunciò i suoi 14 punti, con i quali proponeva di stabilire i principi cardine per una pace duratura.

Fu tra i promotori della nascita della società delle nazioni ma, il trattato di Versailles vanificò la sua politica pacifista, tramutandosi in un vero e proprio accordo punitivo contro le potenze vinte; la stessa, neonata, società ebbe a divenire, fin dall’inizio, un organismo privo di poteri effettivi, ben presto abbandonato anche dagli stessi Stati Uniti, che decisero di cessare il loro impegno nelle vicende europee.

Sconfitto alle elezioni del 1920, morì, poco dopo, nel 1924.

 

GEORGES CLEMENCEAU

Nato nel 1841, studiò medicina, decidendo, solo successivamente, di dedicarsi alla politica e schierandosi all’estrema sinistra radicale.

Senatore nel 1902, ministro dell’interno nel 1906, fondò, nel 1913, il giornale "l’homme libre", ribattezzato poi, dopo lo scoppio del conflitto, "l’homme enchaine", a causa delle restrizioni dovute alla censura bellica.

Uomo di straordinaria tempra e carattere, tale da essere soprannominato "il tigre", venne chiamato, nel 1917, all’età di 76 anni, alla guida del governo, carica che ricoprì con la decisione e la fermezza di sempre e che consentì, al paese, di riconquistare vigore nella lotta al nemico.

Fu indiscusso protagonista dei trattati di pace ove ottenne, come desiderato, l’umiliazione della Germania.

Forte dei consensi ottenuti, si presentò alle elezioni del 1920 ma, la clamorosa ed inaspettata sconfitta che ne seguì, lo indusse a ritirarsi dalla vita politica. Morì nel 1929.

 

LLOYD GEORGE

Primo Ministro inglese dal 1916 al 1922, Lloyd George nacque a Manchester nel 1863; dopo gli studi in legge, ottenne la qualifica di avvocato divenendo, nel 1890, parlamentare liberale; ministro delle munizioni 1915, nel 1916 successe ad Asquith come Premier, formando, insieme ai Conservatori, il suo "gabinetto di guerra". Indiscusso protagonista della pace di Versailles, dopo la fine delle ostilità, organizzò l’appoggio agli eserciti bianchi nella guerra civile russa. Perso l’appoggio dei conservatori, fu sconfitto alle elezioni generali del 1922, ma riuscì, nel 1931, a farsi rieleggere in Parlamento a capo di un piccolo partito, che non gli consentì, comunque, di guadagnare e raggiungere l’antico prestigio. Morì nel 1945, dopo aver assistito, alla seconda, immane, tragedia.

 

VITTORIO EMANUELE ORLANDO

Nato a Palermo nel 1860, dopo una rapida carriera di docente universitario, fu eletto, tra i liberali, come deputato, nel 1897. Ministro di grazia e giustizia, della pubblica istruzione e degli interni, nei governi Giolitti, Salandra e Boselli, divenne primo ministro il 29 ottobre 1917, in un momento estremamente delicato per il giovane regno d’Italia, ossia all’indomani del disastro di Caporetto. Uomo di straordinarie doti dialettiche, contribuì non poco a risollevare il morale di un paese frastornato dagli eventi; ancora oggi riecheggia, nelle memorie collettive, il suo storico, triplice, invito a "resistere, resistere, resistere" ad oltranza e a qualsiasi prezzo. Membro della delegazione italiana umiliata a Versailles, indignato, decise di rassegnare le dimissioni dalla carica, in seguito alla "vittoria mutilata" e al duro scontro con il presidente americano Wilson. Dopo una fase iniziale di adesione al fascismo (avallò con il suo prestigio giuridico la legge elettorale Acerbo e venne eletto nel "listone" della XXVII legislatura) se ne allontanerà, sino alla decisa rottura del 1931, quando preferì il ritiro dall’insegnamento al giuramento di fedeltà al fascismo. Dopo il secondo conflitto, divenne membro della costituente e senatore della neonata repubblica. Morì nel 1952.

 

I GENERALI

LUIGI CADORNA

Nato nel 1850, figlio di Raffaele, che guidò le truppe italiane alla presa di Roma, nel 1870, fu a capo dell’esercito italiano, dallo scoppio delle ostilità fino disfatta di Caporetto.

Convinto sostenitore della tattica degli attacchi frontali, mandò al massacro decine di migliaia di soldati, in undici differenti offensive sul fiume Isonzo, che non riuscirono, tuttavia, a piegare le linee nemiche.

Il suo carattere autoritario, la sua fermezza, che non ammetteva debolezze, provocò lo scoramento delle truppe, fiaccate e devastate, nel morale, da un comandante assolutamente insensibile ed indifferente alle profonde sofferenze e ai paurosi tributi di sangue cui l’esercito fu costretto a soggiacere, a causa delle sue decisioni; cieco sostenitore di una disciplina militare ferrea e decisa, introdusse, al fronte, un regime di terrore tra i suoi stessi uomini, con processi e fucilazioni di chiunque fosse sospettato di ammutinamento o vigliaccheria.

Colto impreparato dall’attacco austro-tedesco di Caporetto, Cadorna, considerato il responsabile della sconfitta, venne sostituito da Armando Diaz.

Progressivamente isolato, dopo la guerra, a causa dell’ecatombe cui l’esercito italiano fu costretto a soggiacere sotto il suo comando, fu definitivamente riabilitato da Mussolini che lo nominò, insieme a Diaz, maresciallo d’Italia; oltre alla prestigiosa onorificenza il duce gli fece anche dono di una villa a Pallanza, ove alla sua morte, avvenuta nel 1928, venne edificato, in suo onore, un mausoleo.

 

ARMANDO DIAZ

Nato a Napoli nel 1855, studiò all’accademia di Torino, partecipando poi alla guerra di Libia come comandante di reggimento.

Divenuto segretario del comandante di stato maggiore , generale Pollio, allo scoppio della guerra fu alla guida dell’XXIII corpo d’armata sul Carso, ove si mise in luce per la sua abilità.

Dopo il disastro di Caporetto, Diaz sostituì, alla guida del comando supremo, un Cadorna caduto in disgrazia e dal quale si distinse per la profonda umanità nel trattamento delle truppe; consapevole delle profonde sofferenze della guerra, si rese infatti conto che solo infondendo fiducia ai soldati, solo condividendo le loro profonde pene, si sarebbe potuto puntare ad una pronta riscossa.

Fu la tattica vincente, che consentì al risorto esercito italiano di conquistare la vittoria.

Dopo la fine del conflitto fu nominato, nel 1918, senatore del regno e, nel 1924, maresciallo d’Italia, per opera di Mussolini, il cui primo governo vide proprio Diaz tra i protagonisti, alla guida del ministero della difesa.

Morì nel 1928.

 

PAUL VON HINDENBURG

Nato a Posen, nel 1846, si distinse, sul campo, nelle trionfali vittorie della Prussia di Bismarck, a Sadowa, nel 1866 e a Sedan nel 1870, contro la Francia.

Ritiratosi, nel 1911, dall’esercito, fu richiamato, allo scoppio della guerra, al comando dell’VII, armata, incaricata di difendere il suolo prussiano dall’avanzata delle armate dello Zar.

Il clamoroso trionfo di Tannenberg e dei laghi Masuri, lo rese famoso in tutta la nazione e, sempre più padrone, insieme a Ludendorff, con cui aveva condiviso il successo, delle sorti della guerra.

Nominato, in coabitazione con Ludendorff, capo di stato maggiore nel 1916, ottenne un potere tale da arrivare quasi ad instaurare una sorta di dittatura militare, ma non riuscì, nonostante le offensive intraprese, ad evitare la disfatta del reich.

Dopo la guerra, alla guida della destra conservatrice, fu nominato presidente della fragile repubblica di Weimar, assistendo, ormai vecchio e stanco, all’ascesa al potere del partito nazional-socialista di Adolf Hitler.

Morì nel 1934.

 

ERICH LUDENDORFF

Nato nel 1865, nei pressi di Pozdam, si fece presto strada nell’esercito grazie alla sua straordinaria abilità, che ne fece il pupillo dei generali von Molke e di Schlieffen.

Dal 1903 al 1913 si occupò della modernizzazione dell’esercito, mentre allo scoppio del conflitto, organizzò la presa di Liegi, che gli valse i complimenti dello stato maggiore.

Dopo le vittorie di Tannenberg e dei laghi Masuri, che videro i tedeschi travolgere le armate russe, Ludendorff, che ne fu, con Hindenburg, l’artefice, ottenne grande fama e prestigio, fino ad assumere il comando supremo dell’esercito assieme allo stesso Hindenburg, con il quale venne a formare un binomio in grado quasi di scavalcare l’autorità del Kaiser in persona, in merito alle più importanti decisioni politico-militari.

Sostenitore della guerra sottomarina indiscriminata e artefice delle grandi offensive del 1918, si dimise dall’esercito nello stesso anno, ritirandosi in Svizzera.

Tornato in patria prese parte ai putsch del 1920 e 1923 al fine di destituire l’odiata repubblica di Weimar.

Fu candidato dal partito nazional-socialista alle elezioni del 1925, ma, avendo ottenuto pochissimi voti, si ritirò a vita privata fino alla morte, avvenuta, a Monaco, nel 1937.

 

ERICH VON FALKENHAYN

Nato nel 1861 da una famiglia di Junker, fu inviato in Cina ed istruttore della scuola militare di Nankow.

Dopo il fallimento del piano Schlieffen e la sconfitta della Marna, venne chiamato a sostituire il debole e debilitato von Molke, alla guida dell’esercito tedesco, sul fronte occidentale.

Nel febbraio 1916 lanciò un’offensiva sulla roccaforte di Verdun, dichiarata imprendibile dai francesi, ma il tragico epilogo dell’offensiva, conclusasi con la sconfitta e con una carneficina senza precedenti, gli fu fatale.

Esautorato da Hindenburg e Ludendorff si prese la rivincita alla fine del 1916, quando il piano da lui escogitato, consentì ai tedeschi di travolgere, nel giro di poche settimane, una Romania appena entrata in guerra al fianco dell’Intesa.

 

HELMUT VON MOLKE

Nato nel 1848 era il nipote del celebre comandante che condusse la Prussia di Bismarck, ai trionfi di Sadowa e Sedan, del 1866 e del 1870, su Austria e Francia.

Allo scoppio delle ostilità si ritrovò, ormai anziano, alla guida dell’esercito tedesco, procedendo ad una rapida mobilitazione, volta all’attuazione del piano Schlieffen, che prevedeva, l’invasione della Francia attraverso il Belgio, con una manovra aggirante su Parigi, per poi concentrare, dopo la capitolazione francese, tutte le forze ad oriente contro le armate russe.

La decisa resistenza del Belgio obbligò, però, von Molke a modificare il piano originario e a puntare direttamente su Parigi; costretto ad inviare diverse divisioni in oriente per contrastare le truppe russe, fu sconfitto nella battaglia della Marna, ove perse la testa ed il controllo della situazione.

Considerato il principale responsabile della disfatta, ormai sempre più malato e debilitato venne sostituito, alla guida dell’esercito, da von Falkenhayn, cui sarà, a sua volta fatale l’ ecatombe, di Verdun.

Si spense nel 1916.

 

FRANZ CONRAD VON HOTZENDORF

Nato nel 1852, ultimo custode della tradizione militare alla Radesky, si adoperò per ovviare alla progressiva disgregazione dell’impero Austro-Ungarico, sostenendo una politica di aggressione nei confronti dell’Italia e della Serbia, i due stati, che più di tutti gli altri, fomentavano gli animi indipendentisti delle etnie presenti all’interno della duplice monarchia.

Capo di stato maggiore dell’esercito fu, durante la guerra, l’ideatore dei grandi piani di attacco austro-ungarici, entrando spesso in contrasto con il comando tedesco, sulla condotta delle ostilità.

Le sue sopraffine doti di stratega furono vanificate dalla progressiva liquefazione della macchina bellica di quello che ormai era solo il pallido ricordo della grande potenza che fu.

Sostituito da Arz von Straussemberg alla morte del grande Francesco Giuseppe, morì nel 1925, dopo aver assistito alla sconfitta e alla fine di un impero, per la cui salvezza si era battuto strenuamente.

 

JOSEPH JOFFRE

Nato, sui Pirenei, nel 1852, fu l’eroe della Marna, colui che salvò Parigi dall’invasione dei tedeschi.

Dopo una rapida e brillante carriera militare, divenne, nel 1911 vicepresidente del consiglio superiore di guerra e, successivamente, capo di stato maggiore dell’esercito.

Convinto seguace della necessità di mantenere sempre e comunque l’iniziativa, ai fini della vittoria finale, si ritrovò, viceversa, allo scoppio delle ostilità, sulla difensiva, in seguito all’attuazione, da parte tedesca, del piano Schlieffen, che prevedeva quell’invasione del Belgio che Joffre, viceversa, non riteneva verosimile e credibile.

Sia pure sull’orlo della capitolazione il comandante in capo dell’esercito francese, non perse la calma ed organizzò una strenua e vittoriosa resistenza sulla Marna, che bloccò le truppe del Kaiser.

Dopo l’attacco a Verdun decise di puntare, per la difesa della roccaforte, sul generale Petain, che riuscì nell’impresa di sconfiggere i tedeschi, sia pure al prezzo di una paurosa carneficina.

Dopo la batosta della battaglia della Somme, che provocò un altro terribile vuoto tra le truppe, Joffre venne sostituito da Nivelle e si ritirò a vita privata, dedito alla scrittura di opere di strategia militare, fino alla morte che lo colse nel 1931.

 

HENRI PHILIPPE PETAIN

Se Joffre fu l’eroe della Marna, Petain fu l’eroe di Verdun, ossia di quella che è stata la più spaventosa battaglia della storia dell’umanità.

Nato nel 1856, la sua carriera militare si impennò vertiginosamente, verso l’alto, durante il conflitto: da semplice colonnello, nel 1914, divenne comandante di brigata prima e d’armata poi, fino, appunto, alla nomina a difensore di Verdun; la vittoria che ne seguì lo portò alla carica di capo di stato maggiore dell’esercito, in sostituzione di Nivelle e subito dovette occuparsi della repressione dei sempre più frequenti episodi di insubordinazione delle truppe, problema che riuscì a debellare alternando comportamenti concilianti, con altri di estrema decisione.

Alla fine della guerra divenne maresciallo di Francia e fu impegnato in Marocco.

Nel corso del secondo conflitto mondiale, dopo la capitolazione della Francia, travolta dalla Wehrmacht, firmò, in quanto presidente del consiglio in carica, l’armistizio con la Germania e fu a capo del governo collaborazionista di Vichy, compromettendosi, inesorabilmente, con il nazismo.

Dopo il processo e la condanna a morte per alto tradimento, graziato da De Gaulle, morì, nel 1951, a 95 anni, in carcere.

 

ROBERT GEORGES NIVELLE

Nato nel 1856, la sua carriera militare, come quella di Petain, conobbe una svolta nel corso della guerra, che lo portò al comando di un corpo d’armata.

Dopo il fallimento della battaglia della Somme sostituì Joffre alla guida dell’esercito ma, al termine della disastrosa offensiva lungo lo Chemin des Dames, fu, a sua volta, rimpiazzato da Petain, venendo impiegato, successivamente, in nordafrica.

Morì nel 1924.

 

FERDINAND FOCH

Nato nel 1851 a Tarbes divenne prima allievo, poi professore della scuola di guerra che aveva frequentato, teorizzando, nel 1903, in un manuale, dal titolo "Principi della guerra", le teorie militari a lui care, fondate su attacchi continui, che avrebbe avuto occasione di mettere in pratica nel corso delle ostilità, specie durante la disperata battaglia della Marna quando, comunicando con Joffre, disse testualmente: "l’ala sinistra sta cedendo, l’ala destra si ritira, la situazione è eccellente, vado al contrattacco".

Con il passare degli anni e con l’esercito alleato ancora impantanato nel fango delle trincee, sembrava avviato, al pari di Joffre ad un ruolo di secondaria importanza, ma la sorte volle che proprio lui fosse scelto, dopo il disperato e potente assalto finale, lanciato dai tedeschi nel 1918, alla guida del comando supremo unificato, che lo portò a comandare l’offensiva destinata a travolgere, definitivamente, dopo la seconda, vittoriosa battaglia della Marna, le linee avversarie.

Morì nel 1929, ma il suo nome resterà scolpito nella storia come uno dei più grandi comandanti di sempre.

 

GLI EROI

CESARE BATTISTI

 

FRANCESCO BARACCA

Nato a Lugo di Romagna nel 1888, studente della scuola militare di Modena, ne uscì con il grado di sottotenente di cavalleria ma, ben presto, decise di dedicarsi all’aviazione, della quale sarebbe divenuto un asso indiscusso, destinato ad entrare nella leggenda. Abilissimo nella tecnica acrobatica, alla guida del suo Nieuport fu autore di imprese straordinarie, che gli valsero onore e ammirazione; celebre era il suo motto "ad malora", ben dipinto sulla fiancata del suo aereo, al pari dell’ancora più leggendario cavallino rampante, che, qualche anno più tardi, proprio in suo onore, sarebbe stato scelto, come simbolo della propria casa automobilistica, da un costruttore dal nome Enzo Ferrari. Dopo la disfatta di Caporetto si avventurò in missioni spericolate, a bassa quota, contro le truppe austro-tedesche; nel corso della battaglia del Piave ottenne la sua trentaquattresima ed ultima vittoria, cui fece seguito la morte, a causa di un colpo, sparato da terra, che lo colpì alla testa, mentre era impegnato in azione sul Montello.

 

MANFRED VON RICHTHOFEN (Barone Rosso)

Nato nel 1892, proveniente da una famiglia dell’aristocrazia prussiana, è divenuto, alla guida del suo mitico Fokker rosso, alla testa della squadriglia, dai colori vivacissimi, denominata "Circo Volante", l’aviatore più famoso della storia, una vera e propria leggenda dell’aria, destinata, nelle coscienze di tutti, ad essere ricordata con lo pseudonimo di "barone rosso". Ottenne, ufficialmente, 81 vittorie ma, probabilmente, quelle effettive furono molte di più. La sua indiscussa classe, il suo straordinario senso della lealtà, accompagnati dall’inconfondibile figura del suo rosso triplano contribuirono ad alimentarne il mito, che si spezzò sul finire della guerra, quando un aereo inglese lasciò cadere, presso la base tedesca, un messaggio che annunciava l’abbattimento, il 21 aprile 1918, del barone Manfred von Richthofen e la sua sepoltura con tutti gli onori militari. La morte del "barone rosso" fu l’inizio della sua leggenda ed ancora oggi il suo ricordo è più vivo che mai, in simbiosi con il suo rosso triplano, dominatore nei cieli d’Europa per la durata dell’intero conflitto.

 

ALTRI ASSI DELL’ARIA

Renè Fonk Francia 75 vittorie

Edward Mannock Inghilterra 73 vittorie

William Bishop Canada 72 vittorie

Ernst Udet Germania 62 vittorie

Georges Guynemer Francia 54 vittorie

Eddie Rickenbacker Stati Uniti 26 vittorie

 

Il crepuscolo degli Asburgo  a cura di Francesco Ranocchi

 

 

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