Biografie della Resistenza Italiana          

A B C D E F GI J K L M N O P Q R S T U V Z

 

   

pallanimred.gif (323 byte) Dino Saccenti

Nato a Prato nel 1901. Operaio, aderì sul finire degli anni "venti" al movimento comunista. Nel 1935 espatriò in Francia e, l'anno dopo, passò in Spagna nelle file delle Brigate internazionali. Arrestato dalla polizia francese nel 1940, venne consegnato alle autorità italiane che lo confinarono a Ventotene. Dopo l'armistizio prese parte alla lotta partigiana in Toscana. Sindaco di Prato e deputato alla Costituente. Dal 1948 al 1958 ha fatto parte della Camera dei deputati.

 

pallanimred.gif (323 byte) Fernando Santi

Fernando Santi nacque, il 13 novembre del 1902 alle porte di Parma, a Golese, un paese di braccianti stagionali, di carrettieri e di pochi ferrovieri. Nel 1917, a quindici anni, aderisce al partito socialista, iscrivendosi alla sezione degli "adulti" perché i giovani sono quasi tutti al fronte. A guerra finita, viene eletto segretario della Federazione Giovanile parmense e membro del Comitato centrale nazionale. Diventa anche vicesegretario della Camera del Lavoro a fianco di Alberto Simonini, collabora attivamente all'organo locale dei socialisti, L'Idea.
Al Congresso della Federazione Giovanile che si tiene a Firenze sul finire del gennaio del 1921, a qualche settimana di distanza dalla scissione già consumata a Livorno, la stragrande maggioranza della Federazione Giovanile Socialista aderisce al partito comunista. Santi con pochi altri in una riunione tenuta a Fiesole dà vita a un piccolo comitato per la ricostituzione della Federazione e ne viene nominato segretario. Nel giro di pochi mesi, a coronamento di un'attività febbrile che lo porta da una regione all'altra d'Italia, i seimila iscritti censiti a Fiesole sulla carta risultano pressoché triplicati. Un comizio tenuto presso Parma nella sua nuova veste, nel quale incitava le future reclute a non sparare sui fratelli e a far propaganda socialista tra i soldati gli valse un primo arresto e una blanda condanna a due mesi con la condizionale.
La situazione generale del paese volge però ormai al peggio. Anche a Parma le violenze fasciste si susseguono e si intensificano. Nella estate del 1922 Italo Balbo dà inizio alla sua "marcia di fuoco" che parte da Ravenna, dove viene data alle fiamme la sede delle cooperative di Nullo Baldini e prosegue lungo la via Emilia bruciando e devastando, fino ad arrivare a Parma dove nell'Oltretorrente, organizzati dagli "arditi del popolo", diretti da Guido Picelli, neo-deputato socialista, che cadrà combattendo in terra di Spagna, i popolani innalzano le barricate, resistono con le armi alle squadre fasciste, impongono l'intervento dell'esercito a ristabilire la legalità. Santi partecipa all'azione: furono barricate, egli stesso diceva, erette non per la insurrezione ma a difesa della libertà.
Nell'ottobre del 1922, aderisce il nuovo partito socialista unitario che elegge a suo segretario Matteotti e che colloca sulla linea dell'antifascismo più intransigente. È la linea di Santi e i fascisti di Parma gliene danno atto facendolo bersaglio di aggressioni e attentati. Lascia la città dopo l'assassinio di Matteotti per andare a Torino dove assume la segreteria del Sindacato confederale precariamente ricostituito dopo che i fascisti avevano bruciato la sede della Camera del Lavoro e il prefetto aveva completato l'opera sciogliendola con proprio decreto. A Torino entra in rapporto di amicizia con Giuseppe Saragat.
Nell'ottobre del 1925 Santi si sposa e si trasferisce da Torino a Milano dove è chiamato a dirigere la sezione del partito socialista unitario.
A Milano gli diventa amico e maestro Filippo Turati, vi conosce Pietro Nenni e Lelio Basso, e con loro è aggredito e percosso a sangue dagli squadristi nel cimitero quando Nenni saluta la bara di Anna Kuliscioff col grido di "viva il socialismo". Collabora alla organizzazione della evasione di Turati dall'Italia con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini.
Cessata con le leggi eccezionali ogni possibilità di svolgere attività politica, Santi si trasforma in commesso viaggiatore di profumi "bon marché". È un modo per sopravvivere, ma è anche un modo per viaggiare e mantenere, sfuggendo alla vigilanza della polizia rapporti fra i socialisti di varie parti d'Italia. Gli sono compagni in quest'opera Giuseppe Faravalli che, scoperto dalla polizia, sarà costretto a riparare in Francia, e Antonio Greppi, il futuro primo Sindaco di Milano liberata. Comincia così la lunga resistenza silenziosa che gli valse, nel 1934, un nuovo arresto ma di breve durata.
Ricercato dalla polizia fascista dopo l'armistizio si rifugia in Svizzera dove organizza, a Lugano, l'assistenza ai profughi politici italiani. Ne esce nell'ottobre del 1944 per raggiungere la Val d'Ossola dove si è costituita una repubblica partigiana e quando l'Ossola è rioccupata dai tedeschi Santi raggiunge Milano dove svolge attività clandestina partecipa all'insurrezione del 25 aprile, è tra i redattori del primo Avanti! che esce in regime di libertà. Nel 1947 diventa Segretario generale, tra il democristiano Giulio Pastore e il comunista Giuseppe Di Vittorio, della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, nata dal patto di Roma tra le grandi correnti sindacali, comunista, socialista, cattolica.
Nel 1947 si rompe l'unità antifascista con riflessi immediati nel movimento sindacale. Santi, fiancheggiato da Giuseppe Di Vittorio, spende tutte le sue energie per evitare la paventata frattura. Il 18 aprile del 1948 viene eletto deputato e lo resterà per venti anni - nelle liste del Fronte Democratico popolare nella circoscrizione di cui è parte Parma. Santi lascia la CGIL nel 1965 per ragioni di salute, torma dirigente del partito. Sono gli anni del centrosinistra. Non fa mancare il suo apprezzamento per il programma di governo che il partito socialista va elaborando, ma non nasconde il suo scetticismo circa la possibilità di realizzarlo. È così che il vecchio riformista si trova collocato alla sinistra del partito, a fianco di Riccardo Lombardi, di Tristano Codignola.
L'unità della sinistra e quella del movimento operaio nel segno del riformismo socialista sono gli obiettivi che egli propone e per i quali si batte. Si oppone nel 1966. alla unificazione tra socialisti e socialdemocratici perché ritiene che il partito fondato da Saragat abbia perse le sue radici socialiste, impegna coi comunisti una serrata polemica, in particolare con Giorgio Amendola, sollecitandolo a quella svolta dottrinale e politica a suo avviso necessaria perché si possa arrivare al partito unico, classista, internazionalista, democratico.
Morì a Parma il 15 settembre del 1969.

(sintesi della biografia a cura di Gaetano Arfè)

 

pallanimred.gif (323 byte) Giuseppe Saragat

Nasce il 19 settembre 1898 a Torino da una famiglia di origine sarda e ben presto aderisce al neonato partito socialista. Fin dalla gioventù è su posizioni riformiste, la stessa corrente dei padri storici del socialismo nazionale come Filippo Turati, Claudio Treves, Andrea Modigliani, Camillo Prampolini e Ludovico D’Aragona.

L’avvento del fascismo e della dittatura mussoliniana vedono il quasi trentenne Saragat collocarsi all’opposizione del nuovo regime ed imboccare la via dell’esilio: prima l’Austria e poi la Francia dove incontrerà e collaborerà con tutti i massimi esponenti dell’antifascismo in esilio: da Giorgio Amendola a Pietro Nenni. È in questo clima e alla luce di molte corrispondenze che gli giungono dalla Spagna, dove è in corso la guerra civile, che matura una profonda avversione per il comunismo sovietico e per ogni sua “propaggine” occidentale. Di converso comincia ad abbracciare il filone socialdemocratico nordeuropeo figlio della II Internazionale. 

La posizione saragattiana antisovietica fu assai lungimirante e poi confermata, nell’ultimo decennio del ‘900, dagli stessi avvenimenti storici, ma non altrettanto lungimirante fu l’accettazione acritica delle posizioni secondointernazionaliste che erano state travolte dalla Prima Guerra Mondiale e dal lungo primo dopoguerra che aveva visto, anche a causa della debolezza della sinistra fortemente divisa tra massimalisti leninisti e riformisti socialdemocratici, la genesi e l’instaurarsi in Europa delle dittature fasciste e nazista. 

Dopo la caduta di Mussolini, Giuseppe Saragat ritorna in Italia e, con Pietro Nenni e Lelio Basso, riunifica tutte le correnti socialiste dando origine al Partito Socialista di Unità Proletaria (Psiup) in cui, come in tutta la tradizione socialista, conviveranno sia le istanze riformiste, sia quelle massimaliste senza trovare, e anche questo fa parte della tradizione del socialismo italiano, un punto di sintesi e di accordo. 

Nel II Governo guidato dal demolaburista Ivanoe Bonomi, Saragat è Ministro senza portafoglio. 
Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente i socialisti sono, con oltre il 20 % dei suffragi, il secondo partito italiano alle spalle della Democrazia Cristiana e superano per pochi voti i comunisti del Pci di Palmiro Togliatti. In quanto seconda forza politica della penisola, al partito del sol dell’avvenire va la presidenza dell’Assemblea Costituente, e Nenni, entrato nel frattempo nel Governo guidato dal democristiano Alcide De Gasperi (Dc), indica Giuseppe Saragat come candidato socialista per ricoprire tale carica e il leader riformista viene eletto con la convergenza di tutti i partiti antifascisti (Dc, Pci, Psiup, Pri, Pd’A, Udn, Pli) che costituivano i governi di unità nazionale. 

Ma è proprio in questi mesi che l’ennesima e insanabile rottura tra i due tronconi del socialismo italiano: da un lato il sanguigno e “popolare” Pietro Nenni si batte per una stretta collaborazione con i comunisti (fino a ipotizzare una unificazione dei due partiti della sinistra) e per una scelta neutralista sul piano internazionale, dall’altra parte il colto e raffinato Giuseppe Saragat, che si ispira ai modelli scandinavi, si oppone strenuamente a tale ipotesi. 

Le fratture in casa socialista, seguendo la peggiore tradizione, sono sempre insanabili e nel gennaio 1947 Giuseppe Saragat abbandona il Psiup con gli uomini a lui fedeli e dà vita ad un partito socialista moderato e riformista (che sarà per anni l’unico referente italiano del rinato Internazionale Socialista), il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli). Tale partito pochi anni dopo, con l’unificazione con la piccola pattuglia dei membri del Partito Socialista Unificato (Psu) dell’ex ministro Giuseppe Romita, assumerà definitivamente il nome di Partito Socialista Democratico Italiano (Psdi) di cui Giuseppe Saragat sarà unico leader. 

Il partito socialdemocratico assumerà ben presto posizioni molto moderate e filoatlantiche in contrasto con tutti gli altri partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti d’Europa. Su 115 deputati socialisti eletti nel 1946 ben 52 se ne vanno con Saragat che, pur non riuscendo mai a conquistare il cuore della “base” socialista riuscirà a portare nella sua orbita sindacalisti, giornalisti e intellettuali che ritorneranno nel Psi solo nella seconda metà degli anni ’60: in questa fase di fine anni ’40 il movimento socialista si trovava in una peculiare e paradossale situazione per cui Nenni e il Psi avevano i voti e i militanti, Saragat e il Psdi la classe dirigente e i quadri intermedi. 

Simultaneamente all’assunzione della guida della nuova creatura politica, Saragat abbandona la guida di Montecitorio alla cui presidenza viene eletto il comunista Umberto Terracini a cui spetterà l’onore di tenere a battesimo, insieme al Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi (Dc) ed al Guardasigilli Giuseppe Grassi (Pli), la nostra Costituzione repubblicana. 

Nella primavera del 1947 De Gasperi si reca negli Usa ed al rientro estromette comunisti e socialisti dal governo varando una formula di governo quadripartito centrista composta, oltre che dalla Dc, dai repubblicani di Pacciardi (Pri), dai liberali di Einaudi (Pli) e dai socialdemocratici di Saragat (Psli) che assumerà la Vicepresidenza del Consiglio dei Ministri. 

È la svolta moderata nella politica italiana che verrà confermata dalle urne il 18 aprile 1948 quando al Democrazia Cristiana sconfiggerà duramente con il 48,8 % dei voti, il Fronte Democratico Popolare, la lista unitaria della sinistra composta, per volontà di Nenni, dal Pci, dal Psi e da alcuni ex esponenti del Partito d’Azione, che si fermerà ad uno scarso 32% dei consensi. In questa competizione elettorale Giuseppe Saragat si presenterà alla guida di una lista, composta dal suo Psli e da alcuni ex membri del Partito d’Azione che non avevano aderito al tandem Togliatti-Nenni, con il nome di Unità Socialista conquistando un eccellente 7 % di voti: è questo il più alto risultato mai conseguito dai socialisti riformisti. 

Durante la prima legislatura i saragattiani, contro i quali si scateneranno l’ira e le accuse di tradimento della classe operaia dei comunisti, parteciperanno ai governi egemonizzati dalla Dc, ricoprendo, al pari delle altre forze laiche (Pli e Pri) un ruolo di comprimari, tanto che nel nuovo governo (De Gasperi 1948) Saragat sarà solo Ministro della Marina Mercantile.

Le elezioni del 1953 vedono la sconfitta del quadripartito centrista che, pur conservando la maggioranza numerica in Parlamento, non la mantenne nel Paese e, soprattutto, non riuscirono a far scattare il meccanismo elettorale pseudomaggioritario (la cosiddetta “legge truffa”). Saragat ed il Psdi furono duramente sconfitto (“cinismo cinico e baro” come disse lo stesso leader socialdemocratico) e il partito entrò in ruolo secondario nel panorama politico e partitico nazionale da cui non è mai più uscito. 

Saragat fu uno dei sostenitori dell’apertura ai socialisti di Nenni che dopo i fatti d’Ungheria del 1956, avevano abbandonato l’opzione frontista con i comunisti di Togliatti. Prima Fanfani e poi Moro guideranno governi di centrosinistra a partire dai primi anni ’60. Nel periodo 1966-69 si assisterà alla temporanea riunificazione dei due partiti socialisti, il Psu (Psi-Psdi Partito Socialista Unificati) con due cosegretari (Francesco De Martino e Mario Tanassi), ma con scarsi risultati elettorali (alle elezioni politiche del 1968 il Psu ebbe molti meno voti di quelli che avevano avuto 5 anni prima Psi e Psdi presentatisi separatamente).

Dopo essere stato Vicepresidente del Consiglio dei Ministri nei Governi Scelba (1954) e Segni (1955), Saragat fu Ministro degli Esteri nel I e II Governo Moro (1963, 1964) di centrosinistra. Nel 1964, dopo le dimissioni anticipate de Presidente della Repubblica Antonio Segni (Dc), una vasta coalizione di parlamentari di sinistra su indicazione di Giorgio Amendola (Pci) e di Ugo La Malfa (Pri) votava per Giuseppe Saragat come nuovo Capo dello Stato che, con i voti dei Grandi elettori di Pci, Psi, Psdi, Pri e buona parte della Dc (che aveva visto “bruciarsi” sia il suo candidato ufficiale Giovanni Leone) era il primo socialista a insediarsi al Quirinale. 

Leit-motiv della sua presidenza fu la Resistenza e la volontà di attivarsi sempre per la costituzione di governi di centro-sinistra. Gli anni della presidenza Saragat furono caratterizzati dall’inizio del terrorismo e dalla contestazione del ’68. Nel 1971 il democristiano Giovani Leone succede a Giuseppe Saragat (al quale sarebbe piaciuta una rielezione) nella carica di Presidente della Repubblica. Pochi altri uomini politici (Togliatti e Spadolini) seppero coniugare l’azione politica con l’impegno culturale come Saragat. L’anziano leader socialdemocratico si spegne a Roma nel 1988 e toccanti furono le parole dedicategli sull’organo ufficiale del Pci, l’Unità, da uno dei suoi grandi avversari comunisti, Giancarlo Pajetta, che tirò un rigo sulle polemiche di quasi un cinquantennio prima, affermando: “Oggi è morto un compagno!”.

(a cura di Luca Molinari, dal sito www.ossimoro.it)

 

pallanimred.gif (323 byte) Pietro Secchia

Nato ad Occhieppo Superiore (Biella) nel dicembre del 1903. Già segretario del Fgci di Biella, dopo la fondazione del PcdI, nel 1924 rappresenta i giovani comunisti al quinto congresso dell'Internazionale Comunista a Mosca e nel 1926 è già membro del C.C. del partito. In questo periodo ha già conosciuto il carcere tre volte. Arrestato dall'Ovra nel 1931, fu condannato a 17 anni di carcere dal Tribunale speciale, e poi al confino a Ponza e Ventotene.
Venne liberato dopo la caduta del fascismo nell'agosto del 1943. Insieme a Longo nell' Italia del Nord, a Milano, fu uno dei principali protagonisti della resistenza e della costituzione delle Brigate Garibaldi, di cui divenne commissario generale.
Subito dopo la guerra di liberazione nazionale ricoprì incarichi ai vertici del Pci: membro della Direzione e della Segreteria Nazionale, responsabile della commissione di organizzazione. A lui venne affidato il compito della costruzione di un "Partito di tipo nuovo di massa e di lotta". Nel 1947 le forze di sinistra vennero estromesse dal Governo. Secchia manifestò subito un netto dissenso con la decisione presa anche dal Pci di non rispondere con una protesta popolare a questa scelta politica di De Gasperi. Nel luglio del 1948, pochi mesi dopo la vittoria elettorale della Dc, ci fu l'attentato a Togliatti. Si levò in tutto il paese un possente movimento di protesta. Toccò a Secchia, Longo, D'Onofrio e altri tenere in pugno la situazione ed evitare gravissime conseguenze.
Eletto al Senato della Repubblica, denunciò le violenze ed i soprusi della Polizia quando ministro dell'Interno era Mario Scelba. Uscito dalla Direzione del partito nel 1956, si dedicò agli studi e scritti sulla storia del Pci e della Resistenza. Una sua opera fondamentale fu L'Enciclopedia della Resistenza. Morì nel luglio del 1973.

 

pallanimred.gif (323 byte) Emilio Sereni

Storico, scienziato. Nasce il 13 agosto 1907 a Roma da una famiglia ebrea; il padre Samuele è medico della Real Casa (ma è anche il "dottore dei poveri" fra gli artigiani e gli operai romani). Emilio - Mimmo, come lo chiamano in casa - è il più piccolo di quattro figli. E’ una famiglia intellettuale; la madre, Alfonsa, appartiene ai Pontecorvo di Pisa; nella cerchia di casa, figure come Eugenio Colorni (ucciso dai tedeschi a Roma nel 1944), Tullio Ascarelli, Nello e Carlo Rosselli, Eugenio Artom, Max Ascoli, Ermanno Cammarata, Pietro Grifone, Manlio Rossi Doria. Una famiglia di colti ebrei osservanti e antifascisti. Ben presto Sereni trova la sua strada. In pochissimo tempo, con uno studio intensissimo, si impadronisce delle dottrine economiche, dei problemi sociali e politici, della storia dei partiti antichi e moderni, leggendo una quantità enorme di libri e con un completo esame delle opere di Marx e di Engels. Allo stesso tempo si impegna in una basilare, completa preparazione scientifica. In ciò aiutato dalla perfetta conoscenza di una infinità di lingue antiche e moderne; Mimmo è un "mostro": oltre il tedesco, l’inglese, il francese, il russo, conosce benissimo il greco, il latino, l’ebraico, impara varie lingue slave e anche alcune antiche, comprese quelle espresse in scritture cuneiforme, come l’accadico, il sumero, l’ittita. E negli anni del carcere si impegnerà a studiare il giapponese. Nota anche la sua passione di bibliofilo. Quando nel 1927 si laurea a Portici in agronomia, è già da un anno iscritto al Partito comunista d’Italia, e inizia un’opera di proselitismo tra il proletariato di Napoli. E nella città partenopea frequenta gli ambienti culturali che gravitano intorno a Giustino Fortunato e Benedetto Croce, conosce Giorgio Amendola. E’ qui che si precisa il suo interesse per la questione meridionale e lo studio dell’agricoltura. Nel ’30 è a Parigi in contatto con il centro esterno del Partito Comunista; nel settembre dello stesso anno è arrestato: "per ricostituzione del disciolto partito comunista, appartenenza al medesimo e propaganda", il Tribunale speciale lo condanna a venti anni, ridotti poi a 15 per il cumulo delle pene. Comincia il duro peregrinare da un carcere all’altro, è a Poggioreale, Regina Coeli, Lucca, Viterbo, Civitavecchia. Liberato per amnistia nel ’35, chiamato a far parte del Centro estero del Pdc’I, espatria clandestinamente raggiungendo Parigi; qui è responsabile del lavoro culturale e redattore capo di "Stato operaio" e "La Voce degli italiani". Ed è nella capitale francese che lo coglie lo scoppio della seconda guerra mondiale: assume l’incarico di organizzare l’attività politica fra gli emigrati. E’ lui l’estensore del documento di Tolosa del settembre 1941, che è in pratica l’atto di nascita di quel comitato d’azione di cui fanno parte, oltre Sereni e Dozza per il Pci, Nenni e Saragat per il Psi, Silvio Trentin e Fausto Nitti per Giustizia e libertà. Continua a studiare - è di questi anni La questione agraria e la rinascita nazionale -; ma intanto è in azione prima a Tolone e poi a Nizza per organizzare il lavoro di propaganda tra le truppe italiane di occupazione. Fonda il giornale La Parola del soldato, ma non sta certo seduto alla scrivania. Nominato commissario politico dei Franc tireurs et partisans delle Alpi Marittime compie azioni di sabotaggio, attentati, colpi di mano. Nel giugno del ‘43 è arrestato; il tribunale straordinario di guerra della IV armata italiana lo processa e lo condanna a 18 anni di carcere per "associazione sovversiva, emigrazione, istigazione di militari, documenti falsi". Dopo falliti tentativi di evasione dal carcere di Fossano, resta rinchiuso per sette mesi nel braccio della morte alle Nuove di Torino. Solo nell’agosto 1944 riesce a fuggire e si stabilisce a Milano, dove il partito gli assegna l’incarico di dirigere l’ufficio di agitazione e propaganda. E’ nella lotta di resistenza, con Longo rappresenta il Pci nel Cln ed è membro del comando generale delle brigate Garibaldi; nell’aprile ‘45 è tra i dirigenti dell’insurrezione al Nord. Al V° congresso del Pci (29 dicembre 1945) è eletto membro del Comitato centrale e della Direzione (della quale continuerà a fare parte fino al 1975). Due volte ministro, senatore, membro dell’esecutivo mondiale dei Partigiani della pace, presidente dell’Alleanza nazionale dei contadini, direttore di "Critica marxista": anche la sua attività, come la sua capacità di studio, è eccezionale, instancabile. Comunista ortodosso, nel drammatico ‘56, al tempo dell’Ungheria, si schierò dalla parte dell’Urss. Tra le sue opere principali Il capitalismo nelle campagne, Il Mezzogiorno all’opposizione, La questione agraria nella rinascita nazionale italiana, La rivoluzione italiana; ma i suoi scritti sono innumerevoli. Quando il 20 marzo 1977 muore, il suo archivio - diventerà il "Fondo Emilio Sereni" - conta oltre duemila buste, ci sono 63.000 pezzi e 1.843 voci, dalle questioni agrarie al Mezzogiorno, dall’archeologia e dall’antichità alla storia economica e sociale. Non solo una cultura di stampo umanistico, nei suoi interessi c’è posto per matematica, fisica, cibernetica, linguistica; anche per la " cultura materiale", il folclore, i canti popolari, i miti, i costumi, la storia dell’alimentazione. La bibliografia curata da Giuseppe Prestipino elenca ben 1.071 scritti, il primo dei quali risale al 1930. 

(sintesi della biografia di Claudio Grassi)

 

pallanimred.gif (323 byte) Simone Simoni

Generale di divisione, di 63 anni. Nato a Patrica (Frosinone) il 24 dicembre 1880 da Antonio e da Rosa. Sposato con Mercedes Biscossi, aveva quattro figli (Gastone, Piera, MariaPia, Vera). Ufficiale di carriera, prestò servizio per 35 anni nell'esercito, partecipando a tutte le campagne militari italiane dalla Libia in poi, conseguendo numerose decorazioni e scalando tutti i gradini della scala gerarchica, fino al grado di generale. Durante la Prima Guerra Mondiale, si distinse alla battaglia di Caporetto, dove riuscì a tenere testa per due giorni all'avanzata nemica, al comando di un piccolo gruppo di uomini. In quell’occasione fu catturato dai tedeschi e relegato in un campo di prigionia in Germania per due anni. Nel '32 fu collocato nella riserva per un'infermità dovuta a una ferita riportata in guerra. Grande invalido di guerra, l'8 settembre del '43 fu fra i più convinti sostenitori della necessità di difendere la capitale dai tedeschi, e per questo motivo subì un attentato da parte dei fascisti. Entrato a far parte del Fronte militare clandestino di Montezemolo, fece del proprio ufficio e della propria casa centri di azione cospirativa ai quali facevano capo, oltre ai generali Fenulli e Cadorna, numerosi ufficiali dell'esercito e uomini politici quali Lussu, Bonomi e Siglienti. Nascose ed aiutò ufficiali e soldati e svolse numerose missioni. Arrestato dalle SS il 22 gennaio del '44, nella sua abitazione, fu rinchiuso nel carcere di via Tasso, nella cella n. 12. Torturato più volte, per estorcergli una confessione fu anche condotto davanti al plotone d'esecuzione. Senza risultato. Fu fucilato il 24 marzo alle Fosse Ardeatine. Medaglia d'oro al valor militare.

 

pallanimred.gif (323 byte) Alessandro Sinigaglia

Nato a Fiesole (Firenze) nel 1900 e morto nel 1944. Operaio, aderì nel 1926 al movimento comunista. Nel 1930 espatriò in Francia dove frequentò una scuola di partito. Dopo aver partecipato alla guerra civile spagnola come ufficiale delle Brigate internazionali, nel 1940 venne arrestato dalla polizia francese che lo consegnò alle autorità italiane. Confinato a Ventotene venne liberato nell'agosto 1943. Comandante delle formazioni gappiste a Firenze, venne ucciso il 13 febbraio 1944.

 

pallanimred.gif (323 byte) Edgardo Sogno Rata del Vallino

Nato a Torino il 29 dicembre del 1915 da famiglia nobile (era conte). Conseguita la maturità nel 1933, frequentò la Scuola Allievi Ufficiali di Pinerolo e fu nominato sottotenente nel Reggimento "Nizza Cavalleria". Dopo la laurea in giurisprudenza e il concorso diplomatico partecipò alla guerra di Spagna come volontario sul fronte nazionalista e franchista (agosto 1938). Successivamente conseguì altre due lauree, si trasferì a Roma ed entrò (1940) al Ministero degli Esteri. Nella capitale frequentò gli ambienti dell'antifascismo clandestino, i circoli liberali vicini a Croce e conobbe Giaime Pintor. Nel 1942, richiamato alle armi, venne destinato alle forze di occupazione e difesa costiera in Francia. Nel maggio del 1943 fu arrestato per alto tradimento, essendosi espresso pubblicamente a favore della vittoria alleata. Monarchico, dopo l'8 settembre prese parte alla Resistenza armata dapprima come rappresentante del partito liberale nel comitato militare piemontese, poi alla guida dei partigiani bianchi dell'Organizzazione Franchi da lui stesso creata in accordo con la Special Force britannica e infine come membro del comando militare generale del CLNAI in rappresentanza del Partito Liberale. Gli inglesi erano i suoi referenti immediati, attraverso Radio Londra; la sua formazione armata venne aiutata con numerosi e ricchi lanci di armi e materiali. Coraggioso fino al limite estremo dell’incoscienza, si cimentò anche in imprese impossibili, come la liberazione di Ferruccio Parri a Milano. Con Parri, Pajetta e Pizzoni costituì  la delegazione del CLNAI che concluse con il comando alleato gli accordi di Roma per la collaborazione politico militare (novembre 1944). Per il suo valore, venne insignito della medaglia d'oro al valor militare. Dopo la fine della guerra fondò e diresse (1945-46) il quotidiano milanese "Corriere Lombardo", la rivista "Costume" e fu eletto membro della Consulta Nazionale in rappresentanza del partito liberale. In occasione del referendum istituzionale partecipò attivamente alla campagna elettorale in favore della monarchia, presentando poi uno dei ricorsi alla Cassazione contro l'esito del voto. Dal 1946 al 1954 fu in servizio diplomatico a Buenos Aires, a Parigi, a Londra (membro italiano del "Planning and Coordination Group" della Nato) e nuovamente a Parigi, al Nato Defense College. Figura controversa, nel 1953 s’impegnò a organizzare la sezione italiana del movimento anticomunista transnazionale Paix et Liberté. Successivamente passò alcuni anni fuori dall’Italia come diplomatico in Usa e in Birmania. Rientrato in Italia fondò nel 1971 i Comitati di Resistenza Democratica in funzione anticomunista. Nel 1974, a Torino, il giudice istruttore Luciano Violante aprì un’inchiesta su un presunto tentativo di «golpe bianco» compiuto da Sogno e da Randolfo Pacciardi che lo fece finire in carcere per un mese e mezzo; ma nel 1978 il giudice istruttore dichiarò di non doversi procedere. Nel '96 fu candidato nel collegio senatoriale di Cuneo per il Polo, nelle file di Alleanza Nazionale, ma non fu eletto. E' morto a Torino il 5 agosto del 2000.




pallanimred.gif (323 byte) Altiero Spinelli

Nacque a Roma il 31 agosto 1907. Nel 1924, diciassettenne, aderì al partito comunista e divenne segretario interregionale della gioventù comunista nel centro Italia, per poi, dopo aver subito una condanna al confino di polizia nel 1926 - subito dopo l'entrata in vigore delle leggi speciali - passare in clandestinità e trasferirsi nel Nord Italia. Il 3 giugno 1927,  non ancora ventenne, veniva arrestato a Milano e tradotto a Roma per essere processato dal Tribunale speciale e viene condannato a 16 anni e 8 mesi di carcere. Dopo un primo periodo, di circa un anno, trascorso a Regina Coeli a Roma in attesa di processo e in attesa di trasferimento, Spinelli viene imprigionato a Lucca, dove resterà quasi 3 anni, e da dove verrà trasferito a Viterbo, per poi essere definitivamente incarcerato a Civitavecchia nel 1932 insieme a molti altri fra i massimi esponenti dell'antifascismo. Nel carcere di Civitavecchia, inoltre, ha occasione di conoscere ed entrare in rapporti di stretta amicizia, nonché di discutere tesi di matrice culturale diversa, con alcuni fra i principali esponenti dell'antifascismo, fra cui Umberto Terracini e Leo Valiani. Pur godendo di due amnistie decise dal regime in occasione del decennale della Marcia su Roma e in occasione di un matrimonio in casa Savoia, rispettivamente di cinque e due anni, il 28 gennaio del 1937, scontato il periodo di carcerazione, Spinelli, anziché‚ venire liberato, subisce un'ulteriore, arbitraria condanna a cinque anni di confino, che poi diventeranno più di sei, e viene tradotto prima a Ponza e poi alla destinazione definitiva di Ventotene. Anche in questo caso la decisione del Tribunale speciale venne motivata con l'essere Spinelli uno dei capi riconosciuti del partito comunista (da cui era stato espulso, ironia della sorte, nel 1937 poco dopo l'arrivo al confino di Ponza per dissensi sulla valutazione dell'opera e della figura di Stalin). Gli anni del confino sono gli anni fondamentali della svolta politica di Altiero Spinelli; a Ventotene fa gli incontri fondamentali della sua vita: Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann (sorella del futuro Premio Nobel per l'economia Otto Albert Hirschmann e futura moglie di Spinelli). Nel corso della permanenza sull'isola ha modo di discutere approfonditamente e "liberamente" con svariati intellettuali e uomini politici delle più disparate matrici culturali ed ha l'intuizione che porterà alla redazione del "Manifesto per un'Europa Libera e Unita" (meglio noto come "Manifesto di Ventotene"). Il Manifesto presenta alcune concezioni politiche nuove, ovvero che la battaglia per la federazione europea è una battaglia da fare subito e che questa azione avrebbe creato un nuovo spartiacque fra le correnti politiche. Ma dal Manifesto si traggono anche due importantissime indicazioni strategiche, ovvero che è necessario creare un Movimento Federalista Europeo e che, basandosi sulla intuizione che anche in altri paesi europei dovessero esserci persone che erano giunte a simili conclusioni, questa esperienza organizzativa avrebbe dovuto essere estesa su scala sovranazionale. Finalmente, dopo le dimissioni di Mussolini da capo del Governo, il 4 agosto 1943 Spinelli viene liberato e torna a Roma, da dove, quasi immediatamente, si reca a Milano. Qui, il 27 e 28 agosto 1943, nel corso di una riunione in casa di Mario Rollier, fonda il Movimento Federalista Europeo, insieme a Ernesto Rossi e vari altri esponenti, tra cui Manlio Rossi Doria, Leone Ginsburg, Vittorio Foa.  Dopo pochissimi giorni e dopo aver scritto alcuni documenti da diffondere attraverso i canali clandestini nel circuito della Resistenza, Spinelli, insieme a Ursula Hirschmann raggiunge Ernesto Rossi e altri in Svizzera dove pone le basi per la battaglia federalista sovranazionale. Dalla Svizzera mantiene le fila del Movimento in Italia, scrivendo numerosi saggi e collaborando alla diffusione di materiale antifascista negli altri paesi. Riattiva, inoltre, vecchi contatti, fra cui quello con il già citato Leo Valiani e ha l'opportunità di conoscere altri antifascisti esuli, fra cui Adriano Olivetti. Dalla Svizzera Spinelli e altri importanti esuli intrattengono costanti rapporti epistolari con il Comitato di Liberazione Nazionale e coordinano la pubblicazione di numerose riviste, documenti, libri. Su iniziativa di Ernesto Rossi, Luigi Einaudi viene coinvolto nell'attività del MFE. L'azione internazionale svolta dagli estensori del Manifesto di Ventotene, pur con le oggettive difficoltà del periodo storico, comincia a dare i suoi primi frutti e in Francia, nel 1944, nasce il CFFE (Comitato Francese per la Federazione Europea). L'organizzazione francese, nei documenti costitutivi, sposa integralmente le tesi che Spinelli andava quotidianamente elaborando, fra cui quella di lottare perché la federazione europea fosse la condizione prima del ritorno del continente alla democrazia. Dopo aver constatato il successo dell'iniziativa sovranazionale, Spinelli decide di rientrare in Italia e partecipa attivamente alla Resistenza dal settembre 1944 al gennaio 1945, aderendo al Partito d'Azione, della cui attività fu uno degli ispiratori e per il quale scrisse il "Progetto di Piano di Lavoro", fino a quando, anche su pressione di altri importanti esponenti politici, decide di varcare clandestinamente la frontiera italiana per recarsi a Parigi, dove, insieme ad altri esponenti della Resistenza europea fonda il Comitato Internazionale per la Federazione Europea. Nel 1946 Spinelli e Rossi escono dal Movimento Federalista Europeo, ritenendo ormai assai improbabile la realizzazione del loro progetto di Europa libera e federata. Era infatti il periodo di spartizione fra le grandi potenze del controllo territoriale del Vecchio Continente. L'abbandono di Spinelli non è però definitivo; infatti nel corso della sua storia più volte rientrerà nel Movimento per poi abbandonarlo nel momento in cui riteneva che fosse più produttiva una lotta sviluppata con altri mezzi. Agli inizi degli anni cinquanta, l'azione di Spinelli e del Movimento federalista Europeo sul governo italiano si rivela decisiva per fare della costituente europea la questione centrale nelle trattative intergovernative per la creazione della Comunità Europea di difesa (CED). E' grazie a questa azione che l' Assemblea ad hoc (l'assemblea allargata della CECA) viene incaricata di elaborare lo statuto della Comunità politica europea, cioè dell'organismo politico incaricato di controllare l'esercito europeo. L'Assemblea assolve al suo mandato elaborando un testo di costituzione, ma la sua opera viene vanificata dalla mancata ratifica della CED da parte della Francia (1954). Nonostante questa sconfitta, fra il 1954 e il 1960 Spinelli e il MFE rilanciano la lotta federalista impegnandosi per mobilitare l'europeismo ormai diffuso in una protesta popolare crescente - azione del Congresso del Popolo europeo - diretta contro la legittimità stessa degli stati nazionali. Dopo aver abbandonato il Movimento Federalista Europeo negli anni sessanta, nel 1970 viene nominato membro della Commissione esecutiva della CEE. Dal 1976 al 1986 è membro del Parlamento europeo, divenendo nel 1984 presidente della Commissione istituzionale. E' nel Parlamento europeo che Spinelli, per la seconda volta, ha l'opportunità di avviare un'azione di tipo costituzionale, promuovendo all'interno del Parlamento europeo, ormai eletto direttamente, l'elaborazione di un Progetto di Trattato di Unione europea (approvato a larghissima maggioranza il 14 febbraio 1984). Questa iniziativa viene frenata e insabbiata dai governi nazionali, che nel 1985 varano il meno ambizioso Atto Unico europeo. Essa segna tuttavia l'ingresso sulla scena europea del Parlamento europeo come nuovo soggetto politico nel processo di democratizzazione delle istituzioni comunitarie. Muore a Roma il 23 maggio 1986.

(biografia e bibliografia a cura di Alberto Soave; le notizie finali sono tratte dal sito della Gioventù Federalista Europea)

 

pallanimred.gif (323 byte) Gianluca Spinola

Nato a Roma il 23 dicembre 1919, dal marchese Luigi e dalla contessa Luisa Elia, apparteneva al ramo romano degli Spinola, una antica ed illustre casata nobiliare di origine genovese e dal lato materno agli Elia, nobile e facoltosa famiglia piemontese. Compiuti gli studi liceali fu arruolato nell'Arma di Cavalleria, prima alla scuola di Pinerolo e poi nel Reggimento Guide, a Parma, con il grado di tenente. Di carattere forte e generoso aborriva la mollezza e l'opportunismo e nella tragedia della guerra scelse sempre di essere in prima linea, al pari del più umile soldato. Impaziente di andare al fronte fece domanda per essere mandato in Africa: fu arruolato negli Squadroni Spahis sulla frontiera tunisina e, dopo, combatté sul fronte cirenaico negli squadroni corazzati. Rimpatriato a seguito di una grave malattia, fu assegnato ai Reparti corazzati della scuola di Civitavecchia. La proclamazione dell'Armistizio lo colse nei pressi di Firenze. Lo sfacelo dell'esercito e l'invasione dell'Italia da parte delle forze armate tedesche provocarono in Gianluca una generosa reazione. Egli si sentì moralmente impegnato a non restare passivo e, come estremo sacrificio, a dare la sua giovane vita per "salvare l'onore della Patria". Con la sua autoblinda si diede a percorrere le strade della bassa Val di Sieve, tendendo imboscate ai tedeschi che transitavano per la via Aretina. Le sue azioni ben presto si resero largamente note e il suo nome era sulla bocca di molti.Data la vicinanza del teatro di guerra con l'abitazione ove si trovava sfollata la sua giovane sposa, per non esporla a temute rappresaglie nazifasciste, decise di trasferirsi presso Volterra, ad Ariano, nella villa che la famiglia Elia-Formigli vi possedeva fin dalla fine degli anni Trenta, e che era al centro della vastissima tenuta agricola Ariano-Casette, comprendente diciotto grandi poderi. Probabilmente lo accompagnò suo cugino Franco Stucchi Prinetti e lo raggiunsero, in date successive, due ex militari sardi, con i quali costituì, di fatto, una banda partigiana che seguitò a molestare e danneggiare il nemico, entrò in relazione coi componenti il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN) e vagò da un luogo all'altro, portando viveri, munizioni, materiale recuperato dai lanci alleati, per alimentare la Resistenza e la lotta anti-tedesca. Gianluca venne a conoscenza che la sua presenza nel volterrano era stata individuata dal nemico, ma, nonostante fosse diventato padre di una bambina che adorava, e che sapesse di un'altra gravidanza della moglie Maria Concetta Giuntini, non abbandonò, anzi intensificò la lotta, mettendosi in stretto contatto coi partigiani delle Brigate Garibaldi "Spartaco Lavagnini" e "Guido Boscaglia", operanti nella zona montuosa compresa tra Colle Val d'Elsa, Volterra e Pomarance, dedicandosi a pericolosi atti di sabotaggio ai ponti della strada statale N. 68, Volterra-Colle Val d'Elsa, ove transitavano ingenti truppe tedesche in ritirata. Alle ore 21 del 12 giugno 1944, insieme con altri partigiani della sua "banda": Vittorio Vargiu e Francesco Piredda, rispettivamente ex attendente ed ex sottufficiale dello Spinola, il cugino Franco Stucchi Prinetti, una guardia campestre della Tenuta di Ariano, Bruno Cappelletti e Basilio Aruffo, uscì dalla fattoria avviandosi con un camioncino sulla strada provinciale. L’attacco ad una colonna motorizzata tedesca causò ingenti perdite al nemico, ma quattro partigiani - tra cui Gianluca - furono intercettati, arrestati, torturati nel tetro carcere del "Mastio" di Volterra, poi portati in incognito a Castelnuovo di Val di Cecina e, il 14 giugno 1944, il fatale giorno della fucilazione dei 77 minatori di Niccioleta, fucilati e abbandonati irriconoscibili sul terreno.

(biografia a cura di Carlo Groppi)

 

home         ricerca        

anpi

        

dibattito

        scrivici