testatarepubblica.gif (18392 byte)

www.storiaXXIsecolo.it 

   

Il miracolo economico

2. Segni e squilibri del sistema

Uno sviluppo così repentino in un paese ricco di ritardi e contraddizioni di vecchia data non poté non generare (ed ereditare) una serie di “distorsioni”: innanzi tutto la diffusione del benessere per i cittadini era in netto ritardo rispetto alla velocità del progresso tecnologico. Il “miracolo economico” si affermò in un sistema dove dominavano le libere forze del mercato e le cui peculiarità sembravano essere il già menzionato mutamento merceologico dell’offerta dei mezzi di trasporto e degli elettrodomestici, la progressione costante dei salari, l’intensificazione della combattività operaia, un’impennata dei consumi privati[1] e le migrazioni interne. Ciascuno di questi fenomeni da un lato generò forti scompensi e rotture, dall’altro produsse bisogni a cui il sistema non era in grado di sopperire (ad esempio per ciò che riguardava la domanda aggiuntiva di abitazioni, scuole, ospedali).[2]

Questi fenomeni di “distorsione”, secondo le tesi di Sapelli e Salvati, sono riconducibili ad alcuni problemi strutturali dell’Italia a partire dal dopoguerra: il dualismo della struttura produttiva industriale ed il permanere della “questione meridionale”[3]. Secondo Sapelli, in Italia c’era una situazione di netta differenziazione (appunto dualistica) dello sviluppo economico tra i settori dinamici ad alto tasso di innovazione orientati quasi esclusivamente all’esportazione (industrie automobilistiche, chimiche e siderurgiche) e settori arretrati e tradizionali destinati a soddisfare la domanda interna (settore tessile, alimentare ed edile). I vari settori produttivi avevano beneficiato in modo del tutto diverso dell’influsso dei vantaggi offerti dalla favorevole congiuntura economica: l’aumento della produttività, l’allargamento delle economie di scala, la redistribuzione delle risorse e l’apertura verso i circuiti di scambio internazionale. Così aumentò in modo sensibile la distanza tra grande e media industria (principali beneficiari degli aiuti statali e delle varie economie esterne) e la piccola impresa espulsa dai settori chiave della produzione   e gravata di maggiori   costi di finanziamento del ciclo produttivo e di inserimento nei commerci extralocali. Le conseguenze di questo dualismo si resero evidenti sia nel regime d’occupazione che nelle forme di lavoro   e nella distribuzione del reddito[4].

Nel mercato del lavoro si assisteva ad un notevole aumento di produttività unitamente a bassi incrementi occupazionali nei settori più avanzati e dinamici, mentre quelli più arretrati assorbivano gran parte della disoccupazione, promuovendo bassi incrementi di produttività e rilevanti incrementi occupazionali[5]. Una delle principali attrattive dei rami più sviluppati fu sicuramente la possibilità di offrire un monte salari superiore a quello delle altre industrie e a volte anche una serie di facilitazioni per i suoi addetti.[6] Ma Graziani fa notare come, seppure i salari nell’industria trainante crescessero più di ogni altro, uno dei segreti del boom economico fu il fatto che in rapporto all’“accumulazione” di capitale ottenuta con l’aumento della produzione e della produttività operaia (aumentata di oltre un terzo), i salari reali nell’industria diminuirono[7]. Il boom economico aveva permesso un elevato tasso dei profitti, questi, a loro volta, favorirono un incremento degli   investimenti pubblici e privati. Tale incremento produsse in Italia accese discussioni, anche a livello politico, sull’utilizzo di questi investimenti: vi era chi sosteneva che gli imprenditori ne avessero fatto un uso principalmente qualitativo, ossia finalizzato alla modernizzazione degli impianti ed all’aumento della produttività. Altri, in particolare la sinistra, ritenevano che gli imprenditori non avessero usato tali investimenti per ampliare la base del sistema bensì per aumentare i loro stessi profitti[8].

Negli anni di questo “inusitato sviluppo” l’agricoltura e la piccola industria, insieme all’edilizia e al piccolo commercio, svolsero un ruolo di “polmone della disoccupazione”:[9] furono cioè un serbatoio di manodopera sottoccupata e sottoremunerata, caratterizzata dagli elevati indici di occupazione precaria e bassi livelli salariali e sindacali. E’ possibile affermare che all’espansione di settori trainanti corrispose una continua proliferazione dei settori più o meno arretrati, si creò così una frammentazione sociale ed economica del paese destinata ad aggravarsi[10]. Il problema della distorsione dei consumi derivò in parte dallo stesso dualismo dell’economia italiana di quel periodo: i settori più dinamici e forti (come il petrolchimico che nacque tra gli anni Cinquanta e Sessanta e che ebbe tra i suoi principali esponenti la Montecatini, la Sir e la Edison) tendevano a modellare la propria produzione sulla falsa riga di quella estera. Questo aspetto spiega, secondo G. Crainz, perché in un paese caratterizzato da un incremento assai modesto del consumo interno e del reddito procapite fossero diffusi modelli e strutture di beni di consumo tipici di un economia più moderna[11]. Inoltre vi fu anche un aspetto legato al fatto che l’intervento pubblico fu spesso limitato alla costruzione di infrastrutture funzionali sopratutto alle esigenze di espansione dei nuovi mercati e del padronato imprenditoriale più forte: ciò fu una delle cause della diffusa arretratezza dei servizi pubblici essenziali come la sanità e la scuola[12]. Sapelli ha fatto notare come il problema non risiedesse nella grande diffusione dei consumi (comunque favorita da un incremento generalizzato dei redditi in una condizione di assenza dell’inflazione), ma nella composizione e nella tipologia dell’offerta che escludeva i beni fondamentali ed i sevizi.  Inoltre, i prezzi svolsero un ruolo discriminate: i prodotti di consumo meno cari erano proprio quelli superflui, mentre quelli economicamente più dispendiosi erano quelli ritenuti basilari come i trasporti pubblici o i libri.

Parlando degli squilibri del “sistema Italia” non si può dimenticare una grande disfunzione costituita dall’arretratezza del Mezzogiorno. Il meridione italiano era arrivato all’appuntamento con il boom avendo un’economia ancora prevalentemente agricola dove gli occupati in questo settore rappresentavano il 40% del totale dei lavoratori contro il 30% della media nazionale nel 1960 (se si escludono alcune limitate zone, la maggior parte della superficie agricola era ancora occupata da una cultura di tipo estensivo). Il latifondo era la forma di gestione predominante e la pressione demografica continuava a mantenersi elevata; lo sviluppo industriale era completamente insufficiente e basato soprattutto sulle piccole imprese a carattere semiartigianale[13]. Con il “miracolo” nel paese si ampliò maggiormente la differenza di sviluppo delle diverse zone. Le strategie dell’imprenditoria nazionale, tentando un’integrazione nel tessuto economico dei paesi più avanzati, contribuirono ad ampliare questa forbice; infatti le esigenze di competitività e di agganciamento agli standard produttivi internazionali avevano portato ad una concentrazione degli investimenti verso i distretti industriali del Nord, che già presentavano uno sviluppo piuttosto avanzato. In quest’ottica uno spostamento di capitali verso il Sud avrebbe significato disperdere tecnologie e risorse[14]. Il Meridione, nel boom economico, era destinato ad avere una funzione subordinata e funzionale agli interessi dell’economia del Nord[15]. Nonostante la condizione di diffusa e radicata arretratezza    nelle terre del Mezzogiorno costituisse per l’economia italiana un ostacolo difficilmente integrabile dal sistema “consumista-fordita”[16], essa comunque presentava una serie di indiscutibili vantaggi.

Tra questi vantaggi possiamo annoverare il ruolo di riserva di manodopera rappresentato dalle campagne meridionali per un Nord che, tendendo verso la “piena occupazione”, esigeva nuove risorse di manodopera[17]; inoltre, l’assenza effettiva di un’industrializzazione nel meridione costituiva una garanzia per i grandi gruppi economici del Nord, contro ogni possibile concorrenza interna. Ma, come detto, la situazione meridionale per altri aspetti costituiva anche un ostacolo allo sviluppo dell’industria settentrionale che, proprio per il modello economico che aveva deciso di seguire, doveva necessariamente espandere il proprio mercato interno anche in quelle zone in cui persistevano forme di autoconsumo  e bassissimi redditi. Lo stesso settore agricolo, a causa dei suoi bassi livelli di produttività e incapacità di potere rispondere alle nuove richieste di un’economia sempre più internazionale, non permetteva a molti prodotti italiani di essere competitivi. Come visto, il governo italiano, decidendo di avvallare un modello di sviluppo “consumista-fordista”, si fece promotore di una politica di “intervento” al fine di porre rimedio ai problemi del Sud. Il governo agì attraverso due vie principali: la Riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno[18]. In particolar modo, le aspettative di industrializzazione del Sud furono legate alle iniziative della Cassa (creata nel 1950): l’Istituto aveva il compito di promuovere e sviluppare, attraverso agevolazioni fiscali e incentivi economici, la crescita di un settore industriale efficiente e autopropulsivo. I primi tentativi di creare un’occupazione diffusa puntavano da un lato al coinvolgimento delle piccole-medie imprese e dall’altro alla creazione di quelle opere infrastrutturali che avrebbero dovuto funzionare da volano per l’economia[19]. Con l’arrivo del boom economico il governo decise di cambiare rotta e di porre rimedio ai limiti della sua azione relativa alla prima metà del decennio (come ad esempio l’eccessiva dispersione dei fondi, l’eccesso di centralizzazione nella gestione della Cassa e l’eccessivo privilegio dato allo sviluppo della agricoltura rispetto a quello dell’industria[20]). Graziani sottolinea come fosse ormai palese che questa forma di intervento, basata su criteri più umanitari che propulsivi, rappresentasse uno spreco e non servisse per un effettivo decollo dell’industria; come avrebbe avuto a dire la famosa economista inglese Vera Lutz: “le strade costruite dalla Cassa per il Mezzogiorno servivano oramai agli abitanti… soltanto per abbandonare per sempre i loro paesi di origine”.  Il governo considerò ragionevole porre termine alla politica di carattere umanitario per avviarne una nuova più aderente alla situazione reale, quella del “miracolo economico”. Due furono i criteri ispiratori di tale politica:

·         sotto il profilo settoriale si decise di realizzare una svolta in favore dell’industrializzazione. Tale scelta comportò non solo uno spostamento di fondi verso quel settore, ma anche un nuovo orientamento nella politica delle opere pubbliche fatte in modo che risultassero completamente funzionali allo sviluppo dei nuovi insediamenti industriali. Tuttavia la nuova politica industriale venne concepita nel quadro dell’ipotesi in base alla quale la crisi endemica della disoccupazione del Sud potesse trovare una risoluzione solo al di fuori dai suoi confini. Si pensò infatti che lo sviluppo industriale avrebbe dovuto svolgere anzitutto la funzione di accrescere l’efficienza del sistema produttivo meridionale, attraverso l’aumento del reddito e della produttività del lavoro[21]. Non sembrò essenziale che l’industrializzazione dovesse risolvere anche il problema della disoccupazione.  Inoltre, come ha sottolineato E. Scalfari nel libro “Razza padrona”, nella nuova campagna di industrializzazione del Sud le imprese a capitale pubblico (come ad esempio l’ENI di Enrico Mattei) ebbero un ruolo dominante  e rappresentarono lo strumento favorito dalla Stato[22].

·         Sotto il profilo territoriale, gli interventi prevedevano la creazione di un insieme di “aree e di nuclei di sviluppo industriale” che avrebbe dovuto porre fine agli sprechi e alle dispersioni del primo periodo.  L’evento che sanzionò e tradusse in pratica questa svolta fu l’emanazione della legge 643 del luglio 1957 che intendeva disciplinare l’istituzione delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale. “All’obbligo…per le amministrazioni dello stato di riservare a imprese meridionali il 30% delle forniture e lavorazioni loro occorrenti….si aggiunse l’obbligo per le amministrazioni statali di riservare al Mezzogiorno il 40% dei propri investimenti. Si stabilì inoltre che le imprese a partecipazione statale dovessero ubicare nel Mezzogiorno una quota minima, pari al 60%, dei nuovi impianti che comunque dovevano essere ubicati nel Mezzogiorno non meno del 40% del totale degli investimenti eseguiti”[23].

L’impegno profuso e le somme investite nell’iniziativa furono elevatissime ma non riuscirono ad intaccare la cause dell’arretratezza della società. Uno dei limiti degli obbiettivi delle politiche di intervento statale nel Sud fu quello di voler ottenere un elevamento appena sopra la soglia di sussistenza della popolazione meridionale ma le esigenze della nuova moderna società dei consumi erano molto superiori e tale condizione non avrebbe certo potuto fermare l’emorragia di popolazione[24]. Inoltre il governo, nella gestione della Cassa, si era dimostrato troppo subalterno alle esigenze dei grandi monopoli privati; infatti, i finanziamenti concessi al Sud per la costruzione di infrastrutture ed altri edifici, che giungevano in gran parte dal Nord del paese, spesso finivano alle ditte fornitrici e alle imprese di costruzioni settentrionali che svolgevano i lavori, inoltre la maggior parte dei prodotti delle nuove industrie meridionali non erano destinati al mercato interno ma a quello del Nord o a quello europeo.[25] Il fallimento dell’intervento straordinario coincise con quello delle sue principali istituzioni: la Riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Per quello che riguarda in modo particolare l’insuccesso della Cassa, si può affermare che questa non fu capace di tradurre in pratica uno dei suoi compiti più importanti, ossia quello di riuscire ad essere uno strumento capace di spezzare l’immobilismo dell’economia meridionale finendo spesso per sostituirsi semplicemente alla gestione ordinaria anziché aggiungersi ad essa. Inoltre, gli investimenti realizzati nel settore industriale non riuscirono a dare i risultati sperati a causa di scelte strategiche errate, per di più, spesso, alle grandi aziende locali, per diverse motivazioni, non interessava promuovere lo sviluppo locale.

pallanimred.gif (323 byte) torna all'indice generale 



[1] M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi, Milano, Garzanti, 1984, pp. 61-63: in realtà lo sblocco e lo sviluppo dei consumi privati giunsero solo nella “terza fase” del boom economico e in prossimità della già menzionata crisi del 1963.

[2] S. Lanaro, Storia dell’Italia, p. 224.

[3] G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta ad oggi, Venezia, Marsilio, 1989, p. 24. Su questo tema nacquero numerose discussioni ed in particolar modo tra chi, come V. Lutz di orientamento prevalentemente di destra, attribuiva gli squilibri ed il dualismo industriale  alla presenza del sindacato e alla mancanza di concorrenza perfetta, e chi, da posizioni di sinistra accusava la mancanza di un’adeguata programmazione politica. Secondo Graziani, questi gruppi di fenomeni  furono il prodotto di un meccanismo unitario che produsse allo stesso tempo  sviluppo e squilibri.

 

[4] G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta ad oggi, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 23-24.

[5] A. Graziani, L‘economia Italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 55-60.

[6] Forse uno degli esempi più classici è appunto quello della FIAT.

[7] Ivi. P. 61-67 e in A.Graziani, Mercato e relazioni internazionali, in Valerio Castronovo, L’Italia Contemporanea 1945-1975, Torino,  Einaudi, 1976, p. 322 Questo aspetto fa  capire come  l’accumulazione da parte delle grandi industrie fosse stata enorme e come in realtà gli operai non si fossero  avvalsi a pieno di tutte le opportunità che il “miracolo” aveva portato. 

[8] G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, Rom-Bari, Laterza, 1997, p.5.

[9] M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi.

[10] V. Castronovo, Economia e classi sociali, in V. Castronovo, L’Italia Contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp. 16-20. Le stesse grandi industrie erano orientate a investire su ciò che poteva aumentare la produttività e non su ciò che avrebbe potuto generare un allargamento dell’occupazione globale, così molta della forza lavoro che premeva sul mercato fini per indirizzarsi verso le occupazioni più tradizionali o nel pubblico impiego: questo aspetto è importante perché spiega come al proliferare dei settori più avanzati corrispondesse una diffusione dei settori più retrogradi, con effetti distorsivi sui rapporti tra le classi e sulla struttura sociale.

[11] G.Crainz, Storia del miracolo italiano,Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, cit. p. 132-142 e in G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta ad oggi, Venezia, Marsilio, 1989, p. 25. L’evidenza di questa “distorsione” dei consumi appare evidente se si considera che in un paese dove la dieta delle famiglie era ancora quella dei paesi sottosviluppati e le quote maggiori dei redditi erano rivolte all’alimentazione, vi era  però una larghissima diffusione dei  “beni superflui”.

[12] Ivi. p. 26.

[13] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopo guerra ad oggi. Società e Politica, cit. p. 320 . Ginsborg definisce spaventosi  i dati sull’occupazione: nel 1951,  sul totale della popolazione, la forza-lavoro attiva era  il 37,55%; ciò sta a significare che su una popolazione totale di  17 milioni e mezzo circa  lavoravano  6 milioni e mezzo di persone, nel 1961, in pieno  boom, la percentuale del tasso di attività era sceso a 34,2 %  con una leggera diminuzione del tasso ed un aumento della popolazione di quasi un milione. Dalla  Tab. 1.6  presente nel saggio di Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, si nota che nel Sud la popolazione attiva era rimasta pressoché identica  dal 1881 al 1971 mentre la popolazione  totale era in continuo aumento abbassando così progressivamente la percentuale del tasso di attività.

[14] Tutte queste discussioni e motivazioni (costi eccessivi, pericolo del decentramento decisionale, mancanza di infrastrutture) furono una delle cause per cui il più importante polo industriale italiano, la FIAT, si espanse  per ultimo, tra le grandi industrie, nelle zone meridionali. In, Grande impresa e mezzogiorno.

[15] M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi, cit  e  Palladio, Dalla ricostruzione alla crisi del centrismo  Vol. I, Parte II,  in  M. e P. Pallante, Dal centro sinistra all’autunno caldo, Zanichelli, Bologna, 1975.

[16] Ivi.  Il ciclo “consumista-fordista”, in cui Italia era entrata, si basava su due pilastri principali  costituiti dagli alti consumi e dalla larga diffusione di tutti quei prodotti propri di una  società opulenta. La presenza di questa società opulenta, sul falsa riga del modello americano, era necessaria perché proprio per le sue caratteristiche era  in grado di sorreggere e rigenerare questo tipo di mercato. 

[17] In questo senso l’immigrazione meridionale rappresentava un immenso serbatoio di manodopera a basso costo.

[18]   A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p. 68. Un’ulteriore spinta ad affrontare i problemi del Sud venne dai movimenti di ribellione scoppiati in quelle terre e il consenso elettorale soprattutto tra i braccianti.

[19] Ivi e in M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi, cit  pp. 53- 56.

[20] ivi. p. 68. Le opere pubbliche che l’intervento della Cassa aveva creato finivano spesso per risultare inutilizzate, così come molti degli insediamenti rurali che si era tentato di  stimolare. Inoltre la popolazione che non emigrò, abbandonò le zone centrali per spostarsi lungo le coste, congestionandole.

[21] A. Graziani, L‘economia Italiana dal 1945 ad oggi, p. 70. Per queste ragioni le nuove industrie del Sud assunsero prevalentemente la forma di grandi impianti, ad elevata intensità di capitali e con scarso assorbimento di manodopera.

[22] Ivi. p. 73. Secondo l’opinione di Graziani, da questa politica di industrializzazione, con la creazione dei Consorzi e altri organi nella gestione dei fondi  nel Sud, non nacque, come alcuni sostennero, un nuova borghesia  industriale ma ne uscì rafforzata e consolidata la così detta borghesia di stato  di cui Enrico Mattei  era un  esponente.

[23] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p. 72.

[24] Il governo riteneva che l’emigrazione nelle zone più avanzate potesse esser un modo per alzare il tenore di vita di molti meridionali.

[25] Palladio, Dalla ricostruzione alla crisi del centrismo” Vol. I, Parte II, in  M. e P. Pallante, Dal centro sinistra all’autunno caldo, Zanichelli, Bologna, 1975.

 

 

 

 

 

   

home         la repubblica        

anpi

        

ricerca

        scrivici